FILI INVISIBILI
Narrazioni di Psiche tra Procuste e Prometeo
di Miriam Columbro

Le domande dello psicologo nell’era del pluralismo

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6 settembre, 2014 - 20:12
di Miriam Columbro
Questa rubrica deve la sua nascita a un corteo di pensieri che mi porto dietro fin da quando, studentessa in erba di Psicologia, mi ritrovai a dipingere spessori di cielo capaci di contemplare la visione di quel sapere tanto sfaccettato e affascinante, quanto frammentato, che un futuro psicologo si ritrova ad attraversare, nel tentativo di muovere i primi passi verso la definizione della propria identità professionale.

Un viaggio misterioso, una metempsicosi della conoscenza tra Procuste e Prometeo. Da subito, l’analogia mi parve illuminante. Sfuggivo ai letti di Procuste - una celebrazione dogmatica e autoreferente di modelli in forte contrapposizione – come Prometeo ardimentoso di rintracciare col fuoco della conoscenza i fili invisibili: i punti di contatto tra i lemmi inesplorabili dei vari linguaggi. Perché – mi dicevo – il sapere di uno psicologo è emozionale; è relazione; è un approccio ammirato sul mondo che si lascia ferire nella carne delle cose, e anche i saperi devono poter dialogare, intrecciare i loro fili per tessere la trama della mia identità professionale.

Ma andiamo con ordine, come vuole una narrazione che si rispetti: educare, da ex-ducere, significa “condurre altrove”, orientare il nostro agire a ogni passo, fino a giungere alla liberazione dai maestri stessi che ci hanno generosamente inculturato. Parafrasando Putnam, filosofo statunitense, si è educati quando si è in grado di liberarsi dal “punto di vista dell’occhio di Dio”. Solo questa liberazione renderà possibile una visione che sia compatibile con la finitudine, la fallibilità umana, le contingenze imprevedibili della vita e la complessità del reale. Ma, di quanti e quali occhi di Dio uno psicologo deve nutrirsi e poi liberarsi per emergere come professionista con le idee sufficientemente chiare sulla propria identità?

Prima domanda, mi dissi: è un passo. Meravigliosamente stordita dalla molteplicità e apparente incompatibilità degli orientamenti teorici, mi chiesi ancora: ammettere una babele senza fine di studi e orientamenti – secondo Norcross & Newman esistono circa 450 modelli di psicoterapia diversi - significa, forse, riconoscere che imponderabili fattori personali e interpersonali fanno interpretare in molti modi diversi i molteplici e contraddittori aspetti della realtà umana? E se così fosse, a distanza di più di un secolo di studi, si può tollerare ancora quel sentimento di numinosa chiarezza dei diversi modelli che non accetta messa in discussione, se non a prezzo di spaccature poco comprensibili, in professioni fondate sui limiti di ogni sapere umano, provvisorio e per di più storicamente vincolato? E allora, come favorire il benessere psicologico? Con le parole di Migone (2003): “E’ possibile creare un “saper fare” e un “saper curare” comune a tutti gli orientamenti?”

E ancora, fiumi e fiumi di domande alla ricerca del fil rouge di quel percorso accademico che tutti ci accomuna e tutti ci divide sotto un’unica inesplorabile definizione: psicologo.

Finito il nostro bel tirocinio, passato l’esame di stato, istituzionalizziamo il nostro titolo ordinandoci nel fatidico albo che ci rende finalmente professionisti riconosciuti. Eppure, le domande non si cicatrizzano e tormentano le coscienze dei neo-iscritti, al punto che è rarissimo trovare due psicologi che, incontrandosi nella stessa stanza, abbiano idea di come affrontare il mercato del lavoro - salvo chiedersi quale guru scegliere per prendere l’ulteriore titolo che li farebbe approdare al “saper curare” –  se non accidentalmente. E se uno dei nuclei dell’ultima domanda sembra essersi materializzato nella consapevolezza di una lacuna formativa ancora da colmare, l’altro - il “saper fare” – scatena domande ancora più inquietanti per i giovani psicologi: quali sono i nodi attuali della psicologia nel campo delle Scienze Umane? Quale la sua applicabilità nella società della domanda senza risposta? Quali le nuove prospettive; o meglio, quali le prospettive che non riusciamo ad immaginare? L’offerta di lavoro è una cicatrice sul groppone di una soporosa coscienza collettiva che non ci riconosce, atterrita dal tabù della “malattia mentale”? O, è il nostro Stato con i suoi organi istituzionali a non curarsi di riconoscerci e farci riconoscere come professionisti? Dunque, in che modo i professionisti operanti nell’ambito della salute mentale si approcciano, oggi, all’utenza, con quali strumenti e in quale ottica? E, quali strumenti abbiamo accumulato nella nostra “cassetta degli attrezzi”?

