La mosca di Cartesio: corpo, mondo, relazione

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23 maggio, 2016 - 10:46
La leggenda narra che Cartesio, accampatosi durante uno dei suoi viaggi al seguito dell’esercito francese, si sdraiò sul proprio letto per riposare. Intenzionato alla fondazione di un metodo scientifico rigoroso e oggettivo, si mise ad osservare la propria stanza. Assorto nei suoi pensieri vide una mosca svolazzare all’incrocio degli angoli della propria finestra: in quel momento intuì che se avesse calcolato la distanza tra l’asse verticale e l’asse orizzontale della cornice, rispetto al volo irregolare della mosca, avrebbe saputo esattamente dove questa si trovava, e avrebbe potuto tracciare la traiettoria compiuta dall’insetto durante il suo volo.
È da questa intuizione che il Filosofo sembra aver preso spunto per la creazione dei suoi famosi “assi cartesiani”.
Questa storia su Cartesio, per quanto non avvalorata da alcuna documentazione ufficiale, tuttavia, è assolutamente realistica. Tanto più che si trova a fare il paio con altre asserzioni riguardanti l’esperienza del corpo proprio, o corpo vissuto (Leib), nelle quali egli stesso riconosce la “certezza” delle sue impressioni corporee.
L’elemento più stupefacente sta nel fatto che, pur sottolineando i dati sensoriali e le percezioni come elementi fondamentali della esperienza, Cartesio cerca in ogni modo di negarli nella loro irriducibilità e inaggirabilità: anche ammettendo la presenza dei fenomeni corporei, il Filosofo vuole sbarazzarsi del proprio corpo – di un corpo che abita e si rapporta ad un mondo. Il corpo e il mondo, allora, a partire dalla separazione delle due res, altro non sono per lui che degli oggetti ideali, rispetto ai quali un fuoco d’intelligenza – un ego trascendentale – mette in atto una astrazione preventiva capace di riprodurne, mediante una riduzione, solo le proprietà universali e ripetibili, su di un piano geometrico-matematico.
Ogni fenomeno legato al corpo è suscettibile di essere dubitato sostiene il Filosofo; le sensazioni sono ambigue, i sensi ci ingannano. E comunque ogni pensiero – ogni fenomeno razionale – è possibile al di là da ogni fenomeno corporeo. Il corpo sensibile, così come il mondo – mediante una riduzione eidetica – si fanno dunque “materia estesa”.
Ammettendo l’autenticità della storia della mosca, è incredibile il fatto che Cartesio non si sia reso conto che ogni sottostruttura fisico-matematica, nel momento in cui aspira ad una pretesa verità, si riferisce necessariamente ai fenomeni sensibili che intende spiegare come al momento sempre presente della sua verifica, indipendentemente dalla quale ogni teoria sarebbe solo un sogno. Ogni mappa del mondo prende le mosse da un dato sensibile vivente, e al tempo stesso vi si riferisce continuamente come al suo significato e alla sua legittimazione ultima. Qualsiasi speculazione critica, o metodologia astrattiva, per quanto epurata da ogni elemento ambiguo che non rientri nella categoria della presenza-assenza – come in Cartesio – presuppone necessariamente un corpo spazio-temporalmente situato. Un corpo che ha delle sensazioni, che prova delle emozioni, che ha un odore particolare, una propria forma specifica e insostituibile: un corpo che percepisce, che si orienta. Vale a dire, un corpo-situato-nel-mondo.
Ma quale “tipo” di esperienza ha vissuto il Filosofo?
Sostanzialmente, possiamo ipotizzare a grandi linee che egli abbia visto la mosca in figura, in primo piano, e che abbia percepito sullo sfondo – nella distanza – la cornice della finestra. Nel confronto visivo tra la figura e lo sfondo, tra l’irregolarità del volo della mosca e la regolarità delle linee verticali e orizzontali della cornice, motivato dal bisogno di una scienza esatta, egli ha verificato, a partire dalla sua posizione supina, l’intuizione di una “calcolabilità” della irregolarità dei corpi, all’interno di uno spazio geometrico esatto precedentemente tracciato. Ma lo spazio occupato dal passaggio della mosca di fronte alla finestra è stato percepito da una certa posizione, angolatura, prospettiva, e, come detto poc’anzi, a partire da una intenzionalità, da un certo “come”  del fenomeno, il quale, in quanto correlato intenzionale della coscienza, è dato a quest’ultima. E tutto questo in virtù di un orientamento di coscienza necessariamente “incarnato” in un corpo, che ne esprime, attraverso i suoi movimenti, gesti e posizioni, il senso globale.
