PENSIERI SPARSI
Tra psichiatria, impegno civile e suggestioni culturali
LA COAZIONE VA SEMPRE EVITATA: Relazione al Congresso PSIVE 2016. Parte II: Coazione se benigna o solo se proprio inevitabile?
18 maggio, 2016 - 00:18
Segue da parte I: Della coazione in psichiatria: premesse.
La coazione nella psichiatria della 180
La legge si pone molto seriamente il problema della coazione in sanità e in psichiatria; cito tre punti, in particolare, perché mi pare che possano essere utili a orientarci:
Costituzione art. 32: La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività… Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge….
Legge 833 art. 33: Gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono di norma volontari… gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori devono essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurar il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato. L’USL opera per ridurre il ricorso ai suddetti TSO…
Legge 833 art. 34: Il TSO per malattia mentale può prevedere che le cure vengano prestate in condizioni di degenza ospedaliera solo se esistano alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici.
Queste norme nel loro insieme, mi pare, esprimono una precisa scelta politica del legislatore in Italia in ordine al rapporto tra beneficialità/benignità e libertà, che fa sì che sulla bilancia bioetica i due principi non abbiano per la legge italiana peso uguale: la libertà pesa di più. E LA COAZIONE QUINDI VA SEMPRE EVITATA, ogni volta che si può. E’ un orientamento, questo, che tende in generale a privilegiare nella cura il principo di autonomia e storicamente può forse essere riportato nella sua origine anche all’esperienza negativa della biopolitica del regime fascista, pesantemente invasiva della sfera privata, e certo potrebbe un giorno anche modificarsi; adesso, però, questo è e bisogna tenerne conto.
Abbiamo detto di Pinel, e dello sforzo di spostare la gestione istituzionale della follia dalla coazione alla persuasione. Egli, e chi è venuto dopo di lui, hanno indicato una strada ma l’hanno percorsa infondo solo per i primi passi. Alle catene è stata sostituita la camisole, ecc. Credo che l’opera e il pensiero di Franco Basaglia (1924-1980) debbano essere collocati nel solco di quel ragionamento e lo portino all’esito estremo per il quale, appunto, la coazione va sempre evitata. Fino al noto motto che si legge ancora su un muro al S. Giovanni di Trieste “la libertà è terapeutica”, affermazione che credo non vada banalizzata perché non ha un carattere soltanto di opzione estetica, etica o politica, cioè di un bel desiderio, ma anche tecnica. Si sarebbe potuto dire che la libertà è bella, è giusta, ma si dice invece che è terapeutica: significa che la libertà in psichiatria è anche uno strumento della terapia, e rappresenta il contesto più idoneo per la sua piena efficacia.
Quando la storica della psichiatria Valeria Paola Babini ha intitolato “Liberi tutti” la splendida monografia sulla storia della psichiatria italiana del ‘900, ha inteso evidentemente riferirsi a questa parte della teorizzazione basagliana. Ma, nel motto triestino come in quel testo occorre fare attenzione, perché i “tutti” che diventano liberi con la legge 180 sono i pazienti; mentre noi curanti, privati quasi del tutto dello strumento della coazione, che VA SEMPRE EVITATA, ci troviamo nella situazione della bambina che gioca alla pentolaccia e deve colpirla rimanendo bendata, costretti a impegnarci in una psichiatria della persuasione assoluta, più interessante e avvincente senz’altro ma molto più faticoso e carico di responsabilità, come per la bambina è il gioco che, se potesse usare la vista, sarebbe meno faticoso ma banale.
In una psichiatria «democratica» (cioè più attenta alle esigenze della libertà della persona che a ciò che di benigno può essere fatto coattivamente per lei) infatti l’alternativa alla coazione non è l’abbandono, ma lo sforzo di un accompagnamento in una presa in carico più debole, insicura, sofferta e soprattutto faticosa perché gravata della incognita rappresentata dalla libertà dell’altro, nella quale possiamo avere fiducia ma dei cui esiti non possiamo avere certezza. E questa alternativa – che è un’alternativa tra la scelta della coazione e l’impegno, ogni volta che essa può essere evitata, all’accompagnamento – è, forse, il dilemma della libertà del soggetto, intorno al quale la psichiatria – ogni psichiatria – non potrà cessare mai di interrogarsi.
