GALASSIA FREUD
Materiali sulla psicoanalisi apparsi sui media
di Luca Ribolini

Maggio 2014 IV - Ri-cognizioni

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1 giugno, 2014 - 20:53
di Luca Ribolini

CERVELLO, IL SUO MOTORE È NEGLI AFFETTI 

di Andrea Lavazza, avvenire.it, 21 maggio 2014

In questi giorni un premio dagli psi­coanalisti e un libro con uno psi­chiatra, in una carriera da neuro­scienziato cognitivo. Incarna la figu­ra di studioso che ama le contami­nazioni disciplinari Vittorio Gallese, docente di neurofisiologia all’Uni­versità di Parma, ma senza cedimenti nel rigore della ricerca. È infatti uno degli stu­diosi italiani più noti al mondo nel suo set­tore, ‘padre’, insieme con Giacomo Rizzo­lati, dei neuroni specchio.
«Sin dal principio, viviamo la nostra vita con l’altro». Così si apre il libro da lei scrit­to con Massimo Ammaniti. Tutti hanno un’idea intuitiva dell’intersoggettività, ma che cosa emerge dal suo studio scientifi­co? Perché parlate di nuovo approccio?
«L’attuale visione standard della mente u­mana e dell’intersoggettività, quella cogni­tivista, è viziata da due problemi. Il primo riguarda la sua natura solipsistica: la di­mensione sociale, la presenza degli altri non sono considerati aspetti fondanti. La men­te è considerata una sorta di computer che manipola simboli astratti: capire l’altro non è molto differente dal risolvere un’equa­zione, applicare una teoria della mente del­l’altro. In tutto ciò il corpo non compare, non sembra svolgere alcun ruolo cogniti­vo. Perciò proponiamo una visione radical­mente differente dell’intersoggettività, del­la sua origine evolutiva e di come si svilup­pa nei bambini attraverso il quotidiano rap­porto con la madre e gli altri esseri umani. Questo nuovo modello è fondato su solide evidenze empiriche degli ultimi decenni. Cervello e corpo formano un sistema in­scindibile: non si capisce il cervello se lo si separa dal corpo. Inoltre, secondo il nostro modello il tema della relazione con l’altro è cruciale. Lo sviluppo dell’intersoggetti­vità comincia già prima della nascita, al­l’interno del grembo materno. Dalle prime ore di vita il neonato svolge un ruolo attivo nel sollecitare e intratte­nere un rapporto con la madre. Non a caso una delle illustrazioni del no­stro libro presenta la bellissima Madonna col Bambino di Artemisia Gentileschi della Galle­ria Spada, dove il bam­bino tocca gentilmente con la mano il volto del­la madre assopitasi per la stanchezza. L’altro grande elemento di no­vità consiste nel mo­strare che esiste anche un accesso più diretto all’altro, in cui la simu­lazione delle azioni, del­le emozioni e delle sen­sazioni altrui gioca un ruolo fondamenta­le. È un modello di intersoggettività rela­zionale, che assegna alla corporeità un ruolo centrale».
Come genitori possiamo imparare che l’e­voluzione non ci abbia già ‘scritto’ nelle nostre tendenze e nelle reazioni istintive?
«Certamente. L’espressione dei nostri geni è influenzata dall’incontro con l’ambiente. Dovremmo lasciarci alle spalle sia il mec­canico determinismo genetico sia l’appa­rentemente netta distinzione tra natura e cultura. Le attuali conoscenze scientifiche mostrano quanto importante sia la qualità delle nostre relazioni con i nostri figli nel favorirne o pregiudicarne lo sviluppo co­gnitivo e psico-affettivo».
I neuroni specchio, straordinaria scoper­ta, sembrano dirci molto sui meccanismi di comprensione dell’al­tro, sull’empatia (e non tutti sono d’accordo)… Questo filone di studio di carattere neurobiologico quanto integra, confligge o addirittura sostituisce i tradizionali approcci psi­cologici?
«I neuroni specchio, neu­roni motori che si attivano sia quando eseguiamo un’azione sia quando la vediamo eseguire da altri, rappresentano in realtà la punta di un iceberg. Nel corso degli anni, sono sta­ti scoperti meccanismi di rispecchiamento analoghi anche per il dominio del­le emozioni e delle sensazioni. Il mio mo­dello della simulazione incarnata è un ten­tativo di fornire una spiegazione integrata di tutti questi fenomeni. Pensiamo che que­sti vari meccanismi di rispecchiamento ci consentano di comprendere l’altro dall’in­terno e costituiscano una componente es­senziale dell’empatia. Il livello di descri­zione delle neuroscienze non è alternativo alla psicologia, ma indaga i meccanismi neurofisiologici che sottostanno alle nostre facoltà mentali e psichiche. Le scoperte del­le neuroscienze possono contribuire però a rivedere molti concetti psicologici. Dopo la scoperta dei neuroni specchio e della si­mulazione incarnata, oggi sappiamo che la percezione visiva non è esclusivamente il frutto dell’attività del cervello ‘visivo’. Guardare il mondo implica anche attivare il sistema motorio, quello tattile e quello limbico delle emozioni. Lo studio del cer­vello ci permette di descrivere meglio la no­stra psicologia».
Il premio Musatti della Spi che le viene con­segnato domani è un importante ricono­scimento da parte della comunità psicoa­nalitica. Che tipo di dialogo c’è tra il freu­dismo e l’approccio parzialmente riduzio­nistico sulla men­te che ha lei? O si trat­ta di inverare il progetto schiettamente biologistico che Freud aveva chiaro e non poté realizzare?
«Freud era un neurologo, uno scienziato. Il suo progetto iniziale mirava a trovare una relazione tra psiche e cervello, ma presto si accorse che la neurobiologia a lui contem­poranea non era ancora in grado di fornir­gli le risposte che cercava. Così nacque la Metapsicologia. Il pensiero psicoanalitico ha continuato a evolversi dopo Freud e og­gi attribuisce un’importanza crescente al tema dell’interpsichico e dell’intersogget­tività. Le neuroscienze cognitive e la psi­coanalisi condividono molti obiettivi: en­trambe ambiscono a spiegare chi siamo con metodologie e linguaggi differenti. Il dialo­go tra le nostre discipline credo sia non so­lo auspicabile ma necessario. Le scienze della psiche oggi non possono non con­frontarsi con le neuro­scienze. Allo stesso tempo, le neuro­scienze cognitive non possono ridursi a una traduzione neurode­terministica della natu­ra umana, ma devono mettere al centro della pro­pria ricerca la pienezza del­l’esistenza umana e l’espe­rienza che ognuno di noi ne trae. Per farlo, il contributo della psicoanalisi, così come quello della psicologia e delle scienze umane, è secondo me imprescindibile».
http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/CERVELLO.aspx
 

PSICANALISI LOW COST IN TEMPO DI CRISI, UNA SEDUTA AL COSTO DI PIZZA E BIRRA
di Redazione, adnkronos.com, 22 maggio 2014
Psicanalisi cura da ricchi? Non è più così e, in tempo di crisi, gli analisti si attivano perché la difficile fase economica non sancisca un ritorno al passato. Tariffe low cost, tagliate sulle esigenze dei pazienti sono da tempo una realtà, come forme di consulenza che richiedono meno sedute e il progetto, già attuato in alcuni casi, di aprire centri per offrire le prestazioni professionali, oggi possibili solo negli studi privati, in forme più simili al pubblico. “La crisi c’è per tutti, ne siamo consapevoli e lavoriamo per trovare soluzioni che possano aiutare anche i pazienti a non rinunciare al trattamento”, spiega all’Adnkronos Salute Antonino Ferro, presidente della Società psicoanalitica italiana (Spi) che oggi aprirà a Milano il congresso nazionale della Società.
“Molti analisti hanno abbassato da tempo i loro onorari che oggi sono molto ragionevoli e vengono prevalentemente stabiliti in base alle esigenze del paziente – spiega Ferro – Si tratta di professionisti privati che non hanno tariffe stabilite, ma le sedute spesso costano quanto una pizza e una birra”, insomma anche meno 20 euro, considerando pero’ che le normali terapie psicanalitiche prevedono “dalle tre alle 4 sedute la settimana”. Anche questi tempi che oggi difficilmente le persone possono permettersi.
Da qui la nascita di forme di ‘consultazione prolungata’: “Proponiamo in molti casi consulenze intensive, che permettono di capire il problema e valutare se c’è necessità di una psicoanalisi o se sono sufficienti le consultazioni”, aggiunge Ferro. “La psicanalisi – assicura – è nella mia esperienza l’unico metodo efficace contro la sofferenza psichica profonda. Non può essere sostituita con forme di psicoterapie brevi, più adatte a situazioni depressive, a crisi legate a situazioni di vita o altro. Purtroppo in Italia non c’è nessun tipo d’aiuto pubblico per l’analisi, come invece accade in altri Paesi, la Svizzera o la Germania, ad esempio. In Finlandia l’analisi è addirittura rimborsata. Stiamo lavorando a un progetto per realizzare servizi clinici in centri e speriamo si possano in futuro convenzionare con il Servizio sanitario nazionale”. Un’idea già concretizzata in alcune esperienze: “All’Enel e al ministero della Salute, ad esempio, dove sono state previste consulenze gratuite o a costo limitato”.
http://www.adnkronos.com/fatti/cronaca/2014/05/22/psicanalisi-low-cost-tempo-crisi-una-seduta-costo-pizza-birra_w5MfRUxEg8WYwBQj6cusSJ.html