L’intuizione fondamentale di Cartesio, a partire da una situazione concreta – non sganciata quindi dalla realtà vissuta –, mette in evidenza il radicamento assoluto dell’esperienza dell’uomo all’interno di un mondo.
Il “mondo della vita” come lo chiama Husserl: il mondo pre-oggettivo, in cui da sempre io sono impegnato. Il presupposto fondamentale di qualsiasi oggettivazione razionale scientifica, la dimensione inaggirabile rispetto alla quale solamente è possibile il rinvenimento di qualsiasi significazione dotata di senso in generale.
In quanto soggetto inserito in un mondo attraverso il suo corpo, il mondo si rivela all’uomo come l’orizzonte ultimo, non tematico, di tutte le sue possibili esperienze: come limite impalpabile assoluto di tutte le sue possibilità. In questo senso il corpo è, in modo radicale, ciò che da sempre e in ogni momento – e in modo originario – relazione-a-un-mondo.
Ma il rapporto non è quello di un soggetto assoluto, di un ego cogito totalmente trascendente, rispetto al quale il mondo apparirebbe come un’idea, una cogitationes tra le altre.
Io stesso sono un “pezzo” di mondo, e il mondo mi sovrasta, mi ingloba. E dall’altra parte, il mondo, in quanto materia bruta, non esiste come un in-sé, perché non può apparire che ad un soggetto che lo percepisce, che lo “modifica” attraverso le sue azioni, e lo contamina con i suoi significati.
Entrambi dunque, soggetto e mondo, sono inconcepibili e insufficienti a loro stessi se considerati l’uno senza l’altro. Così come non può darsi un “soggetto” senza quell’orizzonte di possibilità realizzabili che si concretizzano all’interno di un mondo, e che il mondo rivela come attuabili, allo stesso modo il mondo stesso sarebbe un qualcosa di incomprensibile se l’uomo non trascendesse e non modificasse, abitandolo, l’opacità della sua materia.
Il corpo struttura insieme alle cose un sistema metastabile e dinamico, in cui vi è un rimando e una correzione permanente dei dati di volta in volta “significati”, e acquisiti, rispetto a sé: delle cose che il corpo incontra costantemente, a partire da uno spazio originariamente orientato che egli apre a partire da sé.
Un sistema, questo, all’interno del quale nessun elemento può sfuggire.
Le cose indicano costantemente il corpo “interrogandolo”, indicandolo cioè come loro sbocco  prospettico e sintetico assoluto; e al medesimo tempo è il corpo stesso che, a partire dai suoi bisogni, desideri, intenzioni, “significa” il datum brutum della materia inerte, spezza l’opacità impenetrabile della “cosalità delle cose” direbbe Heidegger – le quali non significano nulla di per sé. In un sistema di rinvii semantici e di senso, che trascendono qualsiasi ipostatizzazione del corpo rispetto al mero percepito.
Punto zero inoggettivabile e mai definitivamente indicabile (perché sempre oltre di sé, “presso” le cose), in quanto sistema di riferimento che noi siamo, non possiamo dire che il corpo abbia uno spazio alla maniera degli altri oggetti. Al contrario: è proprio attraverso la sua attività orientativa, sintetica, prospettica e percettiva, che esso apre necessariamente uno spazio.
Il corpo dunque è quel “ciò” a partire dal quale io mi trovo in un determinato qui ed ora; ma è anche quella apertura originaria senza la quale non potrebbe aprirsi uno spazio situazionale intorno-a-me. Uno spazio cioè intessuto di rapporti, di vicinanze, di lontananze, di attese, di progetti. Senza di esso non potrebbe esserci uno spazio né reale né ideale, così come succede alla maniera degli oggetti geometrici.