All’interno di questo discorso io credo anche di poter sostenere che lo psichiatra è tenuto al controllo del comportamento del paziente - un tema su cui siamo spesso confrontati con sensibilità opposta con amici presenti a questo congresso - non cessando però di cercare di evitare la coazione. Basaglia aveva molta fiducia negli psichiatri, ma non li coccolava: era invece verso di essi, e quindi in primo luogo verso se stesso, molto molto esigente. E allo psichiatra d’ispirazione basagliana potrà allora spesso capitare di non poter dormire un sonno tranquillo, perché per evitare la coazione è portato a tirare sempre gli spazi di libertà del paziente al limite estremo ragionevolmente e responsabilmente praticabile della loro possibilità. Potremmo perciò definire questa psichiatria una psichiatria sul limite, una psichiatria del rischio ragionevolmente e responsabilmente praticato. Una “utopia della realtà”, insomma, in continua tensione verso il massimo dell’accompagnamento e il minimo di coazione.
Al polo opposto sta la psichiatria della coazione, sempre benigna nelle intenzioni temo, pagata dal paziente in termini di rischio di umiliazione, di maggiore istituzionalizzazione, di perdita di empowerment, di cronicità. Potremmo allora ipotizzare che se a uno psichiatra capita molto spesso di terminare la giornata con la sensazione che tutto sia sistemato, di avere messo tutto a posto, è una cartina di tornasole per porre il dubbio se non si stia lavorando a un livello eccessivo di coazione.
Se poi la libertà è terapeutica, infine, occorre guardarci soprattutto da un’adesione acritica ad antiche metafore che possono apparire persino ovvie: l’alienato non è «come un grosso fanciullo» come in gran parte pensava la psichiatria pinelliana, e come citiamo qui da uno scritto di Angelo Alberti, direttore dei manicomi genovesi negli anni ’30. Il malato mentale non è un bambino, non ha niente a che fare con lui - infatti è un adulto - e soprattutto non è il «nostro» bambino!
Benignità: le insidie di un criterio
Malattia mentale, “benignità”, libertà, coazione: siamo condannati a rimanere comunque in bilico, mai del tutto tranquilli, tra concetti scivolosi. Credo allora che il riferimento ai concetti di «minima coazione inevitabile» e «massimo sforzo di persuasione», cui pare far esplicito riferimento la legge, sia soprattutto importante in riferimento a tre ambiti problematici, che abbiamo cercato di fare emergere dalla breve casistica clinica esposta nella prima parte del nostro ragionamento:
1. La coazione per malattia mentale: ma quali sono i confini della malattia mentale? Quali sono le persone, o le situazioni, per le quali occorre rispettare il consenso o dissenso informato e quelle sulle quali è legittimo o doveroso esercitare la coazione?
2. Qual è il «bene» del soggetto in riferimento al quale stabilire il criterio della benignità? Come si possono bilanciare, e chi può bilanciare, libertà e igiene/salute/decoro? Come, e chi, quantità e qualità della vita?
3. Quale ampiezza, e quale durata, può avere la coazione alla quale ci sentiamo autorizzati?
Vorrei poi soffermarmi ancora sulle insidie che la benignità, intesa in senso generale, può presentare in psichiatria prendendo dalla storia un caso estremo, quello delle ragioni alla base di una delle nostre pagine più tristi, l’operazione Aktion T4. So bene, naturalmente, che gli amici fiorentini provano per quella pagina il mio stesso disgusto, pure credo che se vogliamo individuare nella benignità anziché nell’inevitabilità il criterio di legittimazione della coazione in psichiatria, dobbiamo esplorare a fondo anche gli scivoloni ai quali il criterio della benignità può avere contribuito a dare luogo. Gli storici hanno ricostruito da dove nacque la messa in pratica da parte di Hitler di idee che circolavano da tempo tra gli scienziati, ma nessun decisore politico si era assunto la responsabilità di realizzare. Pare che un padre gli si fosse rivolto, chiedendo autorizzazione a sopprimere il suo bambino, sofferente e inguaribile. Hitler non ha assunto la decisione a cuor leggero, ma ha incaricato il suo medico personale di verificare che le cose stessero davvero così. Avutane conferma, autorizzò quella soppressione, alla quale fecero seguito, come sappiamo, molte altre. Si trattava anche di un atto benigno nelle intenzioni, dunque, all’inizio e che la benignità fosse, insieme a considerazioni di ordine eugenetico ed economico, uno dei tre argomenti agitati dai sostenitori della soppressione dei malati sofferenti e inguaribili lo conferma Enrico Morselli (1852-1929) il quale nel 1923 intitola un libro volto a contrastare queste ipotesi: L’uccisione pietosa[i].
