DIALOGHI SISTEMICI
Conversazioni a partire dalla clinica ma non solo, in cerca di differenze che fanno differenze.
Blues in C. Leggerezza e molteplicità in Gianfranco Cecchin
Sono trascorsi dieci anni da quella notte del febbraio del 2004 in cui Gianfranco Cecchin morì in un incidente d'auto sulla Venezia - Milano.
La scuola di specializzazione del Centro Milanese di Terapia della Famiglia, che Cecchin diresse insieme a Luigi Boscolo, ha tenuto per i suoi allievi l'8 febbraio 2014 presso l'auditorium del PIME a Milano, una lezione su "Il contributo scientifico e professionale di Gianfranco Cecchin", in cui i Docenti del Centro hanno illustrato i modi in cui nel proprio lavoro e nella propria ricerca hanno utilizzato spunti e temi cecchiniani, che dimostrano tuttora un'attualità lontana dall'esaurirsi. Gabriela Gaspari si è dedicata a "curiosità"; Enrico Cazzaniga a "irriverenza"; Vincenzo De Bustis a "pregiudizi"; Pietro Barbetta a "ironia"; Cinzia Giordano a "polifonia" e Massimo Schinco a "responsabilità". Io mi son preso "molteplicità".
Questo post ricostruisce (con l'aiuto della memoria e degli appunti) il mio intervento, con più di qualche puntualizzazione e integrazione; ma ho operato anche dei tagli, perché c'era molta carne al fuoco.
Per cucire insieme qualche idea su come il pensiero di Gianfranco Cecchin mi abbia ispirato nella mia riflessione e nella mia pratica clinica, ho cercato un modo di essere insieme fedele e infedele a quel pensiero. D'altra parte penso che se i nostri Maestri ci hanno affidato un mandato, non è quello di celebrarli o di commemorarli o di venerarli, ma di utilizzarli.
Dunque dovevo scegliere una parola chiave che riguardasse Cecchin e che trovassi in qualche modo rilevante nel mio lavoro: senza pensarci ho scelto subito "molteplicità". Ricordavo la sua osservazione a proposito dell'uomo post-moderno, il cui vantaggio — secondo Cecchin — sarebbe quello di potersi trovare a proprio agio in contesti differenti, potendo contare su un "sé" molteplice e sfaccettato. Sebbene il mondo moderno gli richieda di rispondere a molteplici compiti evolutivi in modi sempre differenti, molteplici sono anche le sue risorse e le angolazioni da cui guardare a sé stesso.
Mi portai a casa quella conversazione, ai tempi della formazione in via Leopardi, che fu uno dei primi barlumi di quell'idea che si chiarì anni dopo e che mi portò a usare le metafore dell'ipertesto e del virtuale per descrivere la complessità del sé e di conseguenza delle narrazioni che emergono in terapia (in Giuliani e Nascimbene, 2009, "La terapia come ipertesto”, Antigone: di questo mio sviluppo ho reso sommariamente conto nella mia lezione su Cecchin; qui, per esigenze di organicità del discorso, stralcio la questione per rimandarla magari a un prossimo post).
Ma "molteplicità", parlando di Cecchin, rimanda anche alla sua idea che molteplici spiegazioni e molteplici ipotesi sulla realtà non solo la cogliessero meglio, ma evitassero al clinico di restare prigioniero di una spiegazione "giusta" e finale, e di perdere così la curiosità di conoscere. è rimasta proverbiale l'ammonizione che rivolgeva agli allievi di "flirtare con le ipotesi senza sposarle”!
Poi ho pensato che per parlare della molteplicità così come la intendeva Cecchin, dovevo parlare della sua leggerezza. Se sono possibili più descrizioni, se nessuna di queste è vera e definitiva, allora ciascuna di esse gode di un certo grado di leggerezza. A differenza, per esempio, di una diagnosi, che per definizione è vera o è sbagliata, e che porta con sé tutta la pesantezza illocutiva dell'attestazione di un'identità immodificabile.