DIRITTO E ROVESCIO
di Redazione, italiaoggi.it, 23 maggio 2014
Per fortuna che, fra tre giorni, saranno staccati. Ma i manifesti elettorali, questa volta, mi sembrano più perturbanti che in precedenza. Non so se sono peggiorati i manifesti o se è peggiorata la mia percezione dei politici. Di fatto, tutti, candidati e candidate, hanno (a loro insaputa, certo) la faccia degli imbonitori (quando va bene) o degli imbroglioni (quando va male). Mi viene in mente, a questo proposito, un’affermazione del famoso psicanalista Cesare Musatti, che per me fu quasi come un padre, che mi diceva: «La gente, a venti-trent’anni, può anche avere una faccio diversa e, in genere migliore, di quella che si meriterebbe. Ma da 60 anni in su, non c’è verso: ognuno di noi ha la faccia che si merita». Mi sbaglierò ma costoro, attaccati ai pannelli elettorali, dimostrano chiaramente ciò che sono anche a trent’anni.
http://www.italiaoggi.it/giornali/dettaglio_giornali.asp?preview=false&accessMode=FA&id=1891047&codiciTestate=1&titolo=Diritto%20&%20Rovescio .
 

LA CURA DIVENTA UN GIOCO PER IL DISAGIO DEI PIÙ PICCOLI. Possibile individuarli già a due anni
di Redazione, ansa.it, 23 maggio 2014
Anche nei bambini molto piccoli, sotto i due anni di età, è possibile riscontrare i primi segni di un eventuale disagio psicologico, che si può correggere con alcune forme di psicanalisi. Il tema è tra quelli affrontati dal congresso della Società Psicoanalitica Italiana (Spi) in corso a Milano. “L’analisi ovviamente è molto diversa da quella degli adulti, si basa sul gioco o sul disegno, ma può scoprire problemi anche sotto i due anni di età – spiega il presidente Antonino Ferro -. Ci sono poi problematiche come i disturbi del sonno o anche dell’alimentazione che possono essere presi in carico in maniera efficace da subito”.
Tra le trasformazioni in atto nel mondo della psicanalisi, spiegano gli esperti che saranno riuniti fino al 25 maggio, c’è anche il superamento del concetto di ‘individuo’. ”La sfida oggi per gli psicanalisti è non considerare più l’individuo in sé, ma inserirlo nel suo contesto relazionale – spiega Anna Ferruta, Segretario dell’Istituto Nazionale del Training della Spi – nella convinzione che sia i problemi di origine biologica che quelli relazionali possono essere curati con la terapia”. 
Il cambiamento, spiega Stefano Bolognini, neo eletto presidente dell’International Psychoanalytical Association, riguarda tutto il mondo. “Anche grazie al web ora tutte le varie scuole psicanalitiche si confrontano e si contaminano – afferma Bolognini – con un’integrazione di teorie che prima erano isolate”. 
Durante il congresso è stato assegnato il premio Musatti a Vittorio Gallese, neuroscienziato teorico dei neuroni specchio.
“Questo è il segno di un rapporto nuovo tra neuroscienze e psicanalisi – spiega Ferro – che prima si guardavano ‘in cagnesco’, mentre ora si confrontano e collaborano”. 
http://wwwext.ansa.it/saluteebenessere/notizie/rubriche/salute_bambini/medicina/2014/05/23/cura-gioco-per-il-disagio-dei-piu-piccoli_db4f2b2f-c8b8-4afe-879d-f7c497cc2a9c.html
 