Del resto, tutte le peggiori cose che nella storia i pazienti psichiatrici hanno dovuto subire, dal manicomio, alle terapie di shock, alla psicochirurgia, sono nate da benigne intenzioni: Dio ci guardi allora dalla benignità degli psichiatri! E quello che queste vicende dovrebbero insegnare è che il concetto di benignità di alcune coazioni può nascondere insidie, perché anche in psichiatria – e forse qui più che altrove – le strade per l’inferno possono essere lastricate di buone intenzioni (di intenzioni benigne).
In conclusione: perché LA COAZIONE VA SEMPRE EVITATA
Ogni volta che ci troviamo di fronte all’alternativa se esercitare o meno la coazione, allora, forse lo sforzo di evitarla sempre e arrendersi proprio solo se e quando è inevitabile - giacché dell’uomo non è l’onnipotenza (e del resto nel mondo classico al fato anche gli dei devono arrendersi) e perché il nostro ragionare deve essere pur sempre consapevole per essere calato nella realtà che ad impossibilia nemo tenetur - può offrire un riferimento meno scivoloso, eticamente più stabile - anche se neanch’esso perfetto - rispetto a quello se sia o meno benigna.
Nella coazione inevitabile, quella di cui non si può proprio fare a meno, lo stato d’animo è quello di una «doppia» coazione: è la coazione che io, lo psichiatra, esercito sul soggetto non per mia scelta, ma perché mi sento a mia volta vittima di una coazione che Ananke, la personificazione del fato - qui riprodotta in una moderna rappresentazione - esercita su di me: vittima quindi di una coazione ad esercitare la coazione… COSTRETTO A COSTRINGERE. Dal modello per cui Io ti costringo per il tuo bene, proprio della coazione benigna, a quello per cui Io sono costretto a costringerti, proprio della coazione inevitabile, l’idea di coazione che comunichiamo all’altro cambia radicalmente. Potrà accadere in entrambi i casi talvolta che egli vi sia comunque sottoposto - più spesso evidentemente se il criterio è quello della benignità, che è più ampio e più discrezionale - ma cambia la sua e nostra posizione nel quadro concettuale all’interno del quale la coazione ha luogo.
Fino a poter immaginare il soggetto, immedesimandoci con lui, mentre comprensibilmente umiliato, esasperato e furente per la coazione subita forse pensa: «beh, sottoponetemi pure alla coazione se vi sembra inevitabile, ma belin non pretendete almeno che io pensi anche che è benigna!».
Perché la coazione è sempre il segno di un conflitto che non è stato possibile comporre e di questo, quando la si esercita, è necessario esplicitare la nostra assunzione di responsabilità senza cercare attenuanti né di fronte all’altro né a noi stessi.
LA COAZIONE - allora - VA SEMPRE EVITATA perché esservi sottoposto non fa piacere a nessuno e perché non è mai in sé benigna; forse non saremo capaci di evitarla sempre e allora sarà l’errore che ci è comune al quale l’uno e l’altro, chi la deve esercitare e chi la subisce, siamo costretti da una situazione nella quale ci siamo trovati e che non ha in quel momento altra uscita. Dovrà essere, comunque, anche quando sarà proprio inevitabile, il più limitata, breve e rispettosa possibile, un concetto, quest’ultimo, che credo che nel discorso odierno debba essere dato per scontato e sul quale non ho dubbi di trovarmi in accordo con i miei contraddittori (ma questo, più che benigno, mi pare dovuto).
