COSA VALUTARE - LE RESISTENZE DEI DOCENTI ALLA VALUTAZIONE

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19 marzo, 2015 - 13:07
Relazione presentata al  Convegno su “La Valutazione del Docente”, Pavia 6 marzo 2015

Care colleghe, cari colleghi, la mia relazione avrei potuto impostarla, forse  un po’ scontatamente,  parlando  di ansie, di autostima, ma poiché desidero entrare nell’essenza delle cose,  parlerò di noi; di noi come persone, di noi come “soggetti animati da un desiderio: il Desiderio di trovare negli altri e in se stessi, una risposta d’amore”[1] a una domanda, detta, taciuta o gridata in silenzio.
Utilizzerò gli strumenti e i modelli della psicanalisi freudiana e lacaniana, gli unici che ritengo funzionali a  un tale approccio. 
Poiché Freud considera quello dell’insegnare  un mestiere impossibile, nel  pessimismo di questa considerazione se ne può trarre un aspetto consolatorio e cioè che ogni valutazione impone, data “l’impossibilità” di tale lavoro, ampi elementi a discarico del docente e una grande generosità.
Quella dell’insegnante è una professione difficile e complessa, perché legata ad innumerevoli variabili, le più problematiche delle quali sono quelle relative ai processi di soggettivazione e di  sviluppo dell’identità dei loro discenti.
 
Gran parte della mia relazione, come del resto  gran parte del corpus teorico lacaniano, ruota attorno:

  • ai termini Desiderio e Altro,
  • alle due declinazioni  dell’asserzione “il Desiderio (umano) è il Desiderio dell’Altro”
  • e all’alternarsi storico di tali declinazioni, che ci vedono a volte come soggetti desideranti e altre come oggetti desiderati: il più delle volte sia oggetti che soggetti, in un processo che definirei di “Soggettivazione tramite S’Oggettivazioni all’Altro e successive Separazioni”
Questi due termini hanno anche la singolarità che si contengono vicendevolmente:  
  • infatti il termine Desiderio presuppone  quello di Altro, perché si può desiderare solo ciò che non si ha, cioè altro da quello che pensiamo di possedere;
  • il termine Altro, esprimendo l’alterità rispetto alla nostra identità,  porta con sé fascinazione e inquietudine, in quanto  l’Altro rappresenta chi potrebbe e vorrebbe assoggettarci al suo desiderio, chi potrebbe cogliere cogliere la nostra insufficienza a essere quello che ci illudiamo di essere, oppure essere quello che ci fornisce una risposta d’amore, che elicita il nostro Desiderio.
 
Il termine Desiderio, d’altra parte,  contiene nella sua etimologia (de-sidera -  dalle stelle) una apparente duplice, ma coincidente valenza: porta in sé la dimensione dell’attesa, della veglia, del ripromettersi, dell’attrazione, come, simmetricamente,  anche quella della notte, in cui si dorme, si sogna, appagando, per l’appunto e comunque,  un  nostro desiderio.
 
  • Sobborghi di Milano, anni Settanta. Gli anni del terrorismo e della droga, dei sogni di Oriente e di liberazione. Una mattina, in una classe di un Istituto agrario, appare Giulia, una giovane professoressa di lettere in tailleur grigio. Parla di letteratura e di poesia con una passione sconosciuta, una passione che è allo stesso tempo “Desiderio di Sapere e di Trasmettere il Sapere” [2]-.
 
Se insegnare significa “fare un segno” (signum) dentro qualcuno e  non solo trasmettere contenuti, quell’insegnante ha saputo lasciare negli allievi un segno, uno stigma:  quello del Desiderio di Conoscere.
 
Ecco, io, di un insegnante,  valuterei  questo  Desiderio  e la Capacità di Trasmettere tale Desiderio.
 
Certo che per questo elemento di valutazione non si potranno utilizzare quei modelli che perseguono la razionalizzazione e l'oggettività delle pratiche valutative, quali:
  • il modello pedagogico che si cura del processo educativo  
  • quello epistemologico che si occupa dello sviluppo  del programma e della sua congruenza alla programmazione,
  • quello burocratico il cui fine è certificare le  competenze,
  • quello didattico, che rendiconta se, come e in che modo si siano raggiunti gli obiettivi.
Il modello che propongo è invece specificamente psicanalitico, che fonda la sua  validità e attendibilità, non nella realtà concreta di un test o di un compito,  bensì nella rappresentazione fenomenologica e soggettiva di una realtà di vita scolastica, che è diversa da soggetto a soggetto.
 