E soprattutto, esiste una netta demarcazione tra il ruolo dello psicologo e quello dello psicoterapeuta in un panorama in cui, il counselling psicologico –  il supporto, attività d’elezione dello psicologo – sembra essere acquisibile a buon mercato con una formazione di un paio d’anni che non prevede neppure la laurea in Psicologia?

Nella confusa nube di domande che popolano la mente degli psicologi alle prime armi, riprendo le fila della trama narrativa per rimettere insieme le tessere di un vissuto che sembra languire frammentato.

Sebbene psiche e anima siano state lacerate dall’avanzata trionfale del modello medicalizzato  - che sta trovando anche in Italia un fertile terreno di scontro (Carere-Comes, 2009) - nell’era del pluralismo, è ancora più arduo per uno psicologo medio scegliere la sirena della relatività. E mentre il terrore liquido di un mercato dalle leggi apparentemente incomprensibili, scorre globalizzato ai nostri piedi, accattivanti prospettive multidisciplinari - che promettono di mettere insieme quell’ammasso di cellule di cui siamo composti senza sradicarlo dal pianeta Terra e dal sistema sociale - ci confondono, ulteriormente.
Che sarà mai questo “modello biopsicosociale” che come un’epifania si manifesta sotto lungimiranti vesti mai udite nella nostra formazione universitaria? E’ un abbaglio, una chimera? Sogno o son desta? E, in che modo potrebbe aiutarci a capire chi siamo e come potremmo operare oggi nella società del pluralismo? 

Era il lontano 1977 quando George Engel lo formulò, e ancora Anchin nel 2008, tentò di argomentare alla ricerca, anche lui, di fili invisibili: fili che possano intrecciare teorie e creare una luminosa “metateoria”. E noi psicologi, ancora orfani di una lapalissiana identità, smarriti tra prefissoidi post dal sapore pluralista, vaghiamo ancora, interpellandoci, dal momento che, come qualcuno ci ricorda: “allo stato attuale nessun modello si pone con una tale forza da poter essere scelto in funzione di criteri clinici oggettivi, per una sua maggiore dimostrata efficacia, nell’insieme delle situazioni per le quali può essere indicata una psicoterapia” (Piperno, Stancati, 2009, p. 83).

E, se è vero che il pluralismo è un antidoto al dogmatismo e alla pretesa di possedere verità assolute, è vero anche che un eccesso di questa tendenza - come ci ricorda Al Gore - rischia di sfociare in una sorta di “relativismo narcisista e nichilista”

E allora, cosa concludere al termine di questo viaggio? Tracciando un orizzonte che - mi preme precisare -  è solo un ideale inizio, potremmo iniziare a definire dei punti:
 

1. la differenziazione diventa fattore di sviluppo se è collegata, in maniera dialettica, al movimento opposto di integrazione delle differenze; altrimenti la differenziazione porta a movimenti scissionisti – con le parole di Galli (1982), “paranoie parallele” -  con una produzione di un numero illimitato di scuole e di psicologi, che crescono anche grazie all’ignoranza reciproca, come una miriade di isolotti dispersi in un arcipelago e incapaci di scambio culturale.
 
2. In quanti e quali modi può essere declinato il ruolo dello Psicologo e come possiamo materializzarci nella mente della Società, vincendo quella sfida ancora aperta: penetrare in maniera sinergica nelle maglie del tessuto sociale?
 