La coazione nella psichiatria della 180
La legge si pone molto seriamente il problema della coazione in sanità e in psichiatria; cito tre punti, in particolare, perché mi pare che possano essere utili a orientarci:
Costituzione art. 32: La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività… Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge….
Legge 833 art. 33: Gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono di norma volontari… gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori devono essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurar il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato. L’USL opera per ridurre il ricorso ai suddetti TSO…
Legge 833 art. 34: Il TSO per malattia mentale può prevedere che le cure vengano prestate in condizioni di degenza ospedaliera solo se esistano alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici.
Queste norme nel loro insieme, mi pare, esprimono una precisa scelta politica del legislatore in Italia in ordine al rapporto tra beneficialità/benignità e libertà, che fa sì che sulla bilancia bioetica i due principi non abbiano per la legge italiana peso uguale: la libertà pesa di più. E LA COAZIONE QUINDI VA SEMPRE EVITATA, ogni volta che si può. E’ un orientamento, questo, che tende in generale a privilegiare nella cura il principo di autonomia e storicamente può forse essere riportato nella sua origine anche all’esperienza negativa della biopolitica del regime fascista, pesantemente invasiva della sfera privata, e certo potrebbe un giorno anche modificarsi; adesso, però, questo è e bisogna tenerne conto.
Abbiamo detto di Pinel, e dello sforzo di spostare la gestione istituzionale della follia dalla coazione alla persuasione. Egli, e chi è venuto dopo di lui, hanno indicato una strada ma l’hanno percorsa infondo solo per i primi passi. Alle catene è stata sostituita la camisole, ecc. Credo che l’opera e il pensiero di Franco Basaglia (1924-1980) debbano essere collocati nel solco di quel ragionamento e lo portino all’esito estremo per il quale, appunto, la coazione va sempre evitata. Fino al noto motto che si legge ancora su un muro al S. Giovanni di Trieste “la libertà è terapeutica”, affermazione che credo non vada banalizzata perché non ha un carattere soltanto di opzione estetica, etica o politica, cioè di un bel desiderio, ma anche tecnica. Si sarebbe potuto dire che la libertà è bella, è giusta, ma si dice invece che è terapeutica: significa che la libertà in psichiatria è anche uno strumento della terapia, e rappresenta il contesto più idoneo per la sua piena efficacia.
Quando la storica della psichiatria Valeria Paola Babini ha intitolato “Liberi tutti” la splendida monografia sulla storia della psichiatria italiana del ‘900, ha inteso evidentemente riferirsi a questa parte della teorizzazione basagliana. Ma, nel motto triestino come in quel testo occorre fare attenzione, perché i “tutti” che diventano liberi con la legge 180 sono i pazienti; mentre noi curanti, privati quasi del tutto dello strumento della coazione, che VA SEMPRE EVITATA, ci troviamo nella situazione della bambina che gioca alla pentolaccia e deve colpirla rimanendo bendata, costretti a impegnarci in una psichiatria della persuasione assoluta, più interessante e avvincente senz’altro ma molto più faticoso e carico di responsabilità, come per la bambina è il gioco che, se potesse usare la vista, sarebbe meno faticoso ma banale.
In una psichiatria «democratica» (cioè più attenta alle esigenze della libertà della persona che a ciò che di benigno può essere fatto coattivamente per lei) infatti l’alternativa alla coazione non è l’abbandono, ma lo sforzo di un accompagnamento in una presa in carico più debole, insicura, sofferta e soprattutto faticosa perché gravata della incognita rappresentata dalla libertà dell’altro, nella quale possiamo avere fiducia ma dei cui esiti non possiamo avere certezza. E questa alternativa – che è un’alternativa tra la scelta della coazione e l’impegno, ogni volta che essa può essere evitata, all’accompagnamento – è, forse, il dilemma della libertà del soggetto, intorno al quale la psichiatria – ogni psichiatria – non potrà cessare mai di interrogarsi.