Se da una parte è il corpo che, in quanto apertura originaria e centro percettivo prospettico, è capace di dischiudere uno spazio all’interno del quale gli oggetti del mondo rivolgono al corpo la loro stessa faccia, dall’altra parte è il mondo a scoprire e al tempo stesso a verificare le mie possibilità di realizzazione significante. A interrogare tutte le mie potenzialità d’azione e di cambiamento.
Le cose infatti mi “interrogano”, in quanto mi appaiono nella loro disponibilità o indisponibilità possibile. La possibilità stessa si rivela come quello spazio invisibile che circonda come un’aura crepuscolare le cose: un possibile che mi attira, che mi lascia indifferente o che mi respinge in anticipo. A partire dalla sua resistenza, dalla sua impenetrabilità rispetto a qualsiasi possibile presa intenzionale dell’uomo su di esso, il mondo “verifica” i suoi stessi progetti, le sue capacità, la sua conquista degli oggetti; le sue capacità di trasformazione della materia e di risoluzione delle situazioni.
Dall’altra parte, essendo l’uomo medesimo un “oggetto del mondo” – inglobato in esso – quest’ultimo rappresenta non solo la verifica ultima delle possibilità di realizzazione concreta dell’individuo, ma altresì si potrebbe dire che “interpella”, in quanto “occasione”, l’orizzonte interno di possibilità dell’uomo stesso. Se da una parte percepisco il mondo nella sua datità occasionale e rispetto alla mia intenzionalità, in quanto parte del mondo il mio corpo rappresenta per il mondo la sua occasione per manifestarsi. Io esprimo le mie possibilità attraverso e nel mondo, e il mondo si esprime nel mio corpo attraverso il mio corpo stesso.
In questo senso non è pensabile, tra soggetto e mondo, né un rapporto di assoluta trascendenza, né di assoluta immanenza: il corpo vivente, oggetto tra gli oggetti, trascende costantemente le cose e se stesso, attraverso la sua presa sul mondo e la propria attività percettiva.
La mosca di Cartesio rappresentava il dato percepito rispetto alla vista del Filosofo; ma è mediante la sua intenzionalità, progettualità, capacità di simbolizzazione sensoriale che la mosca è messa in relazione alla regolarità di uno sfondo geometrico astratto. È a partire dalla volontà di una coordinazione misurabile e obiettiva, cioè applicabile a tutte le mosche possibili, inseribili all’interno di un contesto preordinato, che Cartesio ha trasceso il semplice “dato” visivo occasionato.  
Oggetto nel mondo e soggetto del mondo dunque; corpo esperiente e corpo esperito; soggetto e oggetto. Il “qui ed ora” e allo stesso tempo il  “li e allora”. Il corpo fisico è sempre un corpo vissuto, oscillante tra punti focali dinamici e mai ipostatizzabili totalmente rispetto alla realtà fenomenica dell’appercezione. L’ambiguità sostanziale del corpo si rivela in questo senso in tutta la propria irriducibilità e anfibolia sensoriale e semantica, incarnando tutti i termini, incrociando tutte le polarità – assorbendo in sé tutti i conflitti.
Il rapporto tra soggetto e mondo si manifesta dunque nel corpo. Punto di intersezione e di scambio, di incontro e di scontro, di possibilità e di impossibilità.
Ma se le “cose”, come abbiamo detto, sono originariamente ciò di cui ci si occupa; e se io appaio a me stesso, mediante il mio corpo, come quel complesso non esplicito di connessioni, di polarità interconnesse tra loro, in una appartenenza costante, il senso della mia esistenza è dato nella misura in cui gli oggetti – attraverso il mio contatto con essi – mi rinviano a me stesso.
In questo senso quindi io definisco, o posso definire, la mia identità, solo “abitando il mondo”.
Ogni significazione, infatti, è un “modo d’azione”. In quanto sento il mio corpo come una certa potenza sul mondo, come una certa possibilità di presa su di esso, percepisco gli oggetti tramite il mio stesso corpo, e viceversa la posizione del mio corpo per il tramite degli oggetti, in una reciprocità dinamica reversibile e mai oggettivabile.
Si può dire dunque che l’uomo è quell’ente che si rapporta a se stesso rapportandosi al mondo, occupandosi di esso. Nel “fare”, egli si riannoda al proprio essere al modo di possibilità che si scoprono nella loro stessa effettuazione.
