LA FORMAZIONE E LA CURA
Seminario permanente su l' "Ordine del Discorso"
di Mario Galzigna

ELEONORA DE CONCILIIS E LE "RIVOLTE DEL PENSIERO"

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5 novembre, 2014 - 11:05
di Mario Galzigna
[Sono ben lieto di ospitare qui un articolo di Eleonora De Conciliis - filosofa e docente di filosofia - che prende spunto dal mio saggio RIVOLTE DEL PENSIERO: un articolo denso, problematico, stimolante - destinato alla rivista "La deleuziana" (www.ladeleuziana.org) - che sarebbe necessario discutere]

Può un libro ‘pensare’ in modo radicalmente esperienziale, ontico e dunque non heideggeriano l’apertura della temporalità, il dischiudersi del futuro, e così aiutarci a fomentare l’insurrezione del pensiero contro le sue stesse sclerotizzazioni, traducendo le plurali rivolte del suo titolo in qualcosa di più di una semplice ribellione o di un rapsodico delirio – piuttosto in un ri-volgere, inteso nel duplice significato di ‘rivolgersi ad altri’ e al tempo stesso ‘ribaltare’, mettere sottosopra?
Nel Prologo di questo testo composito, a tratti narrativo e insieme lineare, asciutto perché sobriamente diretto da una profonda esigenza morale, nel fornirci qualche indicazione sul sottotitolo Mario Galzigna sembra rispondere affermativamente a tale interrogativo, che equivale anche a una sfida per ogni foucaultiano: pur trovandosi irrimediabilmente a vivere e scrivere ‘dopo Foucault’, bisogna pensare con Foucault, avere il coraggio di usare “l’opera e l’insegnamento di Foucault” come ‘cassetta degli attrezzi’ per “rilanciare – ricollocandolo al centro dell’attuale scenario teorico-politico [che, non dimentichiamolo, è uno scenario di crisi del capitalismo] – un pensiero critico, antagonista, libertario” (p. 7). Diversi studiosi, sclerotizzati nell’esegesi di colui che in fondo fu, per tutta la vita, un anti-maître, tendono in effetti a dimenticare che, in virtù della sua concezione della critica come indocilità, come ‘arte di non essere governati’, quello di Foucault è, e resta, un pensiero della libertà. Un pensiero capace di articolare come pochi altri, riflessivamente, la peculiare configurazione bifronte del soggetto stesso che pensa e agisce: da un lato, il suo carattere necessitato, costituito, il suo essere prodotto dai dispositivi; dall’altro, la sua forza costituente, che rende possibile – ma anche faticosa perché evenemenziale, non garantita – la trasformazione ‘dal di dentro’ degli stessi dispositivi di assoggettamento in linee di fuga, ossia in costruzione di nuovi e impensati processi di soggettivazione (secondo il suggerimento ‘operativo’ di Deleuze, non a caso evocato a p. 13). È proprio perché “in apparenza rigorosamente determinato”, che il soggetto “gode, in realtà, di insospettati gradi di libertà” (p. 9), che gli consentono non certo di distruggere i dispositivi (il che sarebbe, quella sì, una pretesa delirante), bensì di ri-voltare, di ri-aprire il tempo della propria esistenza, e dunque di fare la storia senza ridurla a ripetizione farsesca del passato: si tratta, a ben guardare, di una lucida posizione rivoluzionaria che Marx così esprimeva nel lontano 1852: “Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione”.[1]
Com’è noto, l’attacco di Foucault al marxismo aveva come bersaglio il concetto di ‘ideologia’, più che quello di rivoluzione. E se Foucault è stato, oltre che il filosofo di una critica, strategica ‘impazienza della libertà’, anche l’insuperato storico della biopolitica, intesa come governo della vita (e della morte) delle popolazioni dell’Occidente moderno, è innegabile che noi europei, proprio per esserci illusi di poter essere dei ‘funzionari dell’umanità’ (Husserl), ci troviamo oggi immersi in una sorta di “disperanza” (despérance, p. 168): nel suo breve Poscritto, Galzigna utilizza questo neologismo coniato da de Musset nel XIX secolo, per alludere all’opprimente chiusura del futuro, alla malinconia politica (una malinconia ‘di sinistra’) che paralizza la filosofia, non solo in Italia – un termine che si potrebbe usare anche in chiave psico-sociale per descrivere i sintomi della crisi di quelle biopolitiche europee (o comunque occidentali) che, fino a qualche anno fa, sembravano in grado di ‘governare’ il capitalismo globalizzato.