All’interno di questo discorso io credo anche di poter sostenere che lo psichiatra è tenuto al controllo del comportamento del paziente - un tema su cui siamo spesso confrontati con sensibilità opposta con amici presenti a questo congresso - non cessando però di cercare di evitare la coazione. Basaglia aveva molta fiducia negli psichiatri, ma non li coccolava: era invece verso di essi, e quindi in primo luogo verso se stesso, molto molto esigente. E allo psichiatra d’ispirazione basagliana potrà allora spesso capitare di non poter dormire un sonno tranquillo, perché per evitare la coazione è portato a tirare sempre gli spazi di libertà del paziente al limite estremo ragionevolmente e responsabilmente praticabile della loro possibilità. Potremmo perciò definire questa psichiatria una psichiatria sul limite, una psichiatria del rischio ragionevolmente e responsabilmente praticato. Una “utopia della realtà”, insomma, in continua tensione verso il massimo dell’accompagnamento e il minimo di coazione.
Al polo opposto sta la psichiatria della coazione, sempre benigna nelle intenzioni temo, pagata dal paziente in termini di rischio di umiliazione, di maggiore istituzionalizzazione, di perdita di empowerment, di cronicità. Potremmo allora ipotizzare che se a uno psichiatra capita molto spesso di terminare la giornata con la sensazione che tutto sia sistemato, di avere messo tutto a posto, è una cartina di tornasole per porre il dubbio se non si stia lavorando a un livello eccessivo di coazione.
Se poi la libertà è terapeutica, infine, occorre guardarci soprattutto da un’adesione acritica ad antiche metafore che possono apparire persino ovvie: l’alienato non è «come un grosso fanciullo» come in gran parte pensava la psichiatria pinelliana, e come citiamo qui da uno scritto di Angelo Alberti, direttore dei manicomi genovesi negli anni ’30. Il malato mentale non è un bambino, non ha niente a che fare con lui - infatti è un adulto - e soprattutto non è il «nostro» bambino!
Benignità: le insidie di un criterio
Malattia mentale, “benignità”, libertà, coazione: siamo condannati a rimanere comunque in bilico, mai del tutto tranquilli, tra concetti scivolosi. Credo allora che il riferimento ai concetti di «minima coazione inevitabile» e «massimo sforzo di persuasione», cui pare far esplicito riferimento la legge, sia soprattutto importante in riferimento a tre ambiti problematici, che abbiamo cercato di fare emergere dalla breve casistica clinica esposta nella prima parte del nostro ragionamento:
1. La coazione per malattia mentale: ma quali sono i confini della malattia mentale? Quali sono le persone, o le situazioni, per le quali occorre rispettare il consenso o dissenso informato e quelle sulle quali è legittimo o doveroso esercitare la coazione?
2. Qual è il «bene» del soggetto in riferimento al quale stabilire il criterio della benignità? Come si possono bilanciare, e chi può bilanciare, libertà e igiene/salute/decoro? Come, e chi, quantità e qualità della vita?
3. Quale ampiezza, e quale durata, può avere la coazione alla quale ci sentiamo autorizzati?
Vorrei poi soffermarmi ancora sulle insidie che la benignità, intesa in senso generale, può presentare in psichiatria prendendo dalla storia un caso estremo, quello delle ragioni alla base di una delle nostre pagine più tristi, l’operazione Aktion T4. So bene, naturalmente, che gli amici fiorentini provano per quella pagina il mio stesso disgusto, pure credo che se vogliamo individuare nella benignità anziché nell’inevitabilità il criterio di legittimazione della coazione in psichiatria, dobbiamo esplorare a fondo anche gli scivoloni ai quali il criterio della benignità può avere contribuito a dare luogo. Gli storici hanno ricostruito da dove nacque la messa in pratica da parte di Hitler di idee che circolavano da tempo tra gli scienziati, ma nessun decisore politico si era assunto la responsabilità di realizzare. Pare che un padre gli si fosse rivolto, chiedendo autorizzazione a sopprimere il suo bambino, sofferente e inguaribile. Hitler non ha assunto la decisione a cuor leggero, ma ha incaricato il suo medico personale di verificare che le cose stessero davvero così. Avutane conferma, autorizzò quella soppressione, alla quale fecero seguito, come sappiamo, molte altre. Si trattava anche di un atto benigno nelle intenzioni, dunque, all’inizio e che la benignità fosse, insieme a considerazioni di ordine eugenetico ed economico, uno dei tre argomenti agitati dai sostenitori della soppressione dei malati sofferenti e inguaribili lo conferma Enrico Morselli (1852-1929) il quale nel 1923 intitola un libro volto a contrastare queste ipotesi: L’uccisione pietosa[i].