Ognuno infatti è portatore di una sua rappresentazione della realtà, determinata, epigeneticamente, e cioè dall’intreccio della propria dotazione organica, e della propria storia,  delle esperienze arcaiche, delle relazioni primarie con l’Altro materno, l’Altro paterno o meglio, del modo in tutto ciò è stato introiettato dal soggetto.
Sono il  vissuto e la coloritura che si hanno di questi oggetti e di queste relazioni, che hanno costruito il nostro mondo interiore e rappresentano lo stampo sul quale si modellano e si modelleranno tutte le successive relazioni interpersonali e intrapsichiche.
Vero è anche che  il mondo interiore non è irreversibilmente dato, ma si modifica, a sua volta, alla luce delle nuove esperienze, dei nuovi rapporti e dei nuovi contesti, dei nuovi Altri e dei nuovi Altrove: ed è proprio in questo reciproco determinarsi, il carattere dinamico e storico della personalità umana. Ognuno quindi  può riscrivere la propria autobiografia, risignificando a posteriori il proprio passato, purchè ne abbia desiderio, purchè qualcun Altro  glielo trasmetta, questo desiderio.
 
Sappiamo tutti come gli aspetti metapsicologici, di cui oggi sto trattando, introducono un altissimo livello di complessificazione nella questione della valutazione, ma la loro conoscenza e la capacità di agire conseguentemente (e cioè le competenze), rappresentano  un aspetto ineludibile del bagaglio culturale del docente: non sono, come avrebbe detto Romei, solo competenze tattiche, cioè funzionali a quelle disciplinari, ma oggi, nella scuola di Narciso[3], sono degli a priori.
Noi, in questo Istituto che oggi ci ospita, abbiamo appena terminato un corso di formazione sulle dinamiche intrapsichiche e interpersonali che entrano in gioco nel processo di Insegnamento - Apprendimento  e il numero dei partecipanti, comunque lusinghiero, è stato percentualmente molto basso rispetto al totale dei docenti e ciò è emblematico di come ci sia una forte resistenza al nuovo e soprattutto verso ciò che ha come prefisso “Psico”.
 
  • È la sindrome di Hitchcock?, per cui non essendo noi più capaci di scrollarci di dosso l’angoscioso Norman Bates di Antony Perkins, in Psyco, mettiamo in atto meccanismi difensivi di fronte a tutto ciò che ricorda il film?
  • È la sindrome di Agatha Christie? Alla scoperta che l’autore di una serie di furti, in un albergo per persone facoltose, fosse  una persona ricchissima, uno dei protagonisti dice, rivolto a Poirot, «Allora si  tratta di questioni psicologiche!». Eccolo il  luogo comune, la misconcezione che fa  considerare  la psicologia come qualcosa che possa entrare in gioco, solo quando accade qualcosa che ci spiazza, che non è coerente con ciò che ci attendiamo, che è eccentrico: come dire: “se uno è cleptomane, lo è come esito di una precisa storia psichica, mentre ladri “si nasce!””.
È ovvio che non è così e che tutti noi siamo l’esito di una concatenazione psichica multifattoriale e multidimensionale e che tutti noi siamo, in fondo,  e in superficie,  una questione psicologica.
A proposito di resistenze alla psicanalisi,  vi racconto di come,  in due convegni sulla scuola, che ho organizzato con Massimo Recalcati relatore, per riempire i teatri, ho avuto l’accortezza di invitare, non solo genitori e docenti, ma anche  alcune  classi di allievi, salvo poi incontrare, nei giorni successivi, genitori e docenti pentiti dell’assenza: cercavano scuse per le loro assenze: verbalizzavano degli atti mancati, ma nello stesso tempo riusciti: atti mancati per quello che si erano perso, ma atti riusciti perché inconsciamente consapevoli che, presenziando, avrebbero corso il rischio di doversi confrontare con qualcosa di perturbante e cioè con la consapevolezza che quanto ascoltato riguardava anche loro. 
 