3. È necessario recuperare, con coerenza, il nesso tra teoria, prassi e formazione per approdare ad una psicologia/psicoterapia transmodellare; ad un comune modo di fare che consenta a tutti gli attori delle relazioni di aiuto di costituire una “comunità terapeutica” (Pontalti, 1998) a misura d’uomo.

Bibliografia
Anchin J.C. (2008), “Pursuing a unifying paradigm for psychotherapy: Tasks, dialectical considerations, and biopsychosocial systems metatheory”, Journal of Psychotherapy Integration, 18, 310–349.

Carere-Comes T. (2009), Quale scienza per la psicoterapia? Atti del III congresso nazionale della SEPI (Society for the exploration of psychotheraphy integration), Roma, Florence Art, Firenze.

Engel G.L. (1977). “The need for a new medical model: A challenge for biomedicine”, Science, 196: 129-136, DOI: 10.1126/science.847460.

Migone P. (2003), “Verso una psicoterapia senza aggettivi?”, in Il futuro della psicoterapia tra integrità e integrazione, Alberti GG., Carere-Comes T., Franco Angeli, Milano, 2002, 17-33.

Norcross, J.C.,  Newman, C. F. (1992), Psychotherapy integration: Setting the context, in J.C. Norcross & M. R. Goldfried (Eds.), Handbook of psychotherapy integration (pp. 3–45). New York, NY: Basic Books.

Piperno R., Stancati D. (2009) I nodi della psicoterapia nella società attuale, in I nodi attuali della psicoterapia, R. PIPERNO (a cura di), Franco Angeli, Milano.

Pontalti C. (1998), I campi multipersonali e la costruzione del progetto terapeutico, in CERUTI M., LO VERSO G. (a cura di), Epistemologia e psicoterapia, Cortina, Milano.
 

[L'immagine raffigura "Il terapeuta" di Magritte, opera del 1937]

 

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Commenti

Ripensando negli anni ai colloqui avuti con un mio indimenticato ed amato maestro, Cesare Musatti, ho fatta mia la convinzione che non esista una psicologia, ed uno psicologo, se la strada e' quella di ridurre l'individuo ad oggetto statico da ridurre ad un modello. Quando frequentavo da giovane medico allora mutualista la specialita' di psicologia, le facolta erano ancora da venire, era un confronto tra modelli differenti che cercavano di evolvere integrandosi con il territorio piu' scatola nera che conoscenze certe della psiche, insieme di funzioni cerebrali, emotive, affettive, relazionali che rendono ogni individuo simile e differente agli altri. Confronto con laureati in lettere alla ricerca di come meglio relazionarsi con gli allievi, di filosofi per meglio comprendere le domande cui rispondere, con ingegneri alla ricerca di sistemi cibernetici (allora l'informatica era quella) capaci di autoapprendimento, con medici cui le conoscenze neuro fisiologiche non sembravano sufficienti, con matematici che sviluppavano modelli teorici della conoscenza, con teologi alle prese con il libero arbitrio, con sociologi che approfondivano la relazione tra individuo ed istituzione nel suo mutare, e ancora. Giustamente le conoscenze evolvono, nascono le scuole ognuna alla ricerca delle sue certezze, vero, ma anche della propria affermazione. Ma soprattutto con il prevalere della cultura del fare. Ed ecco allora il counselling, necessario a dare ordine al bombardamento di informazioni in cui l'individuo rischia di perdersi, ma nello stesso tempo a rischio di trasformarsi in consiglindi cui son piene le fosse deresponsabilizzanti l'individuo nelle sue scelte. Ecco la trasformazione drl concetto di unita' bio-psico-sociale in modelli di gestione budgetaria delle cure primarie di comunita' . E la psicologia trasformata in quella che chiami "cassetta degli attrezzi" buona ad affrontare qualunque incertezza degli individui. Con le scuole intente a produrre metodi di valutazione del proprio operato per poter dimostrare la propria efficacia nei termini costi/benefici: magari preselezionando i terapeutizzandi per diminuire i possibili tassi di insuccessi. Credo sia questo oggi il limite della psicologia attuale, la ricerca di modelli statici dimenticandosi che l'individuo e' in evoluzione, continua e sempre piu' rapida, a confronto con bisogni e dinamiche sociali anche loro in continua evoluzione.