Del resto, tutte le peggiori cose che nella storia i pazienti psichiatrici hanno dovuto subire, dal manicomio, alle terapie di shock, alla psicochirurgia, sono nate da benigne intenzioni: Dio ci guardi allora dalla benignità degli psichiatri! E quello che queste vicende dovrebbero insegnare è che il concetto di benignità di alcune coazioni può nascondere insidie, perché anche in psichiatria – e forse qui più che altrove – le strade per l’inferno possono essere lastricate di buone intenzioni (di intenzioni benigne).
In conclusione: perché LA COAZIONE VA SEMPRE EVITATA
Ogni volta che ci troviamo di fronte all’alternativa se esercitare o meno la coazione, allora, forse lo sforzo di evitarla sempre e arrendersi proprio solo se e quando è inevitabile - giacché dell’uomo non è l’onnipotenza (e del resto nel mondo classico al fato anche gli dei devono arrendersi) e perché il nostro ragionare deve essere pur sempre consapevole per essere calato nella realtà che ad impossibilia nemo tenetur - può offrire un riferimento meno scivoloso, eticamente più stabile - anche se neanch’esso perfetto - rispetto a quello se sia o meno benigna.
Nella coazione inevitabile, quella di cui non si può proprio fare a meno, lo stato d’animo è quello di una «doppia» coazione: è la coazione che io, lo psichiatra, esercito sul soggetto non per mia scelta, ma perché mi sento a mia volta vittima di una coazione che Ananke, la personificazione del fato - qui riprodotta in una moderna rappresentazione - esercita su di me: vittima quindi di una coazione ad esercitare la coazione… COSTRETTO A COSTRINGERE. Dal modello per cui Io ti costringo per il tuo bene, proprio della coazione benigna, a quello per cui Io sono costretto a costringerti, proprio della coazione inevitabile, l’idea di coazione che comunichiamo all’altro cambia radicalmente. Potrà accadere in entrambi i casi talvolta che egli vi sia comunque sottoposto - più spesso evidentemente se il criterio è quello della benignità, che è più ampio e più discrezionale - ma cambia la sua e nostra posizione nel quadro concettuale all’interno del quale la coazione ha luogo.
Fino a poter immaginare il soggetto, immedesimandoci con lui, mentre comprensibilmente umiliato, esasperato e furente per la coazione subita forse pensa: «beh, sottoponetemi pure alla coazione se vi sembra inevitabile, ma belin non pretendete almeno che io pensi anche che è benigna!».
Perché la coazione è sempre il segno di un conflitto che non è stato possibile comporre e di questo, quando la si esercita, è necessario esplicitare la nostra assunzione di responsabilità senza cercare attenuanti né di fronte all’altro né a noi stessi.
LA COAZIONE - allora - VA SEMPRE EVITATA perché esservi sottoposto non fa piacere a nessuno e perché non è mai in sé benigna; forse non saremo capaci di evitarla sempre e allora sarà l’errore che ci è comune al quale l’uno e l’altro, chi la deve esercitare e chi la subisce, siamo costretti da una situazione nella quale ci siamo trovati e che non ha in quel momento altra uscita. Dovrà essere, comunque, anche quando sarà proprio inevitabile, il più limitata, breve e rispettosa possibile, un concetto, quest’ultimo, che credo che nel discorso odierno debba essere dato per scontato e sul quale non ho dubbi di trovarmi in accordo con i miei contraddittori (ma questo, più che benigno, mi pare dovuto).
[i] Sul testo, oggi disponibile anche come eBook, cfr.: P.F. Peloso, Morselli's view on Eugenics, History of Psychiatry, 14, 2003, pp. 269-270.