FONDALI LIBANESI DI UNA GUERRA NON RACCONTABILE. Specchi rotti. Dal nazionalismo alla lotta di classe dal fondamentalismo religioso cristiano a quello musulmano: trasformazioni storiche e politiche proiettate nell’animo dei personaggi
di Vermondo Brugnatelli, ilmanifesto.it, 25 maggio 2014
Il film comin­ce­rebbe dal momento in cui (il pro­ta­go­ni­sta) torna e poi pro­ce­de­rebbe per flash back rac­con­tando i suoi ricordi con­fusi dell’omicidio all’Università ame­ri­cana e della guerra, peral­tro irrac­con­ta­bile»: que­sto il pro­getto pro­po­sto al regi­sta Maroun Bagh­dadi nel corso del libro di Elias Khoury Spec­chi rotti (tra­du­zione di Eli­sa­betta Bar­tuli, Fel­tri­nelli, pp. 428, euro 20,00), un pro­getto mai rea­liz­zato in forma fil­mica, che è lo spunto alla base del romanzo stesso. Nella vita reale, il roman­ziere liba­nese ha avuto modo di col­la­bo­rare con il suo con­ter­ra­neo cinea­sta in occa­sione della sce­neg­gia­tura del film La vita sospesa (Hors-la-vie), pre­miato a Can­nes nel 1991, e in molti punti del libro appare chiaro che non sono pochi i richiami di ele­menti auto­bio­gra­fici: come la pro­ta­go­ni­sta, anche Khoury, di fami­glia cri­stiana, è stato attratto dalla causa pale­sti­nese e ha par­te­ci­pato al movi­mento di al-Fatah e alla guerra del 1975 dalla parte che si oppo­neva alle mili­zie fasci­ste dei suoi cor­re­li­gio­nari: non è dif­fi­cile imma­gi­nare come per molti degli epi­sodi e dei per­so­naggi descritti egli abbia attinto a espe­rienze personali.
Al cen­tro del romanzo è la guerra civile che ha lace­rato il Libano tra il 1975 e il 1990, ben­ché la guerra, come ricorda l’autore stesso, sia «irrac­con­ta­bile». Si sa: al di là delle date e degli eventi memo­ra­bili, ogni con­flitto rac­chiude in sé un mondo infi­nito di espe­rienze e moti­va­zioni indi­vi­duali impos­si­bili da descri­vere nel det­ta­glio. E ciò è tanto più vero in una terra come il Libano, dove da secoli coe­si­stono le comu­nità più dispa­rate, sem­pre pronte a fiam­mate di vio­lenza e di guerre, non di rado anche inte­stine, in un coa­cervo di moti­va­zioni che vanno da quelle più ideali e di por­tata gene­rale a quelle più meschine e legate a vicende fami­liari o per­so­nali. Per que­sto il romanzo non ambi­sce a «rac­con­tare» la guerra ma rie­sce a darne un’idea, pro­po­nendo al let­tore una lunga serie di per­so­naggi le cui vite offrono altret­tanti punti di vista che, per quanto lungi dal com­porre un qua­dro com­ples­sivo, rie­scono comun­que a evo­care un’atmosfera.
L’atmosfera del Libano nel momento in cui è col­lo­cata l’azione (tra il 1989 e il 1990) è quella di un paese in disfa­ci­mento dopo quin­dici anni di guerra com­bat­tuta, pre­ce­duti da molti altri in cui la vio­lenza era nell’aria. In molte pagine emerge la descri­zione fisica della puzza e del mar­ciume (delle disca­ri­che tra­boc­canti, dei cibi lasciati nei frigo privi di cor­rente), che si con­fonde con la dif­fusa cor­ru­zione morale. La guerra ha impre­gnato di sé ogni cosa, tanto che molti per­so­naggi dimo­strano, nei loro discorsi, la con­vin­zione che, in fondo, essa sia desti­nata a non finire mai. «Chi l’avrebbe detto che sarebbe durata così a lungo? Fini­remo noi prima di lei. È come se ci venisse da dentro».
La trama in sé ha molto del serial tele­vi­sivo (o, se vogliamo, del romanzo d’appendice), con qual­che ste­reo­tipo let­te­ra­rio, intrecci di amori e paren­tele al limite dell’inverosimile: Karim, il pro­ta­go­ni­sta, è il mag­giore di due fra­telli quasi gemelli (uno più sogna­tore e «buono» e l’altro, Nas­sim, più prag­ma­tico e «cat­tivo»), e prima di abban­do­nare il Libano per la Fran­cia era fidan­zato con colei che poi spo­serà l’altro, la quale oltre­tutto era figlia dell’amante del padre, Nasri, don­na­iolo impe­ni­tente, amato e odiato dai due figli in un rap­porto molto com­pli­cato. Ma lo scopo di Khoury non è solo quello di tenere desto l’interesse del let­tore cen­tel­li­nando con mestiere le rive­la­zioni che a poco a poco for­ni­scono le tes­sere del vasto mosaico. Attra­verso le vicende pri­vate di Karim, medico qua­ran­tenne tor­nato dalla Fran­cia dopo una decina d’anni di «fuga», ci si pre­senta una gal­le­ria di indi­vi­dui legati alle espe­rienze che si sono sedi­men­tate nella sua memo­ria in modo a volte incerto e vago, a volte pre­ciso ma non sem­pre rispon­dente alla realtà. Fil­trato dai suoi e dai loro occhi si viene così pro­fi­lando un qua­dro vasto e com­po­sito, non solo tra­gico ma a volte anche idea­li­stico e per­fino «melo­dram­ma­tico» (un ter­mine più volte evo­cato dallo stesso autore, che si inter­roga sulla vacuità del con­cetto di «eroe» e sulla sua incon­gruità «in una guerra che aveva tutte le carat­te­ri­sti­che del melodramma»).
Sul tema di fondo della guerra si inne­stano poi tanti altri spunti, temi sociali come le rivolte con­ta­dine del pas­sato, o lo sfrut­ta­mento delle dome­sti­che sri­lan­kesi, odioso feno­meno di moderna schia­vitù, oppure quello, par­ti­co­lar­mente caro all’autore della distru­zione del patri­mo­nio archi­tet­to­nico della città vec­chia, in difesa del quale ha svolto appas­sio­nate cam­pa­gne come diret­tore del set­ti­ma­naleal-Mulhaq. Nel romanzo l’argomento viene emble­ma­ti­ca­mente evo­cato nei suoi aspetti più crudi, dalla descri­zione della distru­zione pro­gram­mata del quar­tiere delle pro­sti­tute, con le occu­panti schiac­ciate dalle mace­rie, sgoz­zate, vio­len­tate, umi­liate o espulse, alla cinica osser­va­zione dell’architetto «la guerra è l’architetto migliore che ci sia, fa a pezzi ogni cosa per­ché poi noi si possa demo­lire e ricostruire».
Par­ti­co­lar­mente inte­res­sante è la descri­zione del pro­gres­sivo muta­mento del qua­dro di rife­ri­mento del con­flitto dal nazio­na­li­smo o dalla lotta di classe al fon­da­men­ta­li­smo reli­gioso, nei due campi, cri­stiano e musul­mano: se Nas­sim in gio­ventù era giunto a dileg­giare la reli­gione osten­tando il culto di un fetic­cio per­so­nale, Haba­bil, alla fine diven­terà un padre devoto che accom­pa­gna in chiesa i figli la dome­nica, men­tre tanti rivo­lu­zio­nari impre­gnati di mate­ria­li­smo si ritro­vanoimam e invece di ispi­rarsi a Che Gue­vara citano il Corano e pro­nun­ciano fatwe.
Il titolo ori­gi­nale, Sinal­col, allu­deva a un nomi­gnolo che era stato appiop­pato al pro­ta­go­ni­sta durante la guerra, e che que­sti evo­cava nei momenti più dispa­rati, attri­buen­dolo schi­zo­fre­ni­ca­mente a un altro inaf­fer­ra­bile per­so­nag­gio. Que­sta «inaf­fer­ra­bi­lità» del reale, che per­corre tutto il romanzo, è invece evo­cata, nel titolo dell’edizione ita­liana (nell’eccellente tra­du­zione di Eli­sa­betta Bar­tuli), dallo spec­chio, la meta­fora osses­si­va­mente pre­sente nelle rifles­sioni di Karim, che non rie­sce a vedere se stesso e i pro­pri fan­ta­smi se non come imma­gini riflesse di qual­cosa che in fondo è desti­nato a restare inaf­fer­ra­bile. «Se andava a Bei­rut, non era solo per costruire l’ospedale, ma anche per­ché voleva vedere cos’era suc­cesso allo spec­chio della guerra liba­nese con cui aveva occul­tato lo spec­chio della sua esi­stenza». Una vistosa costante del romanzo, che si muove sem­pre seguendo il flusso dei ricordi del pro­ta­go­ni­sta, è la pre­senza di motivi psi­coa­na­li­tici. Il tema del «dop­pio», dell’alter ego in cui ci si spec­chia, con tutto ciò che com­porta, in ter­mini di lon­ta­nanza dalla realtà di ciò che non è reale ma riflesso, è ben noto e ricor­rente nella let­te­ra­tura e nell’arte, soprat­tutto da quando la psi­coa­na­lisi ha fatto irru­zione nella cul­tura occi­den­tale. Qui il bino­mio è in realtà – in gran parte del libro – ampliato a for­mare una triade, con il padre amato-odiato al quale i figli, dopo la morte, si accor­gono di venire sem­pre più a somigliare.
L’apice delle medi­ta­zioni psi­coa­na­li­ti­che sull’inafferrabilità dell’Io e del reale viene rag­giunto nell’arruffato discorso sulla metem­psi­cosi della gio­vane drusa Gha­za­leh, che si ritiene l’incarnazione della pro­pria nonna: «prova a imma­gi­nare quel pre­ciso momento, quando ognuno capi­sce di essere tutti, di essere scisso in molti che devono tor­nare ad esere uno, e poi, di colpo, davanti a ognuno ce ne sono altri mille, e ognuno di quei mille è lui stesso, e a quel punto, quando non sa più chi è né dov’è la verità, gli si rivela l’unica verità asso­luta e immu­ta­bile, cioè che niente ha valore». In altre parole, non è solo la guerra ma anche in gene­rale la realtà ad essere «irraccontabile».
http://ilmanifesto.it/fondali-libanesi-di-una-guerra-non-raccontabile/
 

PSICANALISI, IL PREMIO MUSATTI AL “NOSTRO” VITTORIO GALLESE. Prestigioso riconoscimento al neuroscienziato
di Redazione, gazzettadiparma.it, 26 maggio 2014
Nell’aula magna dell’Università di Milano, in occasione del 17º Congresso della Spi – Società di psicoanalitica italiana, è stato conferito il premio «Musatti» a Vittorio Gallese, neuroscienziato dell’Università di Parma che da anni lavora a fianco di Giacomo Rizzolatti e che fa parte del gruppo che ha individuato i «neuroni specchio».
Il premio intitolato alla memoria di Cesare Musatti attribuisce un pubblico riconoscimento a figure italiane o straniere che hanno contribuito, con la loro ricerca, alla divulgazione e allo sviluppo della psicoanalisi. In passato era già stato assegnato a volti noti come Edoardo Sanguineti, Moni Ovadia e, nel 2006, Bernardo Bertolucci. 
Le ragioni del conferimento del premio a Gallese sottolineano l’importanza dello sviluppo in atto tra discipline biologiche e psicologiche. 
«Gallese – si legge nelle motivazioni – attraverso la sua ricerca neuroscientifica in dialogo con la psicoanalisi, ci consente di apprezzare alcune evoluzioni significative del pensiero scientifico e del confronto interdisciplinare portato avanti nell’ultimo decennio da numerosi psicoanalisti e neuroscienziati a livello nazionale e internazionale». 
«Sono particolarmente felice di ricevere questo premio in occasione del Congresso Nazionale Spiil cui tema, “All’origine dell’esperienza psichica. Divenire soggetti”, racchiude alcuni degli aspetti principali che hanno guidato i miei studi in tutti questi anni – ha commentato Gallese, ritirando il premio -. Le nostre ricerche hanno mostrato come le neuroscienze cognitive possano offrire un valido contributo alla comprensione del concetto di sé e di intersoggettività. Tale contributo sarà tanto più fruttuoso quanto più, nel dialogo e dal confronto con la psicoanalisi e con le scienze umane, le neuroscienze sapranno formulare le domande appropriate per studiare dalla propria prospettiva e con i propri metodi d’indagine cosa significhi essere umani». 
Di recente Vittorio Gallese ha dato alle stampe il volume La nascita della intersoggettività (Raffaello Cortina Editore, 314 pagine), scritto a quattro mani con lo psicoanalista Massimo Ammaniti. Nel libro lo scienziato racconta l’intersoggettività identificandola con quell’insieme di interazioni e di scambi tipicamente umani che si sviluppano fin dai primi giorni di vita, in un processo che conduce alla capacità di comprendere la mente degli altri. 
Nel capitolo iniziale l’intersoggettività viene affrontata in un’ottica neurobiologica valorizzando il funzionamento cerebrale nel contesto dei comportamenti interattivi, con una particolare attenzione alla funzione dei neuroni specchio. Nei capitoli successivi si analizzano le dinamiche psicologiche materne e paterne che contribuiscono alla nascita della matrice intersoggettiva nel figlio.
http://www.gazzettadiparma.it/news/salute-fitness/191035/Psicanalisi–il-premio-Musatti-al.html
 