Caro collega, ti ringrazio per il riporto della tua esperienza. Il tuo vissuto è qualcosa che ho scoperto sui libri e immagino che non deve essere stato facile all'epoca muoversi tra tendenze fortemente contrapposte, dalla mente come scatola chiusa alla mente collocata nel sociale. Dev'essere stato bellissimo avere un Maestro come Musatti.
La mia formazione, invece, è piuttosto new age; un surrogato di tecniche dai più disparati orientamenti, ed è proprio da questa prospettiva aperta e poliedrica che mi piace pormi nell'approccio alla nostra complessità.
Hai toccato un punto chiave su cui concordo: è necessario oggi, più di ieri, visto l'avanzamento degli studi, far dialogare i saperi e uscire dalla staticità o dalla sterile celebrazione di modelli in forte contrapposizione, che per analogia ho definito letti di Procuste. Ma ancora una volta, come osservi, è necessario fare una mirata selezione perché anche chi si avvicina a questo percorso dovrebbe avere delle caratteristiche che gli permettano di approcciarsi alla complessità, senza fare del modello un abito da cucire rigidamente addosso ad ogni utente. A tale proposito, un autore che apprezzo (Norcross), parla di "tailoring", vale a dire la possibilità di adeguare la tecnica al paziente sulla base della sua individualità e delle risorse di cui è portatore. Non più, dunque, un utente guardato come patologico, ma come persona ricca di risorse da valorizzare e far emergere.

Un approccio sempre più umanistico, dunque? Perchè, volenti o nolenti, si finisce per parlare comunque di approcci.
Non sarà che questi approcci sono tanti? Non sarà che la lotta intracategoriale venutasi a creare va a discapito della professione e degli utenti? Nel frattempo, ahinoi, c'è chi ne approfitta...
Ritengo che lo psicologo e, comunque, il professionista della sanità, debba sempre tenere a mente il proprio vero obiettivo, cioè aiutare gli altri. "Già, ma in che 'modo' (= approccio) è meglio?" si chiedono tanti.
Ecco, questa domanda di partenza è già sbagliata. Non dovrebbe essere una primaria preoccupazione 'come', ma piuttosto mettere al centro dell'intervento l'utente, nella sua più genuina forma, senza incasellarlo in rigide categorie psicologiche discendenti da un approccio piuttosto che un altro.
Tutti questi approcci, che, ripeto, ormai sono tantissimi, creano solo tanta confusione, una lotta senza quartiere tra gli addetti ai lavori, che invece dovrebbero non solo non perdere di vista il proprio obiettivo, ma attivare la colleganza (deontologia!!), dialogare, considerare più punti di vista (apertura mentale!!), ma rimanere focalizzati sull'obiettivo ultimo (buon senso e professionalità!!).
Mi capita spesso di veder lotte su basi ideologiche, ad esempio, su internet: beh, trovo tutto questo davvero assurdo oltre che egoistico.
Forse la bio-psico-socialità ci salverà da questo inutile groviglio (per restare in tema ;-) )

Come collega psicoterapeuta e analista junghiana avanzo alcune osservazioni sull'orizzonte ideale proposto, punti 1 e 3..
1. la differenziazione / integrazione è una buona meta se si basa su rispettivi confini chiari e frontiere transitabili..
la differenziazione plurima in “paranoie parallele” sembra effettivamente nascere da una non sufficiente conoscenza del pensiero di riferimento originale.. spesso se ne sceglie un frammento e lo si erige a nuova scuola....
3. rinforzare il nesso tra teoria - prassi - formazione è il prerequisito per la messa a punto di operatori della psiche capaci di relazionarsi all'Altro senza incappare in confusioni proiettive e collusioni..

Cara Simonetta, grazie per le tue osservazioni. Sì, sul punto uno c'è una copiosa bibliografia che ho analizzato nella mia tesi magistrale e poco nota in Italia. Perlomeno, non circola nella formazione accademica. Come osservi, stabilire le linee di confine è importante ed occorrono contributi mirati a favorire un'epistemologia più chiara e coerente. Da qui ci possiamo tranquillamente agganciare al punto tre: procedendo su questo piano, come osservi, diventerebbe più semplice evitare le collusioni e il proliferare di scuole e metodi che non rappresentano altro che estensioni di appendici poco utili e funzionali nell'ottica olistica in cui dovremmo muoverci, oggi.