In un certo senso, la storia della terapia familiare — di quel grande ramo della terapia familiare sistemica che prende nutrimento dal lavoro di Boscolo e Cecchin e di tutti i clinici che ne hanno intrecciato la storia — è una storia di progressiva sottrazione di pesantezza: non solo sottrazione di autorità (vedi tutta la letteratura degli anni Novanta che metteva in discussione il ruolo di "esperto" del clinico), ma anche sottrazione di controllo, di strategia, di "potere".
Cecchin è stato un protagonista di questo processo, un fautore di leggerezza e un terapeuta capace di volare con lievità (rispettosa lievità) sui guai delle persone e delle famiglie che si rivolgevano a lui.
Insomma, quello che Italo Calvino dice si sé nella prima delle sue "Lezioni americane", quella dedicata appunto alla leggerezza, avrebbe potuto sottoscriverlo Gianfranco Cecchin: "…la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio." C'è da dire che in nessun modo questa leggerezza è sottrazione di sostanza e di valore: anzi, sostiene Calvino, la "leggerezza della frivolezza", quella sì, è pesante e opaca ed è la nemica giurata della leggerezza di cui parliamo.
Parimenti quel che Calvino scrive di Carlo Emilio Gadda — lo scrittore del "Pasticciaccio brutto de Via Merulana", che declinava la parola "causalità" sempre al plurale — potrebbe riguardarlo: "…cercò per tutta la sua vita di rappresentare il mondo come un garbuglio, o groviglio, o gomitolo, di rappresentarlo senza attenuarne affatto l'inestricabile complessità, o per meglio dire la presenza simultanea degli elementi più eterogenei che concorrono a determinare ogni evento. A questa visione (…) era condotto dalla sua formazione intellettuale, dal suo temperamento di scrittore, dalla sua nevrosi." è la quinta delle "lezioni": quella sulla molteplicità, appunto.
Di Cecchin si è parlato talvolta paragonandolo a Wolfgang Amadeus Mozart: forse per la comune genialità, o per l'irriverenza tipica di entrambi. Così come Boscolo ha evocato spesso la figura di Giuseppe Verdi, probabilmente per la sua italica passionalità. Propongo un altro accostamento, che pure mi pare ragionevole per il carattere innovativo che l'opera di entrambi ha avuto, e persino per una certa somiglianza somatica. A me Boscolo e Cecchin hanno sempre fatto pensare a Dizzy Gillespie e Charlie Parker. Due padri del jazz moderno — erano gli anni dello stile be-bop — per due padri della psicoterapia sistemica (peraltro, a differenza di Mozart e Verdi, Gillespie e Parker sono stati coevi, hanno suonato a lungo insieme e insieme portano la paternità di una delle più importanti rivoluzioni nello sviluppo di quella peculiare forma di conversazione che è la musica improvvisata).
Quello che vorrei dire è che una seduta di Gianfranco Cecchin segue le regole di una improvvisazione jazz. Cosa che si può dire anche di Luigi Boscolo — quanto c'entrerà il fatto di aver trascorso buona parte degli anni Sessanta a New York, con base al Greenwich Village? —, e il confronto richiederebbe una approfondita analisi delle differenze stilistiche: per ora concentriamoci su Cecchin e sulla sua leggerezza.
Questo genere di improvvisazione è un grande esercizio di leggerezza, molteplicità e irriverenza. Un particolare prodotto di — direbbe Gregory Bateson — rigore e immaginazione. La seconda ha bisogno del primo, di regole robuste che traccino il perimetro entro il quale l'immaginazione può dispiegarsi. Altrimenti non è immaginazione: è qualcos'altro. Charles Mingus disse un giorno a Timothy Leary: "You can't improvise on nothin', man. You gotta improvise on somethin'." Una frase restata proverbiale fu pronunciata da Thelonious Monk dopo una seduta di improvvisazione: "I made the wrong mistakes." Gli errori sbagliati. Significa che lo spazio di errore, di deviazione da una norma, è necessario ed è grande, ma non infinito: ci sono errori "giusti" ed errori "sbagliati".