 
JOFI, IL CHOW CHOW DI SIGMUND FREUD
di Domitilla, vanitypets.it, 27 maggio 2014
Se al fianco di molti grandi uomini della storia si annusa la presenza di un quattro zampe, il padre della psicoanalisi Sigmund Freud può vantare la preziosa collaborazione del suo Chow Chow Jofi.
Un cane che, per carattere, rispecchia perfettamente il significato del nome datogli dal famoso pscicoanalista: “Jofi” in lingua ebraica significa “bene, va bene” ed è stato scelto da Freud proprio perché, le ore che passava con il proprio Chow Chow, erano le migliori della giornata, gli unici momenti in cui poteva rilassarsi e svuotare la mente.
Un legame prezioso che lo studioso descrive in una lettera a Marie Bonaparte, sua paziente ed allieva che gli regalò Jofi e che, nel frattempo, cresceva la sua sorellina pelosa Topsy. Una missiva in cui Freud afferma: “Le ragioni per cui si può in effetti voler bene con tanta singolare intensità a un animale come Jofi, sono la simpatia aliena da qualsiasi ambivalenza, il senso di una vita semplice e libera dai conflitti difficilmente sopportabili con la civiltà, la bellezza di un’esistenza in sé compiuta. E, nonostante la diversità dello sviluppo organico, il sentimento di intima parentela, di un’incontestabile affinità. Spesso, nel carezzare Jofi, mi sono sorpreso a canticchiare una melodia che io, uomo assolutamente non dotato per la musica, ho riconosciuto essere l’aria dell’amicizia nel Don Giovanni: <Voglio che siamo amici… del cuore (con molta modestia ed umiltà, mi permetto di aggiungere personalmente)>”.
Parole che descrivono la forza di questo legame che ha scandito le giornate del padre della psicoanalisi dal 1930 al 1937, anni in cui il quattro zampe si è dimostrato all’altezza del suo nome anche nel relazionarsi con i fortunati avventori dello studio di papà. Chi li ha conosciuti racconta come, sin da subito, Jofi si sia dimostrato un ottimo supporto per Freud nella gestione dei propri pazienti. Un vero e proprio termometro degli stati d’animo di chi si susseguiva sul lettino del famoso studioso: se sentiva che il paziente era oltremodo teso ed in ansia si allontanava da lui per accucciarsi vicino a papà Freud, se, al contrario, ne percepiva tranquillità e voglia di raccontarsi si sdraiava al suo fianco per metterlo a proprio agio e facilitare in questo modo il lavoro del suo padrone.
L’aiuto che Jofi era in grado di dare allo studioso non si limitava alla mera comprensione dello stato d’animo dei pazienti. La sua presenza in studio era fondamentale per la gestione degli appuntamenti: da perfetto orologio naturale, trascorsi gli usuali 50 minuti della seduta, il quattro zampe si alzava dalla sua postazione, si dirigeva alla porta dello studio e iniziava a fissare il paziente, invitandolo ad andarsene e togliendo quest’odiata incombenza a Freud.

http://www.vanitypets.it/news/jofi-il-chow-chow-di-sigmund-freud/
domitilla@vanitypets.it
 

CANNES 2014, ROHRWACHER: ‘CHIEDETEMI SE SONO FELICE’
di Federico Pontiggia  27 maggio 2014
Chiedimi se sono felice. Dopo il Grand Prix di Cannes a Le meraviglieAlice Rohrwacher non ha avuto bisogno di chiedere: “Me l’hanno chiesto i miei genitori, è l’unica cosa che gli interessa”. In carnet Corpo celeste (2011), la sua opera seconda nasce dal “desiderio di raccontare la trasformazione del paesaggio agrario”, ovvero, dal ‘Che bel posto, sembra di stare nel Medioevo!’ lasciato in dote da chi passava per casa Rohrwacher. “Ci sono cresciuta, la campagna umbra è dilaniata tra l’abbandono, l’industrializzazione selvaggia e la trasformazione in museo tematico: le energie politiche e culturali residue vengono impiegate nella salvaguardia degli antichi valori, che però sono solo uno strato. Che tristezza”.
Alice non ci sta, e nelle Meraviglie inquadra “il lavoro in campagna, che non è morto né un idillio a cui rifarsi con retorica”, e lo affida a una famiglia che – al di là delle ricorrenze spicce: la sorella Alba interpreta la madre, il padre è un apicoltore – è autobiografica perché “si vuole molto bene, si ama”. Alice ride: “È una famiglia prima della psicanalisi, non ci sono fiumi sotterranei, nemmeno la scelta di Alba ha un’eco psicanalitica: non avevo un ruolo per lei, la madre me l’immaginavo più grande. Ma poi non la trovavo, e ho ritrovato lei: ‘ Ci devi provare’. E ci ho creduto subito”. Le meraviglie e le Rohrwacher, Alice dietro la macchina da presa, la sorella davanti a far da madre: “Forse è una foto di famiglia, ma non è la mia. Eppure, mi sembra di conoscerla, perché di vero ha che non è coerente”. E, sì, la psicanalisi finisce fuori dal quadro: “Non ho niente contro, ma amo il cinema e mi piace la sintesi, perché affascina, ha potere, ci vuole tanto tempo per scioglierla: il simbolico unisce, mentre l’analisi è diabolica, separa”. Che posizione scegliere, come guardare il mondo, come sintetizzare in un’immagine tutti gli strati del linguaggio verbale? Alice per ora sa “che non posso fare: devo stare lì, prendermi la responsabilità dello sguardo.
E tenere sempre la macchina in mano: anche quando deve stare ferma, è necessario che si senta il respiro di chi la tiene. Non bisogna fare finta che non ci siamo”. Né che non ci siano orme da seguire, meglio, da contemplare: nel dissidio tra una realtà capace di immaginazione e una televisione incapace a tutto, Le meraviglie fa pensare a Reality di Matteo Garrone (Grand Prix a Cannes 2012), “un film che mi ha stordito per bellezza e dolore. Ma non riesco a metterli in relazione, io devo fare ancora tanta strada”. Ma almeno una tappa è già raggiunta, e non si cancella: “Fare esperienza attraverso gli occhi di un altro è un atto politico, così intendo il cinema”. Dopo la Cannes di Alice, la vittoria di Renzi alle Europee, ma le analogie non abitano qui: “Se sapessi avere consenso, farei politica in modo diverso, ma io non lavoro per il consenso, anzi”. Né per la rottamazione: “Il passato, anche quello del nostro cinema, non va rottamato né glorificato: bisogna stare nel presente, nel passato e nel futuro che sono nel presente. E starci con tenerezza”.
Sapendo che “sarebbe bello se i social network fossero davvero sociali, e non individuali: io così non ne sono capace”, sentendo piuttosto che “l’unico social è la sala cinematografica”, e chiedendo un pezzetto di felicità: “Basta dire che questo, i film di Frammartino, Marcello e altri non sono italiani: lo sono, c’è un humus vivo e forte. E bisogna ripeterlo a chi finanzia, perché ne tragga maggiori motivazioni: sono film italiani”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/05/27/cannes-2014-rohrwacher-chiedetemi-se-sono-felice/1003162/
 

LUCE IRIGARAY: IL MISTERO DI MARIA. LEI ASCOLTAVA IL RESPIRO DEL CUORE
di Filomena Pucci, 27esimaora.corriere.it, 28 maggio 2014 
Ho conosciuto Luce Irigaray solo pochi mesi fa. Era il 25 marzo, giorno dell’Annunciazione per noi moderni, ma già primo giorno della primavera per il calendario solare (equinozio di primavera). Data non casuale, scelta dall’autrice, per la presentazione in Italia del suo nuovo libro Il mistero di Maria. Sono rimasta stregata e commossa da questa saggia donna, filosofa di ottantaquattro anni, che non prende l’aereo «per non inquinare il cielo» e che rifiuta le riprese delle televisioni perché «Chi è interessato ad ascoltare viene qua, d’altronde io sono venuta da Parigi in treno per essere con voi. No?».
Filosofa, pensatrice, oggi direttrice del CNRS. Attiva e prolifera fin dagli anni ’70, autrice come prima opera del saggio Speculum (sua tesi di laurea) opera fondamentale per il ribaltamento del punto di vista da cui erano viste fino allora (ma forse ancora oggi) le donne. Lo speculum si oppone allo specchio, che per Freud definisce la donna e la sua sessualità, donna specchio dell’uomo. Lo specchio piatto, riflette senza contrasto l’immagine dell’uomo, il sesso della donna come specchio si plasma, si adatta al sesso maschile che quindi le dà forma. Luce Irigaray in quell’opera parlò di speculum, che sì è accolto nell’intimità della donna, ma non riflette in nessun modo l’immagine dell’uomo, che così non si ritrova, non si riconosce e si perde. Fu un lavoro che le valse l’espulsione dall’università di Vincennes e la rottura professionale con Lacan, ma non l’interruzione del suo pensiero e delle sue opere.
Da sempre la ricerca della definizione di donna, di un’altra donna, si è sviluppata intorno allo studio della sessualità, come unica possibilità di condivisione della propria identità. La diversità può essere condivisa solo se prima conosciuta. Il suo ultimo lavoro, Il mistero di Maria è l’ennesimo tassello di questa ricerca, lo svelamento dell’ennesima diversità tra uomo e donna. Il respiro. Il mistero di Maria è il respiro, che passa per il cuore e lì trova il silenzio per esistere. Il silenzio non come mancanza di cosa dire ma come essenza dell’essere. Quando si è non servono parole per dirsi. Maria, Madonna, ritratta con le mani incrociate sul petto, protegge e al contempo indica il cuore.
Luce Irigaray non poteva scegliere giorno migliore per condurci dentro il cuore delle donne e aiutarci ad ascoltarne il silenzio. La redenzione del genere umano, annunciata dall’Arcangelo, non poteva che passare per il cuore. Il peccato originale, che ha fatto meritare agli uomini la perdita della felicità eterna, lontano dalle influenze bibliche di mele e serpenti, è la pretesa dell’umanità di dimenticare il cuore a favore della mente, il femminile a favore del maschile. L’unica redenzione possibile per il genere umano è da sempre, e ancora oggi, il respiro del cuore.
Il silenzio di Maria alla proposta dell’Arcangelo di essere colei che avrebbe dato vita al nuovo uomo, non è inibizione davanti al divino, ma è consapevolezza della propria divinità, che è consapevolezza della propria essenza. È solo nel silenzio, nel luogo interiore delle donne che c’è lo spazio per l’altro. È solo nel suo grembo che il feto (il mondo) troverà l’ossigeno (il respiro) per vivere e conoscere di nuovo il cuore.
“La bambina nasce divina, l’uomo lo diventa invecchiando” Luce Irigaray

