Il problema della corporeità. La mano come esemplificazione.

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20 gennaio, 2020 - 16:51

Quando mi viene chiesto da quanto sono io qui,

io rispondo “Un secondo…” o “Un giorno…” o “Un secolo”.

Tutto dipende da che cosa io intendo

per “qui…” e “io…” e “sono”

Samuel Beckett

 

Nota introduttiva di Sergio Mellina.

Prima della diffusione della rete - circa mezzo secolo fa - ho avuto l’onore e il piacere, di occuparmi della redazione de Il Lavoro Neuropsichiatrico, la rivista cartacea dell’Ospedale Psichiatrico Provinciale Santa Maria della Pietà di Roma [01]. Allora il prestigioso periodico romano fondato da Ugo Cerletti e Francesco Bonfiglio - secondo forse a quello di Reggio Emilia, la Rivista Sperimentale di Freniatria - era diretto da Gerlando Lo Cascio e Mario Gozzano. Prima della “Basaglia-Orsini”, noi giovani psichiatri ribelli e irrequieti, pensavamo che conquistare la redazione di una importante rivista psichiatrica fosse un obbiettivo strategico per oltrepassare i manicomi. Ebbene, io, oltre a correggere occhiutamente le bozze di tutti gli Atti dei Congressi della SIP, recandomi spesso e lungamente nella tipografia dell’Amministrazione Provinciale, appena fuori l’ospedale, a Monte Mario, avevo progettato anche un fascicolo speciale con cadenza periodica intitolato “problemi e prospettive di assistenza psichiatrica” che curavo personalmente. Mi faceva da guida Luigi (Giggi), un tipografo testaccino, esperto, cordiale e sapiente, che però aveva due problemi, il saturnismo e una deriva alcolica, in pratica due malattie quasi professionali dei tipografi del tempo. Nei miei riguardi aveva un atteggiamento paternalistico e didattico che mi consentì d’imparare molte cose. Mi spiegava, tanto per fare un paio di esempi, che mi sono rimasti in mente, che la paga dei tipografi era sempre stata la più elevata fra gli operai, «Perchè sapevano legge e no li potevi fregà». E poi mi garantiva sulla bontà di un dato brandy nazionale fra le 4-5 marche in commercio, dicendomi: «Hai mai sentito fa’ la reclame in televisione dello ... nooo! Guarda che non te sto a di’ der fernet, che nun me piace, perchè è già tanto amara la vita ma der brandy. L’ha mai inteso? No! Ecchete er segnale».

Come augurio di buon anno, entrando nel 2020 voglio proporre ai lettori di Pol.It. Psychiatry on line un vecchio testo di Danilo Cargnello presentato al XXX Congresso della SIP. Quello di Milano, 52 anni fa, rimasto famoso per la ruvida e prolungata contestazione scatologica. Si tratta della Relazione introduttiva dei tre simposi “La psicopatologia della corporeità” “Sonno sogni coscienza e relativa psicopatologia” “Biologia delle distimie”. Il maestro di Conegliano Veneto aprì i lavori simposiali della prima tornata con una memorabile lezione intitolata “Il problema della corporeità”, al Palazzo dell’Amministrazione Provinciale di Milano. Era un mercoledì 16 ottobre 1968. Il titolo si poteva leggere nei depliant distribuiti col materiale pubblicitario nella cartellina omaggio ai congressisti, per l’occasione. Ma la presentazione cartacea - che ancor oggi, come allora, dice del carattere e dello spessore culturale di Danilo Cargnello – così si annunciava «Ospedale psichiatrico provinciale di Brescia Direttore. Prof. D. Cargnello. Il problema della corporeità». Per tutto il tempo della lettura, che non fu breve, nella sala gremita non si sentì volare una mosca. Io ero accanto a Bruno Callieri, che mi fungeva da “Virgilio”, per dire una battuta esagerata, (per me, non per lui), spiegandomi e facendomi notare tutti i dettagli e soprattutto commentando con me tutti “i non detto”. Il caro indimenticabile Bruno, che a Milano mi aveva raccomandato di non mancare assolutamente, perchè la psichiatria era in fermento e dunque c’era da ascoltare le novità che si preannunciavano epocali. Le sue profezie, infatti, si avverarono pienamente. Quel testo - che è comparso negli Atti del Congresso pubblicato da Il Lavoro Neuropsichiatrico [02] - era composto di quattro parti: 1) La mano come esemplificazione. 2) Somatologia. 3) Il corpo proprio. 4) Il mio corpo obiettivato.