Sempre stando su Recalcati,  vi riporto un esempio di contagio del Desiderio del quale sono un “portatore sano”, come tutti gli altri che ne sono contagiati.  
Giulia, è il nome della professoressa in tailleur grigio,  ha contagiato Recalcati col suo Desiderio di conoscenza; Recalcati ha fatto della conoscenza e della divulgazione la sua professione, la sua vita, il suo Desiderio di trasmettere Desiderio; Recalcati ha contagiato mio figlio, che si ciondolava dopo il triennale di psicologia, nel biennale di psicologia clinica; conosciuto  Recalcati l’andatura di mio figlio si è modificata:  da lento e indolente ciondolamento è diventato un  procedere dritto, veloce e sicuro:  verso Lacan, Freud, Recalcati, il suo futuro.
Mio figlio ha contagiato me e per fortuna  io ho finalmente superato le mie resistenze verso Lacan e ho riscoperto Freud nella sua profondità di pensiero; ho scoperto  Recalcati, nella sua capacità di approfondire gli aspetti più ostici dell’opera lacaniana, cogliendone tanti aspetti inediti e restituendoceli in modo più convincente rispetto ad altri epigoni di Lacan; poi ho conosciuto Recalcati come uno degli scrittori più suggestivi e sensibili e come uno dei pensatori più profondi del nostro tempo;  quindi nei miei corsi di formazione sto contagiando i docenti, e in questo convegno spero di contagiarvi con il Desiderio di  conoscere voi stessi e, se vogliamo, di considerare seriamente la prospettiva di uscire dalla riserva narcisistica, nella quale ognuno di noi ama permanere, soprattutto noi docenti e dirigenti scolastici.
 
Per evitare ambiguità e fraintendimenti e attivazioni preventive di difese a ciò che dirò, voglio chiarire che il  termine narcisismo non connota nulla di negativo, ma denomina la nostra stessa essenza: il problema, semmai, è come questa difesa venga sublimata.  
Vediamolo questo narcisismo: la psicanalisi in ciò è chiara: quando io dico che amo, mi illudo di amare l’altro, ma nell’altro, in fondo,  amo me stesso.
Amiamo i nostri figli perché sono la proiezione di noi e la prosecuzione di noi; quelli che ci permetteranno di vivere in loro, quando non ci saremo più; amiamo i nostri genitori, perché a loro affidiamo  il nostro rispecchiamento di persone uniche, totalmente amate.
 
[4]“Potrei seguitare a immaginarti così, con una realtà di vita che non potrebbe essere maggiore: quella stessa realtà di vita che per tanti anni, così da lontano, t'ho data, sapendoti realmente seduta là in quel cantuccio.
Quando tu stavi seduta laggiù in quel cantuccio, io dicevo: se Ella da lontano mi pensa, io sono vivo per lei - E questo mi sosteneva, mi confortava……. Ora che tu sei morta, io non dico che non sei più viva per me; tu sei viva, viva com'eri, con la stessa realtà che per tanti anni t’ho data da lontano, pensandoti, senza vedere il tuo corpo, e viva sempre sarai finché io sarò vivo; ma vedi? È questo, è questo, che io, ora, non sono più vivo, e non sarò più vivo per te mai più! Perché tu non puoi pensarmi com'io ti sento.
 È ben per questo Mamma, ben per questo quelli che si credono vivi credono anche di piangere i loro morti e piangono invece una loro morte, una loro realtà che non è più nel sentimento di quelli che se ne sono andati.
Pirandello piange la morte del suo statuto di figlio; piange perché non sarà più chiamato “figlio”.
La nostra stessa angoscia esistenziale trae origine dal nostro narcisismo,  perché ogni oggetto del nostro amore è destinato alla perdita, ed ogni perdita è una nostra perdita, la perdita di quella parte di noi che vedevamo riflessa in chi non c’è più.
 
La nascita dell’Io Narcisistico: LO STADIO DELLO SPECCHIO
 
Tra i sei e i diciotto mesi il bambino, davanti allo specchio,  reagisce come se l’immagine riflessa appartenesse a un altro reale.
Se il bambino è in braccio alla madre e incrocia lo sguardo della madre nello specchio che giubilando indica la sua immagine riflessa, allora la sua immagine viene immediatamente percepita come sua[5]: percepisce la sua compiutezza, la sua integrità fisica e psichica, una gestalt che subentra ai precedenti vissuti di frammentazione.
  • Se lo sguardo della madre fosse spento e non desiderante,
  • se la madre non pensasse per il bambino che quello è lui,
  • se non dicesse al bambino che l'immagine gli appartiene, egli continuerebbe a considerarla un oggetto esterno.
Lo stadio dello specchio offre al soggetto la possibilità di individuarsi come un "Io", di costituire la propria identità e il giubilo, la gioia della madre, espressione del narcisismo dei genitori, diventa, per il bambino,  scoperta del proprio Sé grandioso e narcisisistico!
Il bambino entra in una  dimensione illusoria, nella quale la sua immagine compiuta e senza crepe, emerge contiguamente a  quella materna, per il Desiderio della madre di costituirlo come identità.
Il bambino, fiore sbocciato prematuramente e all’improvviso,  nato dal desiderio e dallo sguardo della Madre, si percepisce lì dove non è.
È proprio lì, lì  dove non è, tant’è, che se a questa età macchiamo, senza farcene accorgere, il naso del bambino e poi lo poniamo di fronte allo specchio, egli cerca di togliere la macchia all’immagine riflessa, che quindi è per lui, il suo Io.
All'aforisma rimbaudiano secondo cui "l'Io è l’Altro", si può aggiungere che “L’Io è Altrove”.  
 