E' un articolo stimolante, molto critico e attento alla professione dello psicologo di oggi e, ahimè, anche alle difficoltà di questo mestiere. Perchè sono tante.
L'immaginario collettivo dello psicologo, a mio avviso, porta a una scelta universitaria troppo azzardata e impulsiva, se vogliamo, guidata appunto dall'immaginarsi, dopo gli studi universitari, come colui che magicamente aiuta gli altri e può fare "tanto" solo parlando.
Ne è una prova il numero sempre crescente di iscritti aspiranti. Una volta abilitati, dopo 5 anni di studi spesso "cristallizzati", c'è chi non sa ancora cos'è o come fare ciò per cui è autorizzato dallo Stato. Complici in ciò, le politiche riguardanti i tirocini formativi, la prima vera possibilità di mettersi in gioco, che spesso son tutto tranne che formativi. Io partirei da qui per cambiare le cose.
La figura dello psicologo tutti la cercano, ma pochi la "riconoscono" e la valorizzano, almeno in Italia. Per certi versi, siamo ancora a prima della legge 56/89.
Alla frustrazione del neo-sprovveduto-psicologo, lanciato, spesso, come un kamikaze, si aggiunge anche la particolarità del momento storico in cui viviamo, il conflitto tra settori anche simili, la necessità di allargare le proprie conoscenze per unificare saperi anche opposti come forma di adattamento, la crisi economica, i tagli alle spese e la difficoltà di capire cosa richiede il mercato del lavoro, all'interno degli innumerevoli campi di applicazione di questa importante figura, costretta talvolta a svendersi o a ripiegare su professioni affini, quando va bene. Ciò ti porta ad ulteriori studi, master e corsi vari, che poco ti son utili, perché continua a mancare la parte essenziale di questa professione: la pratica.
E' vero, bisogna crearsi da sé, ma è anche vero che, forse, oggi più che mai è molto difficile, quasi impossibile. Nutro, però, ancora qualche speranza, perché devono essere gli psicologi per primi a tutelare gli psicologi, a formarli e a valorizzarsi, il che, se vogliamo, è un obbligo deontologico. Certo è che lo Stato, anche nel suo interesse economico, dovrebbe porre rimedio attraverso leggi volte a offrire davvero psicologi ben formati e consapevoli, che possano portare reale benessere alla società, magari riducendo il numero di potenziali professionisti ma migliorando la qualità della formazione, pochi ma buoni, come si suol dire.
L'articolo offre molti spunti di riflessione, che dovrebbero essere attenzionati, tradursi in scelte operative più intelligenti, considerato il caos a cui viene sottoposto chi si appresta a questa professione.

Caro Antonio, grazie per questo tuo intervento acuto e ben articolato.
Hai toccato un altro punto importante: quello dell'immaginario collettivo che va a incidere su chi decide di intraprendere questo genere di studi (anch'io prima di iscrivermi avevo idee irreali). Poi, la faccenda tirocinio che hai ragione, spesso, è discutibile. Non finiamo mai di formarci, e intraprendere la professione è davvero difficile. Però voglio confortarti sul costruirsi. È vero che è molto difficile, anche per le ragioni che evidenzi, tuttavia la soluzione è quella di aggregarsi con altri colleghi e costruire tessuto sociale unendo le forze. Lo faccio anch’io, da sempre.
Mi auspico, come ho concluso nell’articolo, che si possa giungere a costruire reti professionali sinergiche per approdare a quella bellissima definizione di “comunità terapeutica” che il Professore Pontalti mi ha insegnato. Una definizione che, mi auguro e ci auguro, possa uscire dalle righe di un trattato teorico e diventare concreta e operativa.
In quanto allo Stato, deve essere sensibilizzato dagli Ordini regionali e da quello nazionale che, sono organi statali, tra l’altro. La qualità della formazione nel tempo è migliorata, ma si può ancora perfezionare rendendola congrua all’offerta di lavoro e creando nell’immaginario collettivo la giusta collocazione del nostro ruolo e delle sue declinazioni, oltre ad agire per favorire servizi che farebbero risparmiare sulla spesa pubblica, come quello dello psicologo di base, per citarne uno. Ci sono dati a sostegno del risparmio, sia per quanto riguarda gli psicofarmaci che altri costi medici.
Continuerò con questa rubrica a evidenziare punti sperando perlomeno di suscitare riflessione. Grazie ancora per il tuo attento contributo.