Qui di seguito iniziamo col trascriverne intanto la prima, perchè contiene una premessa folgorante di tre righe che mi sono rimaste scolpite nella mente e mi risuonano ancora negli orecchi, tanto che voglio evidenziarle in neretto per trasmetterle a chi non c’era. La sua parola dritta e senza peli sulla lingua, oltre che forbita e incisiva come una punta di diamante, era rispettata dentro e fuori i circuiti universitari. Vorrei ancora sottolineare due elementi caratteristici di Cargnello che ci paiono dominanti nella sua biografia: la sua personalità non facile, unita alle straordinarie qualità didattiche. La lealtà e il disprezzo per le furbizie, giudicate meschine, che lo esclusero dall’accademia indirizzandolo verso alleanze non vincenti. La sua scrittura, nonostante i concetti difficili e l’infarcitura di parole attinte dal filosofia fenomenologica husserliana e binswangheriana, checché se ne possa dire, resta di una chiarezza esemplare. Le sue esemplificazioni sembrano sceneggiature cinematografiche. Pièce teatrali tratte dal mondo della vita. Non v’è chi non possa immaginare una rappresentazione teatrale con i giochi di luce per illuminare gli elementi scenici con un occhio di bue, luci e penombre, primi piani e sfondi. Dubbi amletici: essere un corpo, avere un corpo, esserne fuori, dentro, esperirlo, viverlo, perderlo ... Farci comprendere come la presenza si mondanizzi, si articoli con-l’altro umano in mille sfumature, nei modi dell’aggressività dell’amore, dell’amicizia ... Si nasconda, si ostenti, esista, ci si ostenda in modo irripetibile ... in un tempo, uno spazio, con suoni e colori unici. L’essere è nel mondo hic et nunc, la presenza è. La psicopatologia antropologica e fenomenologica ci insegna le modalità di accedere all’esplorazione di tutte queste categorie.

Per ultimo, ai lettori di Pol.it. Psychiatry on line, ricordo un mio vecchio articolo [03] in cui immaginavo (senza alcuna prova) come l’occasione di descrivere la scena di due amici veri e tenaci: uno valente neurologo, l’altro molto attivo, spericolato guidatore e, s’intuisce, non digiuno di medicina, neurologia e psicologica, non se la sia inventata di sana pianta. Potrebbe essersi ispirato alla presunta esperienza di un vero amico (Agostino Gemelli) che s’era rivolto a lui (Danilo Cargnello) a seguito di uno dei suoi catastrofici incidenti automobilistici. Non solo per avere una consulenza sulla sua salute personale, ma anche per avere la sua opinione su come si sarebbero dovute muovere le pedine sulla scacchiera delle cattedre psichiatriche del futuro. Non sono certo io ad aver inventato l’aforisma “A pensar male si fa peccato ma spesso s’indovina”. Non mi spaventa il peccato, amo la verità, non temo il delirio come esperienza psicopatologica.

Perchè le figure misteriose di Tizio e Caio non potrebbero essere l’amico frate Agostino Gemelli che, andando dall’amico neurologo Cargnello per controllarsi un nervo del “plesso brachiale” (uno dei sei più difficili del “periferico” del corpo umano), approfitta dell’occasione per chiedergli come vedrebbe una eventuale proposta di … Il frate potente aveva una guida alla Nuvolari, e in un paio di circostanze s’era letteralmente rotto l’osso del collo. Quella volta, al giorno di Santo Stefano del 1940, che tornando da Firenze a Bologna uscì fuori strada ad Anzola Predosa e finì al Rizzoli dove vi restò un paio di mesi con le stampelle? O quell’altra nell’estate del 1946 altrettanto rovinosa, ma meno grave? Agostino Gemelli necessitava di un neurologo riservato e personale. Danilo Cargnello sapeva fare anche quello alla bisogna.