L'immagine speculare è un'immagine che se
  • per un lato determina il senso dell'identità,
  • dall’altra costringe il soggetto ad una identità cristallizzata e fragile su un Io immaginario e destinato alla frammentazione e alla inesistenza, non appena lo specchio dovesse andare in frantumi, non appena non ci fosse più luce nella stanza.
 
E se allora il soggetto volesse  cogliere la propria essenza?  Basta decentrarsi, proporsi in una visione anamorfica, per vedere allora come l’autoconsistenza, la percezione di una propria compiutezza e onnipotenza, siano solo una illusione e come la vera realtà sia la nostra finitudine, la nostra fragilità, l’ineluttabilità dell’incontro con il Reale.
Vi riporto, nella slide, il quadro “Gli ambasciatori” dipinto da Hans Holbein il Giovane nel 1533 e che si trova a Londra, nella National Gallery.
Nella sua magnificenza, il quadro ripropone, a una prima vista, la finzione e l’illusione della vicenda umana: vi sono raffigurati tutti gli oggetti che nella pittura dell'epoca raffigurano i simboli della vanitas e della grandiosità della corte di Enriso VIII, ma tutta la verità del quadro si coglie spostandosi di qualche passo sulla destra, allorchè un oggetto percepito prima informe, diventa ora un teschio,  l’emblema, cioè,  del nostro destino.
Questa ineluttabilità che ci viene sbattuta in faccia e ci riconduce al reale non è disperante, se conveniamo con Bion che, benché  noi non possiamo incidere su eventi come la nostra nascita e la nostra morte, possiamo però decidere cosa fare della nostra vita, che è comunque da vivere, meglio se animati da desideri o meglio dal desiderio di conoscere il nostro desiderio più profondo e ricacciato e segregato nell’inconscio, dall’Io, primo artefice della nostra stessa alienazione. 
 
La Soggettivazione
Passiamo ora a parlare del Processo di Soggettivazione, che articoliamo sulla locuzione: “Il Desiderio (umano) è Desiderio dell’Altro”. Abbiamo visto come il desiderio della madre sia strutturante e morfogeno per l’identità del bambino e questo desiderio proiettato su di lui, ne  fa un “oggetto” o meglio, un soggetto - assoggettato alle proiezioni genitoriali.
Questa condizione è indispensabile, dà sicurezza, è l’abito che portiamo con orgoglio fino all’adolescenza.
Da bambini, parlo per la mia esperienza personale e per quanto vedo professionalmente, introiettare questo desiderio dell’Altro materno e paterno è naturale, confortevole, generativo: ci fa sentire  protetti dal loro sguardo; si è  orgogliosi quando essi sono orgogliosi per una notra impresa.
Da bambini il nostro desiderio coincide con il Desiderio dell’altro, è il Desiderio dell’Altro, e noi vogliamo essere,  per i genitori, l’Altro che soddisfa i loro desideri.
Nell’adolescenza, il desiderio dell’altro genitoriale diventa una gabbia, un ostacolo intollerabile rispetto a ciò che desideriamo d’Altro; da adolescenti, si vuole passare da oggetto a soggetto, dalla alienazione alla separazione. Cerchiamo altri Altri dai quali essere desiderati e da desiderare.
 
E per tutta la vita il processo di soggettivazione si sviluppa tra questa dialettica di assoggettamento ad altri, che mutano continuamente (anche perché nel tempo gli “altri”, poi diventano gli “stessi”)  e di tentativi di oggettivazione degli altri, cioè di assoggettarli al nostro desiderio, anelando sempre a una situazione ottimale, a  un punto di equilibrio, nel quale i rispettivi desideri coincidano e si possano alimentare reciprocamente.
 