Ed è quello che poi in sostanza accade a Cartesio con la sua mosca: percependo l’insetto volare all’incrocio di due rette naturali, scopre in sé la possibilità (che si realizza in una immagine concreta) di una misurabilità oggettiva, scientifica, della mosca stessa.
Il corpo dunque rispetto a questo discorso, come è stato detto, mette allo scoperto la relazione originaria e fondamentale tra soggetto e mondo. Ma anche rispetto all’Altro da sé.
Altro che si rivela alla mia stessa presenza a partire da quella intersoggettività che sola può fondare un’oggettività, cioè un mondo di “significati”, di progetti e di cose, condivisibili da più persone.
Un Io che non sia anche un Noi, che non viva in se stesso un’apertura ambigua rispetto all’alterità, infatti, è impensabile e infondabile.
Ogni iniziativa, ogni pensiero, ogni idea che ci facciamo su noi stessi, seppur nella convinzione di una ipseità radicale, sono attraversati da una serie di connessioni plurali derivanti da quella dimensione co-umana nella quale siamo inseriti. Connessioni che determinano profondamente il senso della nostra identità, al punto tale che questa sarebbe impossibile senza un interscambio continuo con quel mondo sociale e condiviso – co-umano appunto – che la rivela a se stessa come centro nevralgico di tutti i possibili temi e stili già condivisi.
Noi viviamo in una totalità preliminare inoggettivabile, e mai acquisibile interamente rispetto alla sua complessità, la quale ci compenetra e al tempo stesso è da noi compenetrata.
Ecco allora dunque che, nel momento in cui io, a partire dalla mia presa sul mondo, scopro le cose come cose “di tutti”, l’alterità dell’Altro emerge da uno sfondo assoluto e inindividuabile, asoggettivo, sfondo che mi precede e mi strappa continuamente alla mia identità e la fonda al tempo stesso. Le cose in cui da sempre sono gettato (Dasein), non sono per me semplici oggetti, ma degli strumenti avvolti da una utilizzabilità che mi rimanda sempre ad altri (Mit-sein), anche quando questi altri non ci sono, non sono cioè direttamente implicati nella loro utilizzabilità.
In questo senso possiamo dire con Patočka, che «[…] ogni io a suo modo è solo una declinazione di tutti gli altri, così come gli altri sono le sue forme declinate».
Ma se io vengo a inserirmi in un mondo a partire dalle mie capacità di modificarlo, di conquistarlo, di significarlo, dall’altra parte, essendo questo mondo già di altri, saranno questi stessi altri che potranno garantire la mia possibilità di realizzare il “mio” mondo mediante la loro accoglienza, cura, protezione. Attraverso cioè la loro capacità di predisporre una terra amabile, benigna, per me.
Una dimora originaria che possa permettermi di ancorarmi al mondo e di agire in esso, di abitarlo.
Qual è dunque l’elemento fondamentale a partire dal quale si andranno strutturando le condizioni di base per un essere-al-mondo spontaneo, coeso, e creativo? La relazione stessa con l’Altro.
Il soggetto infatti si scopre – in quanto corpo vivente – non semplicemente all’interno di una relazione – con il mondo e con l’altro da sé –, ma esso stesso come relazione. Non c’è desiderio senza un desiderata; non c’è atto, parola, silenzio, che non stabilisca un contatto tra due o più termini – che non comunichi qualcosa in una circolarità radicale. In questo senso, possiamo dire, non c’è un Io senza un Tu.
Sarà allora la natura stessa del rapporto che verrà a formarsi, a partire dalla interazione tra gli elementi della relazione – la loro corrispondenza e reciprocità, il loro venire l’uno verso l’altro secondo le dinamiche dell’incontro – che potrà “creare” quelle condizioni fondamentali di possibilità del soggetto.
Il rapporto indispensabile per stabilire queste condizioni, rimane sostanzialmente quello con i propri genitori, con le proprie figure di accudimento. Possiamo allora innanzitutto tracciare una breve separazione psicologica e fenomenologica delle dinamiche relazionali tra madre-bambino, a partire dalla quale potrà essere possibile trarre alcune conclusioni.