 

Danilo Cargnello. Il problema della corporeità

 

I - UNA ESEMPLIFICAZIONE INTRODUTTIVA

 

Il tema che questo Simposio propone - la corporeità - non è esplicitamente mai ricorso nei Congressi della Società Italiana di Psichiatria. Anche per questo può essere utile - per amor di chiarezza - investirlo preliminarmente con una esemplificazione da ritenere come paradigmatica.

 

Tizio va a trovare in Clinica l’amico neurologo Caio per consultarlo circa alcuni penosi disturbi che avverte alla mano destra (parestesie, algie, impacci, ecc.) (a). I due amici, al ritrovarsi dopo lungo tempo si stringono calorosamente la mano (b). Tizio, poco dopo, informa Caio di quanto avverte (c). Questi lo fa accomodare in ambulatorio e, dopo una visita generale risultata negativa, esamina (d) con particolare diligenza la mano dell’amico. Tizio durante l’esame avverte e segue con apprensione la mano dell’esaminatore che tocca la sua (e). Caio alla fine gli comunica il proprio parere clinico, suggerisce una preliminare cura, ecc. Tizio, al commiato, stringe ancora calorosamente la mano dell’amico (b); e, al ritorno, ripensando a quanto questi gli ha detto cerca di integrare la diagnosi testé ascoltata con la soggettiva esperienza della propria mano destra (f). Caio, più tardi è preso da qualche dubbio diagnostico e va a rivedersi i capitoli che concernono la neurofisiologia e la neuropatologia della mano (g).

 

Domandiamoci ora: quali aspetti fenomenici e quali significazioni antropologiche sono venute ad assumere la mano destra rispettivamente di Tizio e di Caio nelle diverse fasi di questa sequenza? Attraverso quali modi l’uno e l’altro o entrambi sono trapassati, sia nell’esperirsi che nell’esprimersi?

 

(a) Tizio nei giorni precedenti la visita, via via che si accentuano i disturbi vede sempre più coartarsi il suo esistere nel « suo » male. Il che significa che dei tanti modi di essere attraverso cui si dispiega la sua esistenza di sano, ora gli si propone quasi in continuità e comunque prevarica quello dell’essere-per-la-mano-disturbata. Questa gli si rivela e gli si impone, infatti, come ineliminabile e quasi insostituibile termine intenzionale: è-costretto-ad-essere-per-essa, mentre in penombra rientrano tutti quegli altri oggetti (soci e cose) che prima variamente e alternativamente gli si proponevano come termini del suo mondanizzarsi. Questa parte del corpo, la mano destra – che nel commercio abituale è importantissimo strumento di articolazione con ogni-altro-da-se ma che proprio nel suo ordinario esercizio di espressione o di strumento di presa non è, o almeno, non è centralmente presente nell’ambito coscienziale – ecco che emerge dal suo relativo oscuro e si propone come non eliminabile istanza. Il corpo (nella fattispecie: una parte del corpo) da organo comunicativo od operativo con e su altri uomini ed altre cose, da mezzo di espressione o da organo di manipolazione su tanti e tanti oggetti dell’orizzonte oggettuale di questa o di quella mondanità, diventa ora lui stesso termine mondano dell’esistere, termine del mondanizzarsi. Tizio infatti nel trascendersi nella mano si trascende pur sempre in un mondo (l’uomo come tale è perennemente, e a-priori, in « un » mondo). Solo che, nella fattispecie, si tratta di una trascendenza immanente: egli si trascende, infatti, nel mondo del « suo » corpo, è-per-il-proprio-corpo. Inoltre la mano destra, pur essendo ancora (e non solo razionalmente) colta come sua ineliminabile appartenenza, gli si colora di estraneità («la mia mano non è più la mia abituale, solita mano»): tende a tramutarsi in qualcosa che non si integra più nella sua globalità di essente [04], che tende anzi a disannettersi dal suo essere, pur non riuscedovi mai. Infatti se la sua mano destra si propone, adesso come « un qualcosa », egli non riesce mai a intenzionarla come una cosa qualsiasi, come un qualsiasi oggetto di natura, per quanto inconsueta, insolita, strana, disturbante, ecc. gli appaia. Questo qualcosa – questa « sua » e nel contempo « strana » mano – è invero qualcosa che egli «ha» dentro di se assolutamente inalienabile. Esser costretto in questa estraneità significa non essere propriamente se stesso, non poter essere autenticamente se stesso, non avere il permesso di essere se stesso: significa essere per qualcosa altro-da-se, e che pur egli ha-in-se.