In definitiva l’Altro, che è  fondamentale nell’avvio del processo di soggettivazione, diventa anche l’oggetto dal quale ci vogliamo e dobbiamo affrancare, per fare emergere appieno la nostra singolarità, cercando comunque continuamente altri Altri, almeno fino a quando non ci rendiamo conto della mancanza e ancor più, della inesistenza dell’Altro: (ma questo è un altro discorso, da approfondire in altra sede).
Questa è la dinamica che segna il carattere prettamente intersoggettivo della soggettività umana:
chi cede sul Desiderio  di cercare la propria singolarità e di essere artefice del proprio destino, maturerà un profondo senso di colpa e perdita di senso della vita; chi si conforma al Desiderio dell’Altro, diventerà  una identità compiacente e porterà in sé la malinconia di un oggetto perduto per sempre: il vero Sé.
Questo sentimento di annichilimento per il cedimento sul proprio desiderio, è quello di Eveline, allorchè guarda dalla banchina del porto, il piroscafo allontanarsi senza di lei, con il fidanzato  Frank a bordo, con rotta verso Buenos Aires[6].
Se l’Altro ci presenta una storia e un ruolo, frutto delle sue proiezioni, sta poi a noi  decidere come recitare il copione che ci ha dato: siamo noi che decidiamo se Recitare a Soggetto o Recitare Assoggettati.
Noi abbiamo l’obbligo etico di fare, delle proiezioni e dei desideri dell’Altro, il nostro Desiderio, non conformandoci a quello altrui, ma traducendolo  secondo la nostra singolarità:  starà all’Altro, semmai, accettare ciò, piaccia o non piaccia: se vogliamo questa è l’etica del narcisismo, anche se ciò può sembrare un ossimoro.
 
 
L’INSEGNANTE SUFFICIENTEMENTE BUONO
L’insegnante sufficientemente buono crea soggettività, contagiando col proprio desiderio di conoscenza l’allievo, lasciandolo poi libero di perseguire il proprio.
Il docente deve favorire l’emergere della singolarità di ogni allievo, istituendo comunque un patto in cui siano chiare le regole e in cui ci si ripromette l’assunzione di chiare responsabilità.
Il docente deve favorire nel discente la consapevolezza  che egli dovrà giocare  un ruolo attivo nella società,  secondo le regole, ma percependosi soggetto unico, insieme all’Altro, ma irriducibile all’Altro.
Il docente deve favorire l’inscrizione della singolarità di ogni allievo nella universalità della classe, della scuola, della società, della specie umana: universalità segnata da un sentimento di incompiutezza e perciò, dal Desiderio.
 
Dall’individualismo all’appartenenza
Le nostre referenze simboliche, la nostra cultura, ci caratterizzano come una società individualistica:
  • da una ricerca che ho fatto per il gruppo Clas, emergeva come tra 31 paesi della UE,  l’Italia era uno dei due o tre paesi  privi di sistemi valutativi.
  • in un collegio docenti di questo istituto,  a un questionario da me messo a disposizione per una autovalutazione, che come tale sarebbe rimasta a disposizione dei docenti stessi, una insegnante  andò su tutte le furie, gridando, anche a nome di altri, il suo negarsi a una simile esperienza, manifestando un rifiuto totale e grande angoscia, questa volta non al prefisso “psico”, ma al suffisso “valutazione”.
  • alla fine solo una piccola percentuale ha voluto mettersi in gioco con se stesso, giocare questo solitario, dal quale tutti gli altri avevano paura di uscire più solitari e abbandonati di prima.
 
Nella scuola la cultura degli insegnanti sarà cambiata
  • quando al mito della libertà d'insegnamento, sarà introiettata, come elemento di crescita professionale,  la necessità di essere valutati come tutti gli altri;
  • quando si passerà dalla fase dello specchio a quello dell’anamorfosi,
  • quando all’Illusione dell’Io,  subentreranno la Speranza e il Desiderio,  
  • quando si abbandonerà il senso di autosufficienza e di compiutezza si accetterà a quello della mancanza ad essere.
È ovvio che ciò richiede tempo, formazione, disponibilità e sacrificio; un  ulteriore e necessario sacrificio per una categoria di professionisti in trincea, mortificati da una  rappresentazione e da una delegittimazione sociale, la misura delle quali è la indecorosa retribuzione.
Soggetti ai quali, nella scuola di Narciso[7],  vengono richiesti ruoli e funzioni  educativi propri di genitori assenti, che nei colloqui spesso chiedono benevolenza per i propri figli e rigore per chiunque attenti alla sensibilità del proprio bebè.
 