 
All’interno del rapporto diadico tra l’Altro importante e il bambino, l’esperienza del Sé, da parte di quest’ultimo, è una esperienza di tipo fusionale. L’Altro cioè viene vissuto come una parte di sé: la quale, a seconda della maggiore o della minore reattività ai suoi (del bambino) bisogni immediati, produrrà una separazione più o meno traumatica e/o naturale da esso (dall’Altro). E quindi più o meno favorente uno sviluppo psicoevolutivo graduale e sicuro.
Essendo l’Altro vissuto come una parte di sé, il bambino vivrà uno stato di onnipotenza rispetto a un adattamento pressoché costante da parte della madre; e dall’altra parte, tuttavia, essendo impossibile questo stato di continuità adattiva, essa sarà il punto di riferimento (sempre assoluto) del bambino, rispetto ad una conferma esistenziale dei suoi comportamenti, emozioni, modi di essere. In virtù di quello stato di fusione originaria, egli vive dunque se stesso e l’Altro senza alcuna relativizzazione. Esperisce cioè alternativamente l’Io e il Non-io come degli assoluti – in una ambivalenza insolubile di onnipotenza e di impotenza.
Il bambino sente di essere una parte legata inscindibilmente all’altra, all’interno di un sistema che è percepito in modo immediato e irriflesso, e soprattutto senza la possibilità di poter essere visto dall’esterno come facente parte di una diade effettiva, e non come un unicum fusionale.
Nella reciprocità della interazione corporea tra madre e bambino, è possibile dunque lo sviluppo del Sé a partire da una materia sensoriale fondamentale e primitiva: e tuttavia, questa materia resta priva di alcuna forma definita, priva di alcuna traccia chiara dai contorni percepibili, dai quali è possibile desumere una separazione netta tra l’Io e l’Altro.
Il tatto rappresenta per il bambino una modalità sensoriale immediata, viscerale, e oscura, in cui le cose vengono percepite propriocettivamente o come “presenti” o come “assenti”; dove qualcosa “mi tocca” o “non mi tocca”, in un funzionamento di tipo tutto o niente.
So che qualcosa “c’è”, ma effettivamente non so precisamente di “cosa” si tratta. Così come so che io “esisto” in qualche modo impressionale e confuso, generale, ma non so ancora “chi” sono. La mia identità non è, ai miei stessi occhi, ancora ben definita; perché non la posso vedere, non la posso cioè mettere a distanza a partire da una rappresentazione psichica del tutto chiara e consapevole. Non la posso simbolizzare mentalmente mediante una immagine, un atto di coscienza quindi, in cui io percepisco me stesso come oggetto della mia stessa osservazione – attraverso il quale sono cioè autocosciente di me.
È solo nella visione del Volto come dice Wright, che potrà essere scolpito – formato – questo senso di Sé incardinantesi in quella sensorialità di base che avviene durante il contatto corporeo tra madre e bambino. Fondato dunque su quella impressionalità quasi carnale, su quel senso di Sé primitivo e opaco iniziale.
Rispetto a questo discorso vorrei fare un inciso.
Se questa interpretazione è comunque valida dal punto di vista della teoria psicologica delle relazioni oggettuali, vero è anche che le moderne neuroscienze hanno recentemente individuato un doppio circuito visivo rispetto al quale ci formiamo un’immagine degli oggetti: la via ventrale, la quale produce infatti una rappresentazione percettiva cosciente delle cose, che ci permette di descrivere ciò che vediamo, da una parte; e dall’altra la via dorsale, incosciente, che, pur essendo inconsapevole, rende disponibile la rappresentazione al sistema della programmazione motoria, che può così predisporre le azioni a partire dalle quali possiamo afferrare l’oggetto (in questo senso la coincidenza tra coscienza e visione teorizzata da Wright è quantomeno parzialmente errata). Ulteriormente, le stesse neuroscienze hanno dimostrato che il neonato, sin da pochi minuti dopo la nascita, è in grado di discriminare sia gli stimoli visivi che gli stimoli biologici. Ma soprattutto è stata individuata un’area specifica per il volto, detta area fusiforme, Fusiform Face Area, FFA (in questo senso invece l’intuizione di Wright, rispetto alla funzione del volto all’interno delle relazioni d’oggetto, è giusta).