 

(b) Tizio e Caio, i due vecchi amici si ritrovano. Le mani destre si stringono nel saluto. Nel gesto, esse però non sono fenomenicamente presenti (o quanto più, come reciproco fattuale atto di stretta lo sono solo nelle frange dell’ambito coscienziale). Ciò che fenomenicamente si rivela nella coscienza dei due amici, è la ritrovata amicizia che l’atto ribadisce e sottolinea («Sono io, Tizio, che saluto te, Caio, e viceversa»; «siamo noi due che ci ritroviamo », le mani che si stringono esprimono appunto l’esser-insieme di due amici, l’essere « propriamente» – insieme, cioè dal fondo (popol. « dal cuore ») di me (Tizio) e di te (Caio). Comunque nell’atto del saluto la mano «malata » di Tizio cessa di costituire termine di una trascendenza: la trascendenza immanente di prima, quella che proprio nella mano trovava il suo termine, ha lasciato il posto a un’altra trascendenza che ha per termine il «Tu» di Caio; tale trascendenza costituisce, anzi ricostituisce un’unità interumana Io-Tu.

 

(c) Dopo il primo incontro di cui testé si è detto, Tizio informa Caio dei suoi disturbi alla mano destra. Ed ecco che i due mondi di cui sopra alternativamente si affacciano e alternativamente scompaiono: l’un mondo (ove Tizio-è-per-il-proprio-corpo) a cui inerisce la qualità di un’oscura minaccia (essere-preso-da-una-malattia-corporale), l’altro ove Tizio-è-insieme-a-Caio) a cui inerisce la qualità della fiducia (nel medico amico). Caio che – poniamo – tiene ancora serrata la mano di Tizio, trapassa anch’egli alternativamente per due mondi: l’uno (duello dell’amicizia) assimilabile nel fondo a quello di Tizio (il nostro modo di essere amici), l’altro invece diverso, in cui si prende qualcosa da qualche parte (nella fattispecie: la mano malata) per qualcos'altro (la diagnosi). Caio via via che viene informato dei disturbi di Tizio, entra infatti già nella prospettiva, nella percorrenza del da farsi. Si anticipa nel mondo dell’operatività, in cui non stringerà più propriamente (p. 1293) la mano dell’amico ma quella di un generico malato, ove non intenzionerà più l’amicizia ma la mano di un qualsiasi paziente.

 

(d) Nell’ambulatorio ove ha fatto accomodare l’amico, Caio imprende a « visitarlo clinicamente ». Deliberatamente ora si distoglie dal modo dell’amicizia; questo va in penombra, si eclissa per lasciare il posto a quello dell’agire scientifico-medico. Invece che nella trasparenza dell’amicizia, adesso Caio si trascende nell’oscurità di una malattia da rilevare, da diagnosticare. Tizio gli propone la malattia «propriamente» sua: quella malattia che Caio, se vuole agire adeguatamente secondo i canoni della sua tecnica di semeiota, deve riguardare invece come quella di un qualsiasi altro che presenti uguali o similari sintomi. La « mia malattia » di Tizio si palesa e si propone come iscritta soprattutto nella categoria dell’essere («sono malato »); nella visione del tecnico, per il quale essa necessariamente deve esser ritenuta la malattia di un qualsiasi, si iscrive nella categoria dell’avere: « ho di fronte a me una malattia» (del corpo di un uomo, si, ma di un uomo in genere, non di Tizio in particolare). [05]

 

(e) La mano destra di Caio che palpa e tocca (d) quella di Tizio, obiettivata a « cosa clinica » diventa strumento. Ma per Tizio l’esaminante mano destra di Caio non tocca una qualsiasi mano, tocca la propria mano «propriamente» la sua. Tocca, sfiora, palpa, ecc. propriamente lui («chi tocca la mia mano tocca me», Buytendijk) e, per quanto Caio cautamente si muova e operi da semeiota il suo agire non può non essere esperito da Tizio che come una aggressiva intrusione da parte di un altrui (in quanto una parte di se – la mano – viene riguardata come mero oggetto, come tale ridotta): da cui la sofferenza sul piano dell’umano nell’essere comunque esaminato come cosa.