http://27esimaora.corriere.it/articolo/luce-irigaray-il-mistero-di-marialei-ascoltava-il-respiro-del-cuore/
 

“IL POETA PRECEDE LO PSICOANALISTA. IN CHE MODO?”
di Roberto Pozzetti, haecceitasweb.com, 30 maggio 2014
 
Quando lo psicoanalista si approccia ad un’opera d’arte dovrebbe, a mio avviso, porre in primo piano l’interesse per l’opera stessa astenendosi dalla sovrapposizione e dalla giustapposizione in registri narrativi estranei al contesto del setting psicoanalitico. Quando un analista tiene, ad esempio, una conferenza è in una posizione diversa da quella che assume nel proprio studio ed è bene che eviti qualunque interpretazione, tanto più se in quella sala si ritrovano dei suoi analizzanti.Fare della lettura e dello studio di un’opera artistica la base di una patobiografia, di una biografia della presunta psicopatologia dell’autore, mi pare sbagliato e perdente, in un’estensione smodata degli ambiti di intervento della psicoanalisi che ne farebbe una Weltanschauung mentre già Freud ci ricordava come la psicoanalisi non fosse da intendere come una “visione del mondo”[1]. Asserire, ad esempio, che Leopardi abbia elaborato il suo pessimismo cosmico in quanto portatore di una deformazione della schiena, oltre che grottesco, implicherebbe tralasciare del tutto quello che egli sta a segnalare: la crisi epocale indotta dal passaggio dal mondo agricolo al mondo industriale con l’introduzione di nuove modalità di produzione. Credere che la musica dei Doors sia l’effetto della psicopatologia di Jim Morrison oppure della sua tossicomania lascerebbe insoluta la questione relativa alla sua opera compositiva, tanto rilevante da condurre intere generazioni di giovani sulla sua tomba a Parigi dove vi è scritto: “James Douglas Morrison, poeta”.
È proprio della poesia che mi occupo in questa sede, discutendo con il poeta Mauro Fogliaresi, in particolare sui temi della follia e dell’amore. Non è una mia invenzione il titolo che ho scelto per questo dialogo: si tratta di una frase, leggermente modificata, proposta più volte dal celebre psicoanalista francese Jacques Lacan. Anziché costituire una boutade, magari ironica, come spesso avviene nell’impresa di Lacan, questa affermazione viene ripetuta più volte sia pure in forme lievemente diverse.
Intorno alla metà degli anni Sessanta, Lacan si interessò all’opera della scrittrice francese Marguerite Duras e, soprattutto, al celebre Le ravissement de Lol V. Stein.  Qui afferma che un analista dovrebbe comunque “ricordarsi con Freud che nella sua materia l’artista lo precede sempre, e che non deve quindi fare lo psicologo laddove l’artista gli apre la strada”[2]. In quest’opera si ritrova la storia di Lol e del suo rapporto con il desiderio e con lo sguardo attraverso una triangolazione che include un uomo e un’altra donna. In due scene diverse, situate ad una decina di anni di distanza, Lol è affiancata da un’amica, Tatiana. Questa vicenda descrive l’articolazione del desiderio nelle donne per le quali il desiderio è sempre il desiderio dell’Altro. La struttura del desiderio non è mai fra due persone ma sempre almeno fra tre elementi e, nel caso specifico, implica un uomo e anche un’altra donna. La storia, descritta brevemente, è la seguente: a diciannove anni Lol Valérie Stein, durante un ballo, al quale si trova con l’amica Tatiana si vede sottrarre il fidanzato Michael da una donna in nero, con la quale questi scompare. Lol ne è sconvolta al punto di perdere quasi la ragione. Lentamente si riprende, ha dei figli, lascia la città, per tornarvi dopo dieci anni. Finché non ritrova l’amica Tatiana, che le fu accanto nella sera del ballo. Anche Tatiana si trova in una condizione di divisione soggettiva fra il marito e l’amante, Jacques Hold, il narratore della vicenda. La coppia Tatiana – Jacques Hold ricostruisce per Lol quella miticadella sera del ballo di dieci anni prima. Lol nespia i momenti amorosi in un hôtel, stando nascosta in uncampo di segale. Quando Jacques Hold si innamora di lei, lei fa l’amore con lui ma lo implora di non lasciarla per mantenere, evidentemente, la struttura a tre di questa liason. Cogliamo qui la struttura triadica dell’amore e del desiderio, descritta anche nel Simposio di Platone[3], a livello del terzo (Agatone) al quale si rivolge Alcibiade parlando a Socrate: “bisogna essere in tre per amare e non in due soltanto”[4]. In questo incontro d’amore con Hold, Lol perde il senno entrando nella follia.
Tralasciando volutamente qui la questione sul tipo di follia che caratterizza Lol (isterica o psicotica), possiamo cogliere come Lacan abbia trovato nel testo di Marguerite Duras una descrizione dell’oggetto della psicoanalisi, quell’oggetto indicibile intorno a cui ruota la pulsione qui presente soprattutto come oggetto-sguardo.
Pochi mesi dopo, Lacan riconoscerà un debito analogo ad uno scrittore che anticipa la psicoanalisi. Dedicherà delle pagine a Lewis Carroll ed al suo celeberrimo – almeno per chi a che fare con delle bambine – Alice nel paese delle meraviglie. Anche stavolta, anziché diagnosticare le presunte problematiche di quest’uomo ( professore di matematica, religioso ed inventore di una bizzarra storia dal grande successo raccontata a ragazzine da cui probabilmente era attratto) lascia da parte la biografia di Carroll. Sottolinea, invece, il valore di oggetto assoluto che può prendere la bambina. […] Della bambina Lewis Carroll si fa il servente: è lei l’oggetto che disegna, è lei l’orecchio che vuole raggiungere”[5] ruotando intorno all’oggetto della psicoanalisi che è, per eccellenza, quello pulsionale.  La pulsione viene, però, rielaborata in forma sublimata in questa produzione ottocentesca ma ancora tanto apprezzata dalle bimbe sia a livello di libri che di film sia in termini di rappresentazioni teatrali. “Per uno psicoanalista quest’opera è un luogo eletto a partire dal quale dimostrare la vera natura della sublimazione nell’opera d’arte. Recupero di un certo oggetto – ho detto in un’altra nota che ho fatto recentemente su Marguerite Duras”[6].
Negli anni Settanta, Lacan riprende questa formulazione che costituisce dunque una sua posizione precisa in riferimento a Wedekind il quale tratta del risveglio della pulsione in età puberale. Nella sua opera Risveglio di primavera, descrive come riaffiori la pulsione, dopo la fase di latenza, in un gruppo di adolescenti caratterizzato da dinamiche specifiche di quella fascia di età; vi è, però, uno spostamento della libido che, dagli oggetti familiari della prima infanzia, viene rivolta a figure nuove trovate fra i coetanei. Siamo nel 1891 e “il drammaturgo, alla data che ho indicato, anticipa largamente Freud. […] alla data suddetta Freud sta ancora elucubrando l’inconscio”[7].
Carlo Viganò[8], con il quale ho condiviso lo studio di Como per una decina di anni, mi raccontava più volte un aneddoto relativo a uno degli ultimi seminari di Lacan a Parigi, al quale egli assisteva. Lacan, ormai anziano, stava scrivendo delle formule alla lavagna; ad un certo momento, si arrestò dicendo: “Macchè psicoanalisi ! Hanno già detto tutto i poeti…”.
Ovviamente non tutte le opere d’arte precedono lo psicoanalista in quanto un artista può occuparsi degli ambiti più svariati. Rimane, però, che la sensibilità e la creatività dell’artista siano arrivate a trattare l’oggetto della psicoanalisi ben prima dell’invenzione della clinica analitica.