Professionisti ai quali sono stati tolti la referenza e l’appoggio psicologico del preside,  evaporato  come riferimento simbolico anche per gli studenti, perché tenuto lontano dalle relazioni umane,  da assillanti incombenze burocratiche e da mille responsabilità amministrative e istituzionali: il preside, evaporato  come metafora paterna,  si è solidificato nella figura burocratica del dirigente scolastico con la funzione/finzione di garante dell’istituzione. 
 
La valutazione: dalla buona metafora alla sineddoche
La valutazione, inoltre, rende reale una risposta a una domanda che vorremmo fare, ma della quale temiamo la risposta: “chi sono io?”.
Lou Reed ci dice che  “La conoscenza di sé è una cosa pericolosa”. 
 
L’inquietudine aumenta con la domanda: “che cosa sono io per te?”
Noi temiamo che la nostra più profonda alterità, che è ignota a noi stessi, ci possa essere rivelata dall’Altro e già sentirci osservati (figuriamoci se valutati) ci fa sentire nudi e indifesi.
Lo sguardo altrui ci fa percepire come oggetto e non più soggetto e coscienza: se uno ci osserva ci sentiamo a disagio, perché ci sentiamo reificati, oggetto dell’altro e superiamo tale disagio solo affrontando tale sguardo.
Rispondendo con lo sguardo, quello altrui perde la sua consistenza inquietante, rapinosa: rispondendo allo sguardo, si ristabilisce un rapporto paritario di coscienze e di inconsci, che decidono di dialogare o di lasciar perdere o  di configgere o di desiderarsi.
 
L’Io del docente, che vorrebbe essere e rappresentare una buona metafora,  si percepisce, con la valutazione,  come una sineddoche, perché ogni valutazione su un aspetto del proprio Sé,  sarebbe vissuto come una messa in discussione della propria identità professionale e personale.
E questo è il frutto della nostra cultura.
E l’inquietudine aumenta  tenendo conto del nostro contesto sociale, per cui è sempre più attuale la domanda che si poneva un paio di millenni fa, Giovenale: “Quis custodiet ipsos custodes?”[8].
In tal senso condivido le  riserve e temo che, come per l’extracurriculo e i progetti di arricchimento del POF,  si inneschino, con la valutazione, conflitti ancora più feroci, in una categoria di lavoratori che già lotta sfiduciata contro l’indifferenza sociale ed è frammentata  all’interno di ogni istituto, in una lotta tra “poveri”.
Temo che con la valutazione, la serenità dei docenti sarebbe ancor più a repentaglio, con la percezione di ulteriori situazioni di condizionamento e di assoggettamento: sarebbe una iattura, dove soggetti estranei potrebbero entrare impropriamente, per giocare la loro parte, con dadi e carte truccate e fare del merito della competenza, un merito dell’appartenenza. È questo un aspetto perverso dell’”Italian Style”.
Ritengo, altresì, che la strada giusta, il giusto mezzo tra autoreferenzialità e rischi di ingiustizie,  sia quella della autovalutazione, poiché essa potrebbe richiamare il docente all’etica della responsabilità, e lo potrebbe spingere a conoscersi meglio, perché alla fine, l’Altro al quale noi dobbiamo rendere conto, e che è utile conoscere meglio, siamo noi stessi.
Parafrasando Henry Miller[9]:, possiamo dire: se finora noi della scuola “Pensavamo di essere in un circo, come spettatori”, con la valutazione “ci vedremmo  gettati in una arena”.
La mia proposta, lo ribadisco con estrema convinzione, è quella della scelta della autovalutazione, con la quale chiediamo  di recitare, assieme a ragazzi e genitori,  in un bel teatro, il romanzo della “Buona Scuola”: il canovaccio ce l’abbiamo già ed è “L’ora di Lezione” di Massimo Recalcati.


[1] Massimo Recalcati
[2] Massimo Recalcati
[3] Vedi “L’ora di lezione” di Massimo Recalcati
[4] Lettera di Pirandello alla Madre morta.
[5] Altri
[6]Gente di Dublino” - James Joyce
[7] M.Recalcati
[8] Giovenale “Satira VI”
[9] “Credevamo di essere in un circo e invece siamo in una arena”
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