 

Ed ecco che durante la visita la situazione dei due finisce per risultare ambigua, oscillante tra il modo di essere-insieme degli amici e il modo di prendere o di essere preso caratteristico di un qualsiasi rimando umano (Caio prende Tizio per un malato a una mano).

 

(f) Tale situazione ambigua resterà ancora al commiato. Per la strada, al ritorno. Tizio riesperirà la sua mano come estranea e disturbante appartenenza; ripresentificherà quanto gli ha diagnosticato l’amico medico; ma non riuscirà mai a integrare, per quanto si sforzi, in globalità fenomenica il suo « esperito » con quanto ha testé «saputo».

 

(g) Caio alla fine, nel leggere i capitoli di neurofisiologia e di neuropatologia che concernono la parte esaminata, non si articolerà per nulla in una situazione interumana. La mano a cui ora egli si interessa è meramente quella dell’anatomico, del fisiologo, del patologo: un mero oggetto di natura, che – appunto in quanto «di natura» – non concerne più «propriamente» l’uomo, neppure la «natura propria di un certo ben identificato uomo».

 

Note

01. L’ospedale psichiatrico romano di Monte Mario fu edificato per ordine della deputazione provinciale di Roma presieduta dal senatore Alberto Cencelli sulla collina di Sant’Onofrio in Campagna a partire dal 1909. Principiò a funzionare il 28 luglio 1913 e fu inaugurato ufficialmente da Vittorio Emanuele III il 31 maggio 1914. In precedenza era situato in Via della Lungara, ma era sorto nel 1548 su una chiesa, dove c’è una targa, a Piazza Colonna (prospiciente Palazzo Chigi) per iniziativa del cappellano spagnolo di Siviglia Ferrante Ruiz, assistito da Angelo e Diego Bruno, padre e figlio, due laici. Le date sancivano il definitivo allontanamento dei folli dal centro di Roma. Intorno - e dentro, - l’OPP nuovo di Monte Mario aveva tutto il necessario per campare in perfetto isolamento, senza contagiare la città. Case per gli infermieri e il personale non medico, tipografia, officine meccaniche, Ospedale Civico (San Filippo Neri), Stazione Ferroviaria (da San Pietro per Viterbo), e così via. Insomma 32 Padiglioni a raggiera con la vasca di pesci rossi al centro, quella grande, la seconda dopo quella più piccola dell’ingresso davanti la Direzione. Fu il più grande Ospedale Psichiatrico d'Europa con una capacità di più di mille posti letto. Cessò definitivamente il 14 gennaio 2000. ora è abbandonato. Chi scrive vi ha lavorato fino al 1978, prima cioè di andare sul territorio a praticare l’assistenza psichiatrica senza manicomio.

02. Danilo Cargnello - Ospedale psichiatrico provinciale di Brescia Direttore. Prof. D. Cargnello - Il problema della corporeità. I - Una esemplificazione introduttiva. il Lav. Neuropsichiat. 45 XXIII III Società Italiana di Psichiatria. Atti del XXX Congresso Milano 12-17 ottobre 1968. Vol III SIMPOSI pp. 1291-1293.

03. Cfr. Aldo Giannini (1927-1981) Breve ricordo di un Maestro. Sergio Mellina. Pol.it Psychiatry on line Italia 14 marzo 2019.

04. Qualcosa di simile alla perdita di diritto d’asilo come nelle ernie addominali.

05. Verrebbe a proposito chiosare questa situazione con la situazione di malattia proposta nel dramma L’uomo dal fiore in bocca di Pirandello, quella di un uomo malato di epitelioma, un cancro cutaneo, che sente il male incombere, senza poter disporre di alcuna amicizia di medico che possa infondergli fiducia, dargli conforto. Solo le premure della moglie che lo segue spiando la sua salute angosciata e interagendo su questo piano disperato di attesa della morte.

 

 

 

 

 

 

 

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