Nello specifico della creazione poetica, essa proviene senza dubbio dall’inconscio in quanto il soggetto non è padrone del campo del linguaggio quando le scrive. Si consideri la poetica nella canzone d’autore di Vasco Rossi, accostabile a James Douglas Morrison per la sua verve artistica. Un testo come quello celebre di Una canzone per te ci sembra significativo: “Le canzoni nascono da sole: vengono fuori già con le parole. […] Le canzoni son come i fiori, nascon da sole, sono come i sogni e a noi non resta che scriverle in fretta perché poi spariscono e non si ricordano più”[9]. Come i sogni: dunque sono delle formazioni dell’inconscio, come le produzioni oniriche considerate da Freud la via regia per giungere all’inconscio e, soprattutto, al desiderio manifestato in forma censurata e deformata nel sonno.
Per Freud ognuno di noi è stato poeta, nella sua infanzia, nella forma del gioco. “Ogni bambino impegnato nel giuoco si comporta come un poeta: in quanto si costruisce un suo proprio mondo o, meglio, dà a suo piacere un nuovo assetto alle cose del suo mondo”[10]. Tutti i bimbi giocano, si dedicano ad attività ludiche e coltivano una piacevole area intermedia tra realtà e immaginazione che verrà ampiamente descritta a livello dell’area di illusione, dell’area transizionale da Winnicott [11]. Crescendo si tende ad adeguarsi maggiormente al principio di realtà rinunciando in buona parte al principio di piacere, si tralascia il gioco per dedicarsi al lavoro. Si tratta di un tema già ampiamente trattato dalla Scuola di Francoforte in una querelle teorica fra Erich Fromm ed Herbert Marcuse: quest’ultimo riteneva si dovesse tornare al piacere del gioco sottraendosi al lavoro alienato specifico del capitalismo mentre il primo valorizzava il lavoro creativo.
L’adolescenza rappresenta sicuramente un’età di passaggio in cui la libera attività di inventare giocosamente, a partire da oggetti concreti e reali, si riduce molto. Avviene, però, una consueta sostituzione: quanto prima si appoggiava ad elementi reali per recite, scenari e messe in campo ora si svolge interamente nella fantasia in quanto il soggetto tende a custodire privatamente i propri sogni ad occhi aperti. La ragione dell’intrattenersi fra sé e sé, con le proprie fantasie, viene da Freud presto esplicitata e spiegata e risiede nel fatto che esse hanno un contenuto – chiaramente oppure velatamente –erotico. L’adulto si vergogna di tale mondo immaginativo e lo coltiva in modo segreto, riservato, tanto da sentirsi nettamente a disagio quando viene sorpreso a fantasticare. L’Eros delle fantasie viene rielaborato dall’opera poetica in un modo piacevole e, così, “il poeta ci mette in condizione di gustare d’ora in poi le nostre fantasie senza alcun rimprovero e senza vergogna” [12]. Effettivamente, fra i tanti temi dei quali la produzione poetica tratta e sui quali anticipa la psicoanalisi, un posto di rilievo va conferito all’amore. Dai frammenti di Saffo passando per l’Ars amandi di Ovidio fino a tempi più recenti con Rilke e Goethe (che mi risulta fosse l’autore preferito da Freud), l’amore è sempre stato un argomento centrale della poetica. L’oggetto della psicoanalisi è innanzitutto l’oggetto pulsionale e la materia dell’analisi è soprattutto l’amore. In un’analisi il grande tema, la grande questione è l’amore: nelle sedute si parla d’amore, si parla d’amore in vari modi; ognuno ne parla a suo modo, con il proprio stile, ma il discorso ruota tanto sovente intorno all’amore. Ovviamente si parla dei concetti fondamentali della psicoanalisi e, dunque, si parla della pulsione e delle formazioni dell’inconscio. Si parla di tante altre tematiche ma, in fondo, concetti come la ripetizione hanno a che fare con la ripetizione di un amore primario e il transfert è esso stesso l’amore. Certi momenti dell’analisi iscritti in una dimensione transferale risultano poetici e ci introducono ad un cambiamento di discorso, con l’apertura di nuove prospettive circa l’amore. Come la fantasia apre mondi nuovi che ci permettono un distacco, un’evasione, dalla quotidianità e dalla routine così la poesia è una creazione del soggetto che ci introduce in un mondo diverso. Per questo Lacan disse che lo scritto del presidente Schreber, formalizzato e sistematizzato al culmine della scala del suo delirio, nelle sue Memorie [13], non potesse comunque venire accostato all’atto poetico. “La poesia è creazione di un soggetto che assume un nuovo ordine della relazione simbolica con il mondo. Non c’è nulla di tutto questo nelle Memorie di Schreber”[14]. In Schreber vi è un proliferare del godimento, del godimento che asserisce Dio gli imponga in una forma continua; del tutto assente nella sua relazione con Dio, a differenza di quanto avviene nei mistici, è l’amore. Schreber ama la moglie, sulla quale si impernia la sua relazione interpersonale di un amore amichevole; nel rapporto con l’Altro, nulla rintracciamo dell’Eros.
Se l’amore costituisce il cuore tanto della poesia quanto della psicoanalisi, quello che vi fa ostacolo è il tratto perverso del desiderio maschile. “Fare l’amore è poesia. Ma tra la poesia e l’atto c’è un mondo. L’atto d’amore è la perversione polimorfa del maschio”[15].  La perversione polimorfa con cui Freud definiva la posizione soggettiva del bambino si ritrova come tratto perverso che spinge il soggetto, soprattutto il maschio, ad abbordare l’oggetto erotico in un incontro che si rivela sempre incompleto e fallito a causa della differenza fra libido maschile e soddisfacimento femminile. Esiste un amore poetico, non intaccato dagli scenari ripetitivi della sessualità maschile? Se questo esiste, va situato sul lato donna e la figura di Saffo ne ha cantato le lodi. Si prenda in considerazione uno dei suoi frammenti, il celebre frammento 31, uno dei testi poetici più antichi che noi conosciamo sul tema dell’amore. Tratta dell’amore di Saffo per una sua allieva, nel tiaso di Mitilene dedicato ad Afrodite, caratterizzato dalla gelosia nei confronti del promesso sposo di questa allieva.
Mi sembra uguale agli dei
L’uomo che ti siede di fronte,
e da vicino ascolta la tua
voce dolce,
il fascino del tuo riso. A me questo
sconvolge il cuore nel petto;
ti vedo appena e non mi riesce
più di parlare,
la lingua si spezza, un fuoco sottile
mi corre sotto la pelle,
gli occhi non vedono più, le orecchie
rimbombano,
mi prende un sudore gelido, mi
afferra tutta
un tremito, e sono più verde
dell’erba, e sembro a me stessa vicina a morire.
Ma tutto si può sopportare.….
La descrizione del corpo innamorato e sofferente che emerge da un testo tanto coinvolgente è stata da alcuni, in modo non dissennato, posta a confronto con la fenomenologia clinica degli attacchi di panico, tanto diffusi nella contemporaneità. Questi fenomeni clinici sono, in effetti, accostabili al tema della femminilità, spesso anche in pazienti maschi[16].  Credo, tuttavia, che l’argomento di maggiore interesse qui sia la capacità di Saffo nel descrivere qualcosa dell’amore, di un amore giunto a livello del corpo, radicato in tutta la carne.
L’amore può andare ben al di là dell’immagine, l’amore non è soltanto immaginario e narcisistico per quanto, come ci insegnava Freud, l’amore per un’immagine ideale o di bellezza sia una delle più tipiche forme dell’innamoramento: un essere umano può scegliere l’oggetto d’amore perché questi costituisce quel che è, quel che era o quel che vorrebbe essere[17]. L’amore concerne, infatti, il corpo e le sensazioni corporee, basate sull’avvertire la propria mancanza. Nell’amore si dà quello che non si ha, come detto da Lacan nella sua ormai celeberrima formula: si dona la propria mancanza. Nessun oggetto è mai adatto a dare l’amore perché la domanda d’amore risulta intransitiva. L’amore implica il contatto. Ce lo descrive meravigliosamente Mauro Fogliaresi nella sua poesia L’essenza dello scrivere[18]:
Bisognerebbe amarsi
in braille
sentire l’amore con le dita
e in rilievo
toccare
la vita…
 
Roberto Pozzetti, psicoanalista, fondatore Jonas Como, Membro Scuola Lacaniana di Psicoanalisi e Associazione Mondiale di Psicoanalisi.
 