Per continuare con le citazioni, proprio Charlie Parker raccomandò: "First, master your instrument. Then forget all that shit and play!". Che significa che essere irriverenti verso le regole, dimenticarle per dedicarsi solo a suonare, è roba per chi le regole le conosce bene. Troppo comodo essere irriverenti verso regole che non esistono o che non si conosconi, son capaci tutti di evadere da una prigione senza sbarre.
Di questo parla — di questo e d'altro, ma in gran parte di questo — uno dei libri più diffusi di Cecchin, "Irriverenza", scritto a sei mani con Gerry Lane e Wendel A. Ray. Scherzando, dico sempre che bisognerebbe tenerlo segreto agli allievi dei primi anni. è uno scherzo, sì, ma il rischio di confondere l'irriverenza col potersi permettere di tutto, o per lo meno di pensare di colmare con l'irriverenza quello che non si sa o non si sa fare, è grande.
Invece, dicevo, ci sono le regole. E se l'esecuzione di un pezzo fatto per gran parte d'improvvisazione, come quello sopra, è un esercizio di leggerezza e di molteplicità, è soprattutto perché l'una e l'altra si danno delle regole: leggerezza a certe condizioni, molteplicità entro certi limiti.
Secondo lo schema consolidato, il pezzo si articola nell'esposizione di un tema — è quel che fanno all'inizio Parker e Gillespie —; nell'improvvisazione dei membri del gruppo su quel tema; e infine nell'esecuzione, di nuovo, del tema originario.
è come raccontare una storia e poi cominciare a guardarla da altri punti di vista; tentare descrizioni nuove; provare ad aggiungere dettagli; raccontarla in un ordine differente; e infine provare a raccontarla come era all'inizio per vedere come "suona" diversa.
Viene in mente il poeta T.S. Eliot — che non a caso le sue compromissioni col jazz le ebbe —, che nei "4 Quartetti" scriveva "Non finiremo mai di esplorare, e dopo aver tanto esplorato saremo al punto di partenza e finalmente conosceremo il luogo per la prima volta."
Faccio una digressione.
Quando a lezione studiamo il contributo dei maestri, guardiamo spesso un video in cui appaiono Boscolo e Cecchin in una vecchia intervista di una trentina di anni fa, in lingua inglese. A un certo punto Cecchin dice qualcosa che lascia interdetti gli allievi — e la prima volta ebbe un effetto simile anche su di me. Cecchin afferma — al minuto 11:15 di questo video —, con la leggerezza con cui era solito dire delle cose enormi:
"Noi creiamo il contesto, nel quale siamo noi che decidiamo cosa andremo a fare. Siamo noi a dettar legge. Diciamo: quello è lo specchio unidirezionale; ci sono delle persone dietro lo specchio, e noi vi rivolgeremo delle domande. Il senso è: noi non siamo qui solo per ascoltare voi; come nelle sedute di terapia tradizionali in cui si comincia con una frase del tipo: qual è il vostro problema? Ditemi cosa volete fare, c'è qualcosa di cui vorreste parlare oggi? Noi non poniamo mai queste domande che sono tipiche delle terapie tradizionali. Di solito loro dicono: trattiamo l'argomento soldi; e il terapeuta: ok, parliamo dei soldi. Propongono: parliamo dei rapporti, e così via.
Decido io di cosa parleremo. Sono io quello che fa le domande, e non sono solo. Spiego: ci sono persone al di là dello specchio che voi non vedete. E così questa diventa una situazione molto potente: il setting stesso pone già la famiglia in un contesto che non è amicale ed elimina le cosiddette chiacchiere da tè pomeridiano, comuni nelle terapie, del tipo: eccoci qui riuniti, da persone civili che discutono dei problemi. No, noi qui abbiamo lo specchio, la registrazione e facciamo domande. Diciamo loro che stiamo facendo il nostro lavoro. Non vogliamo essere né amichevoli né distanti. Non desideriamo stabilire alcuna relazione particolare con loro (…) Il lavoro è lavoro."