Ebbene, di fronte a questo scenario che lo stesso Foucault prefigurava già nel 1971 descrivendo nietzscheanamente l’Europa[2], ma anche per uscire (in senso letteralmente geopolitico, nonché etnopsichiatrico) dalla despérance, Galzigna costruisce, à la Deleuze, un percorso aperto a “temi e narrazioni” (cfr. p. 27 e sg.), a luoghi e linguaggi ‘altri’ rispetto a quelli frequentati dalla filosofia politica tradizionale: costringe il lettore a ‘ribaltarsi’ più volte, per seguirlo nelle pieghe della pittura di Piero di Cosimo o di Magritte, della scrittura di Diderot o di Artaud, ma soprattutto, impegnato com’è in una pratica di ‘decolonizzazione del pensiero’ (secondo l’efficace espressione dell’antropologo brasiliano Viveiros de Castro[3]), lo trasporta nel paesaggio culturale dei Guaranì, in Brasile, forse per stanarne le residue ‘nicchie di fascismo’ (Deleuze) – le stesse che talvolta impediscono alla disincarnata Teoria di incontrare la durezza, il dolore, ma anche la tenera bellezza della Realtà: una lettura femminile del libro non può non rimanere colpita dal fatto che “nel lessico guaranì tenerezza e bellezza sono due significati strettamente interconnessi” (p. 110).
Da tale punto di vista, sebbene utilizzi più volte, nel testo (cfr. ad es. p. 35), il sostantivo fenomenologico Erlebnis per indicare l’esperienza vissuta del ‘divenire molteplice’, direi che le esperienze letterarie, pittoriche, terapeutiche ed etnologiche, tavolta anche molto personali, evocate da Galzigna nel suo libro-arma (per ricalcare lo spirito battagliero della seconda Préface a Storia della follia) appartengono, oltre che alla vasta regione dell’‘onirismo’ foucaultiano (cfr. a p. 15 il riferimento proprio a Storia della follia, opera che rappresenta forse la matrice più profonda della riflessione dell’autore), anche al registro benjaminiano dell’Erfahrung, dell’esperienza come ‘attraversamento’ che trasforma irreversibilmente, e spesso inconsapevolmente il soggetto. Bisogna tuttavia rimarcare che tale soggetto, benchè plasmato dai dispositivi, non è affatto attraversato, vissuto, o agito da un’istanza superiore: egli resta libero di svincolarsi onticamente, empiricamente dalle strutture ontologico-categoriali da cui è storicamente emerso, perché non è, per usare la celebre espressione heideggeriana, “il pastore dell’essere” (un’espressione irricevibile per un foucaultiano, nonostante Foucault abbia più volte riconosciuto il suo debito nei confronti di Heidegger e lo abbia tradotto in un deciso rifiuto dell’umanesimo, compreso quello marxiano). Non a caso, Galzigna sembra concepire il suo percorso, cui è connesso il tentativo teorico di ‘riaprire il tempo’, come un (condivisibile) prendere congedo da Heidegger che equivalga, more deleuziano, a un rovesciamento del platonismo, ma provi anche, secondo il suggerimento di Foucault, a sbarazzarsi dell’ermeneutica del sé per realizzare una politica di noi stessi.[4]
Si tratta insomma di un percorso radicalmente anti-pastorale, articolato in cinque tappe. Nel primo capitolo (pp. 27- 55), Galzigna parte appunto dal pensiero ‘disincarnato’ e sostanzialmente fobico di Heidegger, per contrapporgli l’esperienza empatica dell’incontro con alcuni psicotici all’interno dei Servizi di Salute Mentale, e così tratteggiare una critica morale della riduzione del paziente a ‘cosa medica’, tipica di certa psichiatria contemporanea (non solo farmacologica) ma già denunciata da Foucault nel ’61. Il monolinguismo dell’Essere (che è anche quello del potere-sapere psichiatrico) può essere infatti contestato soltanto dall’evento singolare, o dalla sintesi disgiuntiva (Kant avec Deleuze), che Galzigna ribattezza “disgiunzione creativa” (cfr. p. 81): dal divenire molteplice e senza sintesi di cui il soggetto fa esperienza quando assume fino in fondo il ‘rischio del pensiero’ (Foucault), che poi è anche quello della follia, oppure quando si trova ad operare – e così a costruire il suo processo di soggettivazione – nella sfera estetica.
