Riflessioni (in)attuali
Uno sguardo psicoanalitico sulla vita comune
di Sarantis Thanopulos

ORTORESSIA DEL VIVERE

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26 luglio, 2015 - 15:04
di Sarantis Thanopulos

L’anoressia è un disagio psichico così rappresentativo della società che si affaccia al nuovo millennio, da poter essere usata come metafora del suo modo di funzionamento più profondo. Rappresenta la regressione dell'isteria patologica verso un crinale melanconico e porta il narcisismo, che ha dominato la scena sociale nella seconda metà del novecento, ai suoi aspetti più mortiferi, devitalizzanti.
È una perversione della soggettività che fa della negazione del desiderio la ragione prima dell'esistenza. Censura severamente la relazione erotica con la vita, nel punto in cui essa è ferita profondamente. Sancisce un disconoscimento radicale dell'oggetto desiderato e si difende dal conseguente effetto depressivo, promuovendo una trasformazione fallica estrema della struttura psicocorporea, che va ben al di là dell'androginia per raggiungere la sua più profonda essenza.   
Per quanto si manifesti come rifiuto del cibo, il bersaglio vero dell'anoressia sono l'intensità,  la profondità  e l'espressività erotica  della struttura psicocorporea, che è prosciugata e contratta nella sua componente femminile. Il dimagrimento estremo tende verso la configurazione di un’esistenza spogliata della sua materia viva e funzionante come  principio spirituale, energia pura. La psiche tende a dissociarsi dal corpo ed è sedotta dal l'ideale di un'esistenza autocratica che può sfidare la morte.
L'anoressia è affrontata come patologia dell'alimentazione perché si perde di vista che ciò che è represso, in realtà, è  il desiderio sessuale alle sue radici. Il lattante non si alimenta per crescere sano, né per mantenersi in vita. Sono prospettive che non gli appartengono: il concetto della nutrizione gli è estraneo e ciò lo protegge da una precoce irruzione dei parametri oggettivi della realtà nella sua vita. La cessazione dello stimolo della fame è un aspetto importante, ma non è l'aspetto più significativo della sua esperienza di allattamento. Vivere esperienze direttamente piacevoli è più importante dell'evitare il dispiacere.
Il bambino può avere una buona poppata, diceva Winnicott, e, nondimeno, sentirsi truffato, se è mancata  la soddisfazione  sensuale, erotica nell'incontro della sua bocca con il seno della madre. La piacevolezza del latte è sovradeterminata dalla qualità sensuale del seno materno, a cui resta per sempre associata, e per questo il nostro rapporto con il cibo ha sempre una componente erotica (come la sessualità ha sempre una sfumatura "alimentare"). Nella negazione del piacere che procura il cibo, il soggetto anoressico colpisce la sua associazione con il piacere erotico e quindi l'attivazione del proprio desiderio che lo esporrebbe a un'intollerabile frustrazione.
La cura dell'anoressia secondo parametri puramente cognitivi che puntano sull'interesse materiale (ai valori nutritivi e di salute) e ignorano la ferita della soggettività desiderante, è fallimentare (senza nulla togliere all'impegno necessario dei medici a garantire la sopravvivenza del  malato). Crea un compromesso minimo che da una parte garantisce un'attività limitata di vita e dall'altra salvaguarda le ragioni dell'anoressia: la prevalenza dello scheletro sulla carne viva.
La cultura dominante nella terapia dell'anoressia, che tratta i soggetti che ne soffrono come una madre che cura i figli privilegiando i fattori quantitativi, riflette l’ossessione della dieta corretta, l’ “ortoressia” del vivere che della società attuale è una struttura portante. La coltivazione di un corpo sempre più  disincarnato nella sua deriva salutistica, che non riesce a vedere nell'anoressia il suo perturbante riflesso.

 
 
 

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