E' necessario capire, allora, in itinere cosa vuol dire fare lo psicologo. Meglio dopo che mai, quando ti accorgi che magari hai fatto la scelta sbagliata (ne conosco diversi).
Io partirei proprio dalle università; meno teoria (che spesso il cdl magistrale non è che una replica di quello triennale), ma un tirocinio più lungo ed effettivamente formativo. Inoltre proporrei un'accurata selezione degli studenti che intendono iscriversi a Psicologia, per rilevare i pre-requisiti necessari ad essere potenziali psicologi. Non credo che privatizzare le Università serva poi a molto in questo senso. Il denaro, quando c'è, impera ovunque e ti apre molte porte.
Iniziare, inoltre, gli studenti a sapersi muoversi abilmente nell'attuale mondo del lavoro, nel pluralismo di cui si parla nell'articolo.
Questa professione, in particolare, richiede saperi afferenti da più discipline ed oggi più che mai. E' necessario che fin dall'inizio sia chiaro il peso della formazione dello psicologo.
Lo psicologo non è solo il clinico dietro la scrivania che fa diagnosi. E questa ostinata idea del "clinico per forza" è un bias che va smontato il prima possibile.
Altra cosa importante su cui torno: i tirocini. Non è possibile sprecare un anno di tirocinio post lauream, il più importante (che prima ce ne sono altri di dubbia utilità), svolgendo talvolta mansioni di segreteria. A me fortunatamente non è successo, ma a quanti miei colleghi? E' difficile trovare "tutor" (virgolettato, apposta, perchè spesso è solo un'etichetta) disposto ad insegnarti il mestiere ed avviarti al mondo del lavoro sempre più pretendente.
Chi dovrebbe sollecitare i giusti organi affinchè proposte come queste vengano prese in considerazione? Naturalmente, come hai ben detto, gli Ordini. Gli Ordini servono prima di tutto a tutelare la professione. Tuteliamola, dunque, non è possibile che su quasi 100.000 iscritti all'albo, ne lavori meno della metà. Pago le tasse? E allora ho DIRITTO ad essere prima formato e, una volta riconosciuto dalla legge come professionista, tutelato.
Con ciò, non voglio de-responsabilizzare i giovani psicologi, ma anzi esortarli a non abbattersi, perché davvero il futuro è nelle nostre mani. Dobbiamo impegnarci per i nostri diritti.

Caro Antonio, è vero, spesso si apprende la portata di questo mestiere dopo la laurea quando ci si ritrova a fare i conti col mercato del lavoro e si scopre che non è poi così semplice stare solo dietro ad una scrivania. Bias sicuramente da smontare quello del clinico ad ogni costo, soprattutto nella realtà odierna. Devo dire che, attraverso l'esperienza maturata con la mia formazione prima e col mio lavoro, dopo, ho notato un miglioramento dell'offerta formativa nell'ottica della pratica. Molti degli studenti che seguo hanno piani di studi improntati anche alla pratica, attività di laboratorio, ricerca, etc. Ma, non c'è omogeneità di metodo nei vari atenei italiani, e si può fare ancora molto per rendere congrua la formazione rispetto all'offerta di lavoro, tanto difficile da identificare nel nostro settore; così come vanno ancora migliorati i tirocini. Idem per il lavoro che spetta agli Ordini, c'è ancora molto da fare per diffondere un'adeguata cultura psicologica, per tutelare la nostra professione e migliorare teoria e prassi.
Di contro, bisogna osservare che la nostra è una professione giovane e dunque, ci auspichiamo grandi progressi e soprattutto un lavoro il più possibile congiunto per i professionisti psi.


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