Spesso la creazione dell’opera d’arte avviene quando, per il soggetto, “il Terribile è già accaduto” (Heidegger): non tanto perché, in termini freudiani, il rimosso riaffiora come perturbante (Unheimlich), ma perché, più semplicemente, si è già verificato un trauma che ossessionerà l’artista per tutta la vita, spingendolo incessantemente a dare forma a ciò che resta invisibile e senza forma: non si tratta soltanto dell’idea di una cosa (cfr. René Magritte citato da Galzigna a p. 76), intesa, alla lettera, come visione mentale ma per ciò stesso irrappresentabile e inoggettivabile, quanto piuttosto di un evento assurdo che ritorna come fantasma (revenant), o che il soggetto cerca di evocare, e che perciò costituisce il nucleo oscuro e misterioso dell’opera. Non a caso, il secondo capitolo del libro (pp. 56-81) affronta le varie declinazioni del perturbante e il modo in cui Magritte, in quanto ‘Maestro del mistero’, sia giunto attraverso il figurale puro a spezzare l’illusione della rappresentazione (secondo l’interpretazione foucaultiana sostanzialmente ripresa da Galzigna[5]), ma soprattutto analizza il modo in cui il pittore belga, attraverso le variazioni seriali di un unico tema o idea ‘invisibile’ (ad esempio nell’Impero delle luci, cfr. pp. 74 e sg.), potrebbe aver rielaborato il dolore provato per il suicidio della madre – avvenuto quando aveva quattordici anni – pur senza mai riuscire a parlare del ritrovamento del suo corpo senza vita. Questa forma di sublimazione artistica – che non è tanto un dirottamento delle energie pulsionali verso mete socialmente approvate, quanto piuttosto una ‘fiera’, tragica seppur metamorfica sopportazione del dolore da parte del soggetto – potrebbe essere accostata, pur con qualche azzardo e fatte le debite proporzioni, ad un analogo processo creativo, spinto ai limiti dell’ossessione a partire da un trauma reale: quello realizzato dallo scrittore statunitense James Ellroy, la cui madre venne assassinata quando il figlio aveva appena dieci anni. Il colpevole non fu mai trovato e quando, dopo una lunga ‘discesa agli inferi’ (per usare l’espressione di Nerval), Ellroy comincerà a scrivere, la sua narrativa non farà che ruotare attorno a quell’omicidio misterioso: oltre a Clandestino (1982), l’intera ‘tetralogia di Los Angeles’ (in particolare il romanzo dedicato a un altro terribile caso quasi coevo a quello della madre e anch’esso rimasto irrisolto, l’assassinio della ‘Dalia nera’, The Black Dalia, 1987) potrebbe rappresentare un tentativo assai riuscito di trasformare, come lo stesso Ellroy ha candidamente riconosciuto, ‘la merda in oro’, ossia lo squallore balordo di una vita segnata da un’atroce, prematura perdita, in un perfezionismo letterario straordinariamente complesso – direi quasi grandioso, pensando alla successiva ‘trilogia americana’ – e notevolmente perverso.       
Da tale prospettiva (e nonostante Ellroy sia considerato e si consideri uno scrittore ‘di destra’), il fil rouge che sembra attraversare il libro, funzionando talvolta per il lettore come stimolante principio associativo, è costituito dallo spessore ‘critico’, per non dire dal valore teorico eversivo che può assumere il linguaggio letterario, sia esso poetico o narrativo. Il percorso di Galzigna si inserisce cioè a pieno titolo nella concezione che della letteratura – e della follia nella sua profonda vicinanza alla pratica letteraria – Foucault ebbe almeno fino al 1964 (cioè fino alla conferenza su Linguaggio e letteratura), come gesto ‘politico’ in grado di sospendere il codice della lingua e così sovvertire l’ordine del discorso, la tirannide della coppia significante-significato. Nella misura in cui la parola (come parole) dice ‘altro’ da ciò che la lingua (come langue, codice) normalmente significa, la letteratura è ‘il pensiero del fuori’ (secondo l’omonimo titolo del saggio che Foucault dedicò a Maurice Blanchot) in grado di far uscire la filosofia dai suoi assi, di portarla out of joints, allo stesso modo in cui il pensiero non europeo – secondo la lezione dell’antropologia ma anche dell’etnopsichiatria – ci costringe a uscir fuori dai recinti speculativi occidentali e dalla nostra normale umanità.