Cosa intende? Sta forse promuovendo una terapia "scortese"? Sta difendendo una terapia "autoritaria", lui che è stato uno degli artefici della terapia postmoderna e della desacralizzazione ironica del ruolo dell'esperto? Chiaro che non può essere.
Allora dobbiamo pensare che la stia sparando grossa? La sta sparando grossa. Forse perché un certo andazzo da terapeuti "piacioni" non merita comprensione; ma forse anche perché sta parlando di un aspetto talmente importante che vale il rischio di sbilanciarsi un po': e cioè del fatto che la conversazione terapeutica ha bisogno di una tensione narrativa.
Si parla sempre di approccio narrativo in terapia e si dimentica che narrazione non è soltanto raccontare le cose così come vengono in mente: una narrazione ha delle regole e ha una struttura.
E la prima regola di una narrazione è che bisogna evitare di usare una parola in più di quelle che sono davvero necessarie. È questione di peso specifico delle parole, ed è anche questione di ritmo, di quella tensione che, a sua volta, restituisce a ciascuna parola il peso che le serve — il peso, non la pesantezza: la pesantezza, semmai, la fanno tutte le parole di troppo.
Allo stesso modo, in un assolo jazz ogni nota ha un senso: lo sapevano bene i chitarristi blues autodidatti, l'hanno dimenticato questi nuovi mostri del virtuosismo che rovesciano sul pubblico note come se piovesse, per il solo piacere narcisistico di ascoltarsi, o per insopportabile sfoggio di facondia, o semplicemente perché è più "carino".
Ecco, parlavo della seduta come di una improvvisazione jazz.
Come in una session di be-bop, qualcuno enuncia il tema: la famiglia racconta il proprio problema e la propria storia. Intorno ad essi si costruiranno la conversazione e i "rimandi" da uno strumento all'altro, da una voce alle altre.
E infatti il terapeuta comincerà a improvvisare, guidato dalla sua curiosità e dalla sua esperienza: farà domande su quella storia, e ciascuno dei presenti aggiungerà qualcosa.
Più di un autore ha provato a codificare le regole utili a costruire quelle domande: Karl Tomm ha catalogato le domande a seconda del loro utilizzo, Peggy Penn ha scritto sulle domande sul futuro, Carlos Sluzki ha parlato dei passaggi attraverso i quali le trame narrative, in terapia, si trasformano.
Un giorno sarebbe interessante mettere a confronto le, chiamiamole così, "regole trasformative" che guidano il terapeuta nella conversazione, con le "regole trasformative" che lo strumentista jazz ha imparato per intervenire su un tema e modificarlo attraverso l'improvvisazione.
Cecchin faceva "piccole" domande, apparentemente ingenue. Girava intorno a un argomento, come Parker ripeteva due o tre volte una frase, esitava per poi partire con lo sviluppo vero e proprio della sua improvvisazione.
Spesso il lavoro di trasformazione della storia è scandito dall'uscita del terapeuta dalla stanza, per andare a consultarsi con i colleghi dietro lo specchio. Al suo rientro spesso si ascolta un'altra musica, un cambio di ritmo. Sono i momenti in cui il tema della seduta conosce le variazioni più creative e inattese.
Quale che sia la forma delle domande, esse nascono dalle ipotesi che il terapeuta e l'équipe hanno formulato sulle informazioni raccolte: le domande saranno utili a verificare l'ipotesi o a scartarla: l'ipotesi confermata o il vuoto lasciato da un'ipotesi abbandonata suggeriranno la domanda successiva. E così via finché sarà utile. Si succedono le domande, e le angolazioni dalle quali si rilegge la storia, come si succedono gli assolo dei diversi musicisti: ciascuno avrà bene in mente il tema iniziale, e nel frattempo avrà ascoltato l'intervento dell'interprete che lo avrà preceduto. Si muoveranno ciascuno, dunque, in un contesto diverso: ad ogni passaggio di parola successivo, ciascuno saprà qualcosa di più di chi lo ha preceduto, perché il contesto sarà il prodotto di una storia condivisa all'inizio e di quanto ciascuna voce ha portato di nuovo.