[1] S. Freud, “Una visione del mondo” in Introduzione alla psicoanalisi, nuova serie di lezioni, Opere, Volume 11, Bollati Boringhieri, Torino, 1989, pp. 262-284.
[2] J. Lacan, Omaggio a Marguerite Duras. Del rapimento di Lol V. Stein in La Psicoanalisi, n.8, 1990, Astrolabio, Roma, p. 11.
[3] Platone, Il simposio, Einaudi, Torino, 2009.
[4] J. Lacan, Il seminario. Libro VIII. Il transfert, Einaudi, Torino, 2008, p. 147.
[5] J. Lacan, Omaggio a Lewis Carroll in La Psicoanalisi, n. 37, Astrolabio, Roma, 2005.
[6] J. Lacan, ibidem, p. 14.
[7] J. Lacan, Prefazione
[8] Carlo Viganò (Giussano 1943 – Milano 2012) fu uno psichiatra e psicoanalista, uno dei pochi italiani a svolgere la propria analisi con Jacques Lacan, in Rue de Lille a Parigi. Fu fra coloro che maggiormente si attivarono per promuovere la teoria e la clinica lacaniana in Italia.
[9] V. Rossi, Una canzone per te in Bollicine, 1983
[10] S. Freud, Il poeta e la fantasia, Opere, Volume 5, cit., p. 375.
[11] D.W. Winnicott, Gioco e realtà, Armando Editore, Roma, 1974.
[12] S. Freud, ibidem, p. 383.
[13] D. P. Schreber, Memorie di un malato di nervi, Adelphi, Milano, 2007.
[14] J. Lacan, Il seminario. Libro III. Le psicosi, Einaudi, Torino.
[15] J. Lacan, Il seminario. Libro XX. Ancora, Einaudi, Torino, p. 68.
[16] Su questo tema mi permetto di rinviare al mio libro Senza confini. Considerazioni psicoanalitiche sulle crisi di panico, F. Angeli, Milano, 2007.
[17] S. Freud, Introduzione al narcisismo in Opere, Volume 7, p. 469.
[18] M. Fogliaresi, Ghiaccioli e venti lire, A. Dominioni Editore, Como, 2013.
Per vedere le foto:
http://haecceitasweb.com/2014/05/30/il-poeta-precede-lo-psicoanalista-in-che-modo/ 

SUL LETTINO DEL DR. COSTANZO: “IL SEGRETO DI ‘IN TREATMENT’ È UNA SCRITTURA PERFETTA”Il regista presenta la seconda parte della serie, su Sky Atlantic all’inizio del 2015. E poi Hungry hearts, il film girato in America e quello in preparazione su Limonov
di Silvia Fumarola, repubblica.it, 30 maggio 2014
SAVERIO Costanzo, 39 anni, regista schivo, autoironico ma con un fondo di malinconia, preferisce il dubbio alle affermazioni definitive: “Non ho certezze, chi sono per dire come stanno le cose? Mi sembra molto presuntuoso”. Pardo d’oro a Locarno per Private ( che gli è valso anche il Nastro d’argento come miglior regista esordiente), Costanzo ha esplorato la fede ( In memoria di me) e le paure dell’infanzia ( La solitudine dei numeri primi ); ha girato un film in America, Hungry hearts , ha ultimato la seconda serie di In treatment con lo psicanalista Sergio Castellitto (in onda su Sky Atlantic nei primi mesi nel 2015) e continua a lavorare al progetto di Limonov dal best seller di Emmanuel Carrère.
Quando ha deciso che avrebbe fatto il regista?
“Non lo so perché non mi sento ancora così sicuro di esserlo, dunque non ho ancora deciso”.
Cosa le piace di più del suo lavoro?
“Il fatto di essere solo, poi di stare tanto con gli altri e potere riordinare tutta la confusione che si è fatta e tornare solo”.
Ha iniziato col cinema, poi è arrivato il successo di In treatment
“Quando la Wildside me lo ha proposto ho pensato che fosse un’occasione per lavorare su sceneggiature di livello altissimo. Grazie a una scrittura così ben congegnata in ogni episodio c’è qualcosa di imprevedibile, qualcosa che l’attore non controlla e rende In treatment un prodotto unico. Per una serie così un interprete deve essere coraggioso, deve buttarsi e guardare cosa succede. Lo “scontro” tra l’accademia e l’imprevedibilità provoca quel colpo geniale inatteso che fa diventare unico il momento ripreso sul set. Il ruolo del regista è relativo”.
Perché?
“Il format esiste in 18 paesi: è chiaro che l’opera non sarà mai uguale all’originale  -  ci sono attori e lingue diversi  -  ma l’emozione sì, nasce da una scrittura
perfetta”.
Cosa succederà nella seconda serie?
“Entriamo nel privato dello psicanalista Giovanni Mari: si è separato dalla moglie, ha una nuova casa con annesso studio, è una dimensione più personale. Poi ci sono i nuovi pazienti: Maya Sansa è un’avvocatessa quarantenne che a vent’anni aveva abortito e torna con una grande rabbia per quella scelta. Greta Scarano è una ragazza malata di tumore che non vuole curarsi; Michele Placido è l’amministratore delegato di un’azienda chimica finito in uno scandalo che comincia ad avere attacchi di panico non tanto per la perdita del lavoro ma per il rapporto con la figlia Alba Rohrwacher. Poi torna la coppia Bobulova-Giannini, in analisi col figlio obeso. Il venerdì, come nella passata stagione, è il giorno in cui Mari va dalla sua terapeuta, Licia Maglietta. Affronta il rapporto col padre, diventa lui il paziente”.
Lei ha fatto analisi?
“Non rispondo mai a questa domanda “.
Com’è andata a New York sul set di Hungry hearts?
“L’esperienza americana è stata molto avventurosa, il film è liberamente tratto dal Bambino indaco di Marco Franzoso. La storia è ambientata a Manhattan, racconta una coppia che s’innamora e si trova a fronteggiare la vita e la morte. I protagonisti sono Alba Rohrwacher e Adam Driver, un giovane attore di grande talento”.
Da Private a In memoria di me, il suo cinema è spesso caratterizzato dagli ambienti chiusi.
“Anche col cinema cerco di capire come guardo le cose per domandarmi: che ci faccio qui? Qual è il mio compito? Non prevedo che ci siano luoghi unici, non sono abbastanza rigoroso, non ragiono sempre nello stesso modo… Spero che visto da me anche un paesaggio sorprendente, larghissimo, come un deserto, non sembri claustrofobico…”.
Non le interesserebbe un film più politico?
“Mi piacerebbe molto, ci ho anche lavorato a lungo ma non ci sono riuscito. Non sono mai soddisfatto. Non demorderò dal tentativo di rappresentare l’Italia, ma è complesso”.
Come procede la preparazione del film sul dissidente russo Eduard Limonov?
“Limonov mi ha affascinato, ha avuto una vita che ne racchiude tante ma è una sfida che ha ancora ha bisogno di confrontarsi con la realtà produttiva, è un progetto importante. Credo che si concretizzerà nell’estate dell’anno prossimo”.
http://www.repubblica.it/spettacoli/cinema/2014/05/30/news/sul_lettino_del_dr_costanzoil_segreto_di_in_treatment_una_scrittura_perfetta-87627237/