Ecco allora che il terzo capitolo del libro (pp. 82-110), dedicato, come sopra accennato, all’incontro di Galzigna con la cultura Guaranì – incontro che ha avuto per l’autore la forza della verità-evento opposta da Foucault alla verità conoscenza (cfr. p. 102) –  e alla figura di un grande antropologo brasiliano, Darcy Ribeiro, è introdotto dalla riflessione sulla struttura della psiche elaborata da Ronald Laing – l’anti-psichiatra che fece del linguaggio poetico un rivoluzionario uso teorico, capace di scardinare “il lessico dell’identità” e di concepire la mente come parte di un nastro di Moebius, per cui “la coppia includente-incluso può essere ridefinita attraverso la reversibilità dei due termini: ogni termine …può designare rispettivamente la realtà includente e la realtà inclusa: si può dire, ad esempio, che il mondo è nella mente, ma anche che la mente contiene il mondo” (p. 83). Il ‘lirismo’ di Laing si applica alla relazione terapeutica con lo psicotico, che è in grado di potenziare la tracigità della condizione (dis-)umana come “binomio rapporto-separazione” (cfr. pp. 85 e sg.) tra il sé e l’altro, inscrivendosi così nella ‘sorda coscienza tragica’ della follia di cui parla Foucault nella tesi di dottorato del ’61; la prestazione ‘dionisiaca’ (piuttosto che fenomenologica o ‘umanistica’) richiesta al terapeuta non è infatti quella di identificarsi al paziente, bensì quella di pensare con il paziente, di ascoltarne il linguaggio e condividerne il dolore, pur restando nella separazione (cos’altro è, in fondo, il dolore psichico, se non coscienza ‘folle’ della separazione?).   
Risulta così più chiara la posizione antropofagico-letteraria di Ribeiro, riportata da Galzigna a p. 94, come sforzo ‘carnale’ di incorporare metaforicamente e metamorficamente l’alterità per sfuggire alla maledizione dell’identità – posizione che ricorda il Calvino di Sotto il sole giaguaro, in particolare il racconto dedicato al gusto, e risulta per molti versi accostabile a quella di Elias Canetti, per il quale “lo scrittore è il custode delle metamorfosi” (La coscienza delle parole): “Amare, mangiare, scrivere, predicare, intervenire, erano [per Ribeiro] altrettante maniere di ricercare la propria identità non attraverso la strada della distinzione, ma, al contrario, attraverso la strada della fusione del medesimo e dell’altro”. Questo paradigma antropologico, in quanto animato dalla “logica della pluralità” (p. 106) intrapsichica e culturale, appare radicalmente alternativo a quello europeo, e, in quanto logica della sensazione o del ‘sentire’ (Deleuze), rivaluta la profonda, antichissima connessione, già notata da Lévi-Strauss, “tra l’atto della copulazione e l’atto del mangiare” (Il pensiero selvaggio, citato da Galzigna a p. 98) – che costituisce a sua volta una sovversione erotico-metamorfica della nostra logica identitaria.
Tuttavia anche nel pensiero europeo moderno, weberianamente intento a ‘disincantare il mondo’, non mancano i segni di una tale sovversione del sensibile verso la passione del molteplice: li si può ricercare nella letteratura erotica settecentesca che Galzigna, nel quarto capitolo del libro (pp. 11-145), contrappone criticamente all’opera e alla figura di Sade. Mentre infatti costui rappresenta il massimo della scissione tra sessualità e sentimento, mostrando quasi ‘pedagogicamente’ (cfr. p. 119) la decadenza della prima a criminale godimento macchinico e legando così a doppio filo la ragione illuministica alla pulsione di morte (Kant avec Sade, dirà infatti Lacan), è nelle opere libertine di Diderot e del (sottovalutato) Restif de la Bretonne, nella passione amorosa ch’essi traducono in una mescolanza di carnalità e tenerezza, di intelligenza e sensualità (mescolanza che coagula significativamente in personaggi femminili), che Galzigna trova un rimedio al freddo cartesianesimo del divin marchese, il quale avrebbe il torto di aver separato apriori l’anima dalla ‘macchina desiderante’ (cfr. p. 123). E significativamente, è nel Nipote di Rameau – il testo che Foucault pose al cuore di Storia della follia – che Galzigna rileva quella ‘passione del molteplice’ (cfr. pp. 115 e sg.) in grado di costituire la più convincente (ma anche la più rischiosa) antitesi alla monotonia sessuale di Sade. È cioè soltanto al limite della follia, che l’uomo può sperimentare la metamorfosi, sia erotica che filosofica, il diventare-altro pur restando se stesso. Potremmo anche dire che l’eros libertino rappresenta uno dei luoghi in cui ragione e sragione sperimentano nuovamente, dopo il partage cartesiano, una dionisiaca e dunque sovversiva reversibilità, un “pensiero della differenza” – e della rivolta – che Galzigna dichiara di voler ‘attualizzare’ in chiave etico-politica alle pp. 122-123. In altri termini, in questa letteratura oscurata dall’impero sadiano del Male Galzigna sembra scorgere un analogo duale (perché più eroticamente connotato) della cura di sé e dell’estetica dell’esistenza tematizzate dall’ultimo Foucault.