È come se ciascuna di quelle "esplorazioni" costituisse una versione possibile di un mondo, di quel piccolo mondo che è il tema di una canzone. Direbbe Bruner: come se fosse un mondo al congiuntivo. Non ha la definitività né il peso di un indicativo: piuttosto la provvisorietà di una ipotesi.
Nell'ultima parte della seduta, il terapeuta smette di fare domande e porta alla famiglia il cosiddetto "intervento". Cioè connette le informazioni emerse in seduta, senza lasciar cadere nulla, e torna a raccontare il "tema", cioè la storia della famiglia, in un modo completamente nuovo. È la stessa storia, ma è una storia completamente differente.
Se questa descrizione può suggerire a chi non ha una conoscenza diretta della pratica della terapia della famiglia che la storia finale sia una complessa e pesante architettura che comprende le microarchitetture dei singoli passaggi, bisogna dire che le storie che Cecchin offriva al termine della seduta erano storie costruite sottraendo. Qui stava la leggerezza delle sue narrazioni terapeutiche, nel saper connettere tutte le cose importanti in una storia che nella sua secchezza conteneva molte più possibilità di quante se ne potesse trovare nelle pesanti e lunghe descrizioni di una vita segnata da un conflitto, un sintomo, un comportamento inspiegabile di un membro della famiglia.
Cosa impediva che le persone ricevessero quelle storie come delle insopportabili semplificazioni, e cosa faceva sì, invece, che le riconoscessero come attendibili e sorprendenti variazioni sul tema che avevano portato in terapia?
Più o meno c'entra con quello che fa sentire le persone soddisfatte o, al contrario, scontente e un po' ingannate quando escono dal cinema: una storia, lo ripeto, ha anche delle regole e una struttura. Che sono importanti perché diventano una questione di onestà. Un regista che dopo tre ore di film mette il protagonista nella spiacevole situazione di essere con la schiena contro un muro, minacciato dai tre cattivi, e fa passare un piccione che distrae i bellimbusti permettendo al protagonista di divincolarsi e di stendere i nemici, ti sta prendendo per il bavero. Ti poteva risparmiare le tre ore di fatica, se voleva risolvere la questione con una soluzione così banale che spunta out of the blue.
In una buona storia nulla accade per caso: quel che succede nasce da qualche altra parte — dentro la storia — e tutto quel che succede deve portare da qualche parte.
C'è una massima di Anton Cechov che prescrive che se nella prima scena c'è un fucile appeso alla parete, prima della fine quel fucile deve aver sparato.
All'inverso, se qualcuno spara all'ultima scena, quell'arma doveva essere da qualche parte anche prima. Non può saltare fuori all'improvviso. Nel finale di una buona storia non c'è nulla che non sia stato preparato con pazienza nel corso della narrazione. Così come l'esposizione finale di un tema nella pratica dell'improvvisazione è un ritorno all'inizio, l'intervento finale di una seduta si connette con tutto quello che è successo prima: lo contiene, anche se in un'altra forma e magari con molto meno peso.