RACCONTARSI I RICORDI – SENZA TRASMETTERE I TRAUMI?
di Giuliano Castigliego, giulianocastigliego.nova100.ilsole24ore.com, 31 maggio 2014
Come si sentiranno i nipoti dei 100.000 (centomila!) bambini (in realtà per lo più bambine) vittime di maltrattamenti in Italia? Come staranno le nipoti delle ragazze rapite – e speriamo presto liberate – da Boko Aram in Nigeria? I nipoti delle vittime, dei feriti, degli sfollati e rifugiati delle tante guerre che teniamo educatamente ai margini del nostro giardino europeo? Può sembrare una domanda oziosa, addirittura cinica, visto che è già difficile fare qualcosa per le vittime attuali. Tuttavia vale la pena di porsela perché sono stati fatti importanti passi avanti nella comprensione dei processi neurobiologici di trasmissione dei traumi da una generazione all’altra.
Freud aveva già genialmente avanzato l’ipotesi che nel passaggio da una fase all’altra della nostra vita noi operiamo “una traduzione del materiale psichico” una sorta di nuova stesura in forme di volta in volta più evolute e complesse. Se però la trascrizione fallisce, il materiale non tradotto continuerebbe a seguire “le leggi psicologicamente valide per la precedente epoca psichica” e costituirebbe una sorta di enclave, di cisti del passato che preme nella nuova struttura psichica aprendo la strada alla rimozione. Ciò varrebbe a maggior ragione per i forti traumi emotivi, che non tradotti e invece rimossi, incistati, verrebbero inconsapevolmente messi in atto dall’individuo in forma di azioni ripetute. È lil famoso concetto della coazione a ripetere. “L’Io che ha vissuto passivamente il trauma, ripete ora attivamente una riproduzione attenuata dello stesso, nella speranza di poterne orientare autonomamente lo sviluppo” (Freud) – da queste intuizioni freudiane parte anche Bodei per il suo splendido “le logiche del delirio”. Un originale allievo di Freud, l’ungherese Szondi si interessò poi molto alla trasmissione di vissuti traumatici – e perciò rimossi – da una generazione all’altra, aggiungendo ai concetti di inconscio individuale (Freud) e collettivo (Jung) quello di inconscio familiare. L’ipotesi di Szondi – tra i primi ad introdurre lo studio del genogramma - era che il figlio o il nipote rimettessero inconsapevolmente in atto traumi rimossi accaduti al padre o al nonno, comunque ad un avo. La scuola sistemica ha sviluppato un concetto analogo in tempi più recenti formulando la teoria della trasmissione transgenerazionale di modelli, sentimenti, comportamenti, traumi.
Ora da Zurigo giunge la conferma neurobiologica che traumi della prima infanzia possono essere trasmessi di generazione in generazione fino alla terza, dunque ai/alle nipoti di cui sopra. Il ché potrebbe tra l’altro spiegare l’elevata incidenza nelle generazioni successive di alcune famiglie di disturbi psichici non o non solo geneticamente determinati (quali rispettivamente il disturbo borderline o il disturbo bipolare). È l’affascinante campo dell’epigenetica
Più esattamente il gruppo di ricerca di Isabelle Mansuy – docente sia all’ETH che all’Istituto per la ricerca sul cervello dell’Università di Zurigo – è riuscito ad individuare in uno studio pubblicato da „NatureNeuroscience“ una componente fondamentale di tale processo di trasmissione transgenerazionale dei traumi: le molecole di micro-RNA.
Per i loro esprimenti – che durano da molti anni e avevano già portato a importanti risultati pubblicati nel 2010 su Biological Psychiatry - la Mansuy e i suoi ricercatori hanno separato dalla madre per diverse ore al giorno topolini da poco nati, sottoponendoli ad ulteriore stress. Tali precoci traumi infantili hanno prodotto un effetto negativo sull’intera vita dei topi in questione che hanno perso l’avversione tipica della loro specie verso la luce e gli spazi aperti (una preziosa difesa per loro) e hanno manifestato altri disturbi comportamentali . Non solo. Tali disturbi si sono trasmessi alle successive due generazioni, nonostante le sequenze di DNA degli animali siano rimaste immodificate.
La spiegazione dell’apparente mistero sta appunto nelle molecole di micro-RNA, piccole molecole che sono costituite, come il DNA, di lettere genetiche e che influenzano l’attività e l’espressione dei geni. Tali molecole di RNA vengono prodotte da enzimi che leggono specifiche sequenze di DNA, il nostro patrimonio genetico. Altri enzimi provvedono poi a tagliare correttamente le sequenze in modo da dar vita a una molteplicità di micro-RNA di diversa lunghezza che nelle cellule assumono importanti funzioni regolatrici.
Lo stress induce un importante squilibrio delle molecole di micro-RNA nel cervello, nel sangue e nello sperma dei topi stressati con conseguente alterazione dei processi cellulari e con i danni comportamentali di cui sopra.
La controprova
Per avere la conferma definitiva della loro ipotesi i ricercatori hanno poi isolato i micro-RNA dallo sperma di topi stressati e l’hanno immesso nelle cellule-uovo di topi non stressati. Questi ultimi così trattati hanno mostrato gli stessi disturbi comportamentali dei topi stressati pur non esseendo stati sottoposto ad alcuno stress. Non solo. Anche Il metabolismo della generazione dei nipoti è risultato alterato, con concentrazioni ad es. di insulina e zucchero inferiori a quelle dei topi con genitori non stressati.
“Abbiamo per la prima volta potuto dimostrare che i traumi provocano alterazioni del metabolismo e che queste ultime sono ereditabili” ha affermato la Mansuy.
Poiché i micro-RNA sono rintracciabili anche nel sangue, i ricercatori – che proseguono ora le loro ricerche molecolari nell’uomo – vogliono sviluppare un test, attraverso il quale individuare disturbi dipendenti dallo stress anche nella nostra specie.
Auspicio più che condivisibile. Ma come tutte le scoperte scientifiche importanti anche questa, più che dare risposte definitive, apre a nuove (e vecchie) riflessioni e domande. Innanzitutto cos’è trauma? In considerazione soprattutto del fatto che per la nostra specie non sono solo e tanto gli avvenimenti a determinare conseguenze negative sulla psiche quanto il significato che noi attribuiamo loro, verità esperienziale banale e antica, risalente almeno a Epitteto e oltre, ma fin troppo spesso trascurata nella pratica psichiatrica quotidiana. Un significato che è a sua volta dipendente dalle esperienze precedentemente vissute, dal contesto relazionale in cui l’avvenimento si svolge e dalla capacità o meno di integrarlo nell’ambito della nostra storia di vita. Di fronte a un incidente lavorativo obiettivamente non grave posso reagire con serenità se sento il sostegno di colleghi e/o familiari o invece sviluppare una reazione ansiosa, depressiva, paranoica o altro se lo interpreto come ennesima conferma dell’ostilità della vita verso di me dopo le delusioni ricevute dal/lla partner, dai/lle colleghi/e etc. Qui si aprirebbe il capitolo immenso della resilienza e dei fattori che la determinano e influenzano.
Ma altre altrettanto avvincenti domande si presentano considerando gli aspetti del riconsolidamento della memoria. È ormai provato che “le memorie che sono diventate stabili…ritornano temporaneamente sensibili a[lle] interferenze [molecolari] quando vengono ricordate; pertanto, il ricordo fa sì che le memorie ritornino ad essere labili o fragili per diverse ore…. poi le memorie ridiventano stabili, cioè si riconsolidano e saranno quindi di nuovo insensibili alle interferenze molecolari. Il processo è noto, pertanto, come riconsolidamento delle memorie” (Alberini). Diversi ricercatori, tra cui la Alberini, utilizzando nei ratti un farmaco (RU38486 o Mefipristone) che blocca i recettori dei glucocorticoidi, gli ormoni dello stress, hanno constatato che è possibile ridurre le memorie di esperienze stressanti o traumatiche. I dati di laboratorio suggeriscono inoltre che “esiste una finestra temporale per intervenire in modo efficace” nella riduzione della memoria di esperienze stressanti o traumatica: “bisogna intervenire non troppo presto, quando lo stress è troppo elevato, ma non troppo tardi quando le memorie sono consolidate e non si possono più riconsolidare” (Alberini).
In attesa di nuovi esami del sangue per il riconoscimento di disturbi da stress e di nuovi farmaci efficaci nel ridurre o eliminare (?) la memoria di esperienze stressanti o traumatiche, abbiamo ancora a disposizione gli antichi mezzi offerti dalla parola: quella parlata, che dalle caverne, alle capanne, alle piazze, alle stalle, ai palazzi, fino alle nostre case ci ha aiutato e ci aiuta a tramandarci i ricordi elaborando al tempo stesso la memoria degli stessi (in un processo di permanente riconsolidamento). Quella stessa parola parlata che, incardinata in un setting, Freud ha genialmente posto a fondamento della sua terapia (“talking cure”) e della psicoterapia tout court. E quella scritta, che da Omero in poi è racconto di eventi (per lo più tragici) e vissuti troppo laceranti e devastanti per rimanere immodificati dentro chi li scrive; creazione (poiein) di nuovi mondi complementari, paralleli o alternativi a quelli quotidiani; condivisione di esperienze in cui i ricordi e la fantasia di scrittori/trici, lettori/trici, protagonisti si mescolano e si fondono in una nuova memoria condivisa. E chissà che cosa direbbe Freud di mezzi quali i social media e di progetti quali quello di Twitteratura che consentono e stimolano proprio quel processo a lui caro di riscrittura [o traslitterazione "Umschrift"] sempre nuova e per di più collettiva, anche se sempre precaria e frammentaria, del nostro materiale psichico e in definitiva della nostra identità. Difficile peraltro immaginarsi una sua risposta in 140 caratteri.
(foto: donna ucraina via @andrew_mella)
 
Per vedere la foto:
http://giulianocastigliego.nova100.ilsole24ore.com/2014/05/31/raccontars...
 
 
VIDEO
OTTO E MEZZO: ITALIA “IN TREATMENT”
da la7.it, puntata di Otto e mezzo del 24 maggio 2014
http://www.la7.it/otto-e-mezzo/rivedila7/otto-e-mezzo-sabato-24-05-2014-132349

(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com

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