Ebbene, su questa rivalutazione incombono almeno due gravi minacce. La prima, evocata dallo stesso Galzigna nell’ultima parte del capitolo attraverso la funzione ‘moralizzatrice’ di Esquirol e del suo potere-sapere nella storia della psichiatria, è quella dell’assoggettamento di Eros alla Legge della procreazione e all’ordine del discorso borghese – che verrà tradotto da Freud nell’inevitabile ‘disagio della civiltà’: “La passione amorosa, incanalata e addomesticata – non più pericolosa, non più matrice della follia – può risolversi nel sentimento coniugale. Alla realizzazione di questo passaggio fuori dalle mura dell’asilo, si dedicherà con costanza, senza nessuna ganzia di successo, l’impresa psicoanalitica” (p. 145). La seconda minaccia è invece rappresentata, paradossalmente, dalla follia stessa. Una follia senza ritorno e senza guarigione, una follia solitaria e a senso unico che non è quella ‘curata’ da Esquirol, bensì quella vissuta fin nella carne dallo “scrittore insorto” Antonin Artaud. È a lui che Galzigna dedica l’ultimo capitolo del libro (pp. 146-167), in un serrato confronto con l’interpretazione del ‘teatro della crudeltà’ che Derrida ha formulato nel saggio del ’66 poi confluito ne La scrittura e la differenza. Senza volere, né poter entrare qui nel merito di tale confronto, andrebbe semplicemente sottolineato, per concludere, che il carattere tragico della follia artaudiana, il ‘dolore’ che Artaud sperimentò fino alla morte, non soltanto mette in scacco la pretesa psicoanalitica (lacaniana) di aver accesso alla psicosi sia dal punto di vista eziologico che da quello terapeutico (si veda a tal proposito il clamoroso errore diagnostico-prognostico di Lacan, che visitò Artaud a Sainte-Anne nel ’38, come Galzigna riporta a p. 166), ma soprattutto si erge come insuperabile obiezione proprio di fronte alla possibilità di un’esperienza erotica e ‘duale’, se non politica della follia. Se è vero, come sosteneva Susan Sontag, che non si può in nessun modo “utilizzare Artaud” (Sotto il segno di Saturno, citato da Galzigna a p. 167), è anche vero che Artaud ha pagato un prezzo altissimo per essere riuscito, con la sua scrittura e il suo teatro, a fondere “la forza e la forma”, per aver voluto “sfondare il muro del significante” (cfr. p. 155, 158 e i torrenziali Cahiers de Rodez, analizzati da Galzigna nelle pagine seguenti) verso la ‘parola-grido’ e la ‘parola-gesto’, ossia “la Parola che sta prima delle parole” (secondo la sua stessa formulazione): proprio quando scrive per comunicare ad altri – quando scrive le lettere in cui ‘spiega’ il suo teatro – Artaud ‘si piega’ nella disperata solitudine impostagli dal potere manicomiale. Egli resta da questo punto di vista, forse a differenza dello stesso Nietzsche, la punta più avanzata della coscienza lucida, oltre che tragica del delirio (cfr. p. 164): in quanto Artaud è andato, eccezionalmente e da solo, oltre il ‘silenzio’ di cui Foucault volle fare l’archeologia (secondo la celebre espressione della prima Préface), il suo nome riecheggia nella Storia della follia come un grido di rivolta. Ma allora, in termini benjaminiani, e politici, è soltanto il dolore del passato – non la felicità –, che può riaprire il futuro: è solo a favore dei disperati che ci è data la speranza.
     
Eleonora de Conciliis

 



[1] K. Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, trad. it. di P. Togliatti, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 44.
[2] M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, in Id., Microfisiche del potere, a cura di A. Fontana e P. Pasquino, Einaudi, Torino 1977, p. 48: “La decadenza dell’Europa ci offre uno spettacolo immenso [...]. La caratteristica della scena dove oggi ci troviamo è di rappresentare un teatro; […] l’Europeo non sa chi è; ignora quali razze si sono mescolate in lui; cerca il ruolo che potrebbe essere il suo; è senza individualità.”
[3] E. Viveiros de Castro, Métaphysiques cannibales, Paris 2009. Mi sia consentito in questa sede segnalare la traduzione italiana di due saggi di de Castro in Mondi multipli (2 voll.), a cura di S. Consigliere, Kaiak Edizioni 2014.   
[4] Cfr. M. Foucault, Sull’origine dell’ermeneutica del sé, a cura di ‘materiali foucaultiani’, Cronopio, Napoli 2012.
[5] Cfr. M. Foucault, Questo non è una pipa, SE, Milano 1988.

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