Nell'evoluzione della "forma-seduta", diciamo così, per prendere a prestito dal gergo della musica, l'efficacia di quella storia finale la si è diluita nell'arco di tutta la seduta, sottraendo peso a quel rituale che vedeva da una parte la famiglia che ascoltava in silenzio le conclusioni del terapeuta, e dall'altra il terapeuta che misurava i gesti, il tono e il volume della voce, dosava le sfumature del linguaggio per far meglio comprendere la storia nuova. Si è visto che tutto quel che accadeva nell'arco della conversazione — non soltanto il finale — era in grado di produrre informazione e di introdurre novità. Ed è vero. Questa consapevolezza ha portato la seduta ad assomigliare più a una conversazione libera, il ritmo scandito ha ceduto sempre più a un fluire leggero. E però, riguardando le sedute di Gianfranco Cecchin, si trovano delle ragioni per tornare a valorizzare quel modo di "suonare": concentrare la condivisione delle ipotesi del terapeuta nel finale della seduta anziché seminarle nell'arco della conversazione. E la ragione che mi sembra più convincente è che le informazioni, nel momento in cui emergono in seduta, nel momento in cui ne avvertiamo ancora concretamente l'eco nelle orecchie, hanno il massimo del loro "peso". Se poi mi affretto a discuterle, contribuisco a ipostatizzarle, a dar loro uno statuto di realtà, a dar loro sostanza reale. Insomma: se assisto a una seduta di improvvisazione e accendo il registratore invece che preoccuparmi soltanto di lasciarmi attraversare dalla musica, quelle note diventano un "testo". La metafora quantistica è d'aiuto: le "cose" diventano "cose" quando interviene l'osservatore. Fino ad allora erano possibilità, erano virtualità, erano differenze.
Se invece lascio che le storie fluttuino nella stanza, se mi prendo il tempo di pensarci e continuo a fare domande, quelle storie diventano più flessibili, più manipolabili, meno concrete: potenzialmente storie molteplici. La fine della seduta è così il momento in cui esse sono al massimo della loro virtualità.
Nel pensiero che ha dato origine a una terapia pensata come flusso di conversazione, il terapeuta dovrebbe essere sempre trasparente e discutere praticamente in tempo reale quello che pensa del cliente o della famiglia: ma un'altra condizione che ci lascia insoddisfatti di una storia è che l'autore o il regista ci voglia dire tutto, che non sappia aspettare il momento giusto: o che non gli sia permesso, perché — come in televisione, ad esempio — è la scansione degli stacchi pubblicitari che decide quanto si deve dire, e quando: cioè prima possibile, prima che lo spettatore si stanchi di attendere. Tutto diventa trasparente e ovvio, e ci risparmia la fatica di pensare e di essere spettatori attivi. Si neutralizza quella "tensione narrativa" di cui dicevamo.
Dopo la provvisorietà delle versioni passeggere, delle improvvisazioni sul tema che si ascoltano nell'arco della seduta, quella storia finale godrà di una certa stabilità e di un certo grado di realtà condivisa: ma non per molto, giacché nella seduta successiva essa tornerà ad essere una storia tra le storie, oggetto anch'essa di riscrittura e improvvisazione. La terapia è un continuo viaggio fra virtuale e attuale e poi di nuovo virtuale e poi da capo ancora.
Dicevo dell'improvvisazione su una struttura come esercizio di leggerezza e molteplicità, ma anche di irriverenza. Questo terzo elemento è tanto importante quanto dimenticato: oggi, quando dei musicisti riarrangiano una canzone, o la riutilizzano per improvvisare, questo è considerato un omaggio. Lo si fa come riconoscimento a un autore che si stima, lo si fa per una canzone che si ritiene particolarmente capace di ispirare la creatività.
Un tempo non era proprio così: per molti musicisti neri, prendere una canzone di successo era un atto di riappropriazione. La musica bianca, il musical, avevano rubato ed edulcorato stilemi e creazioni della musica nera e ne avevano ricavato gratificazioni e successo (la stessa "Hot House" del video poco più su fu composta da Tadd Dameron che però utilizzò la struttura armonica di "What is this thing called love" di Cole Porter). Così per il jazz di quel periodo rifare una canzone non era un modo di omaggiare uno script, quanto un'operazione irriverente, era spingere alle estreme conseguenze implicazioni di quella musica che nemmeno l'autore poteva immaginare.
Spero che questo tentativo di connettere la terapia con espressioni artistiche e letterarie non appaia fuori luogo. James Hillman raccomandava di considerare la terapia un'attività apparentata, più che con la scienza medica, con l'attività dei romanzieri. Ecco: tutto quanto il lavoro di Gianfranco Cecchin è un formidabile contributo a questo ricollocamento dell'arte terapeutica.