Il Volto dell’altro rappresenta, da questa prospettiva, il segno di una messa a distanza mediante il vedere, che il senso inglobante e determinante del tatto non può produrre. Se il tatto implica una vicinanza massima del soggetto rispetto alle cose e alle persone, e quindi una possibilità d’azione minima e una confusività sempre possibile, il guardare implica la prossimità del “massimamente distante”, e cioè la capacità di avvicinare, di rendere “vicini” gli oggetti, seppur in una distanza spaziale effettiva. Attraverso la visione posso definire i contorni delle cose rispetto alla mia persona senza perdermi in essi, e rapportare spazialmente le cose tra di loro – e gli elementi che le definiscono in loro stesse – a partire da una distanza strutturante, coerente e ininterrotta, rispetto a me.
Nella differenza tra il tatto e lo sguardo, il Volto dell’altro, irriducibile alla dimensione del contatto corporeo, dell’accudimento, e dell’alimentazione stessa, incarna altresì una trascendenza che nasce dall’incontro e dalla separazione tra due corpi, al confine tra interno ed esterno – tra l’Io e l’Altro da sé.
Il volto è ciò che non si può toccare, ma solo contemplare. O meglio: lo si può toccare, e tuttavia non si riferisce primariamente agli elementi che sono di competenza specifica del tatto, alla interiorità degli impulsi, bensì a risposte visive esteriori complesse, come il sorridere, il piangere, il guardare in modo amabile, oppure inquieto e distaccato. Il volto cioè sfida fin da subito l’incorporazione fisica. È ciò che, ad esempio, non si lascia introiettare alla maniera del latte materno. In questo senso fondamentale, nell’esperienza del bambino rappresenta un oggetto totalmente differente dal seno della madre, e fa riferimento non ad impulsi interni relativi a bisogni nutritivi, ma occupa uno spazio di risposte specificamente emozionali e simboliche.
Esso è, fondamentalmente, immagine. Si potrebbe dire che il Volto è un “non-oggetto”. Una parte del corpo che traccia una separazione sostanziale tra l’esperienza vissuta e l’esperienza rappresentata: tra il sentire e il guardare, tra la presenza percepibile dell’oggetto (anche transazionale) e la sua assenza a partire dall’immagine.
In modo pressoché originario, esso è un “proto-simbolo” che, seppure circonfuso dal silenzio, comunica significati.
Ma è nel momento in cui il bambino si separa dall’oggetto che si fa presente l’importanza assoluta della visione della madre per il bambino.
Quando comincia a camminare da solo, egli ha bisogno di vedere la madre, di vedere dove lei si trova: ma questa necessità è legata al fatto che la madre veda ciò che lui fa, che confermi cioè, attraverso la sua visione, ciò che il bambino vuole farle vedere. Ulteriormente, nel suo Volto il bambino vede uno specchio di sé, delle proprie emozioni, della propria identità. Se questo specchio funziona in modo corretto, e cioè a partire da una reciprocità dei sorrisi tra madre e bambino, tra bisogni ed emozioni, o tra desideri e sentimenti, mediante gli sguardi e le espressioni dell’Altro, allora il bambino acquisirà una immagine di sé che sarà confermata – per il tramite della madre – e che potrà essere produttiva per la sua creatività e la sua crescita.
Il bambino, mediante l’espressività del volto dell’Altro e la sua capacità contenitiva, conosce, anzi ri-conosce le proprie emozioni (fino ad allora soltanto prevalentemente “sentite”) e in questo modo impara a gestirle. In base dunque a quanto forte sarà la conferma o disconferma della sua interiorità vissuta a partire dallo sguardo dell’Altro, esprimerà o inibirà le diverse parti di sé che in quel momento – nel momento del feedback materno – verranno o meno riflesse.
Il Volto dunque, nella gratuità e irriducibilità del suo donarsi originario, spinge a un auto-rispecchiamento che è tale in virtù della trascendenza del volto che guardo. Io che osservo il volto dell’Altro mi vedo riflesso in lui, vedo me stesso; e tuttavia, ciò è possibile in virtù del fatto che egli, a partire dalla sua trascendenza che mi trascende, mi offre la sua visione di me, mi offre me stesso in quanto oggetto, cioè “produce” la mia stessa autocoscienza – la rappresentazione in immagine della mia stessa identità.
È attraverso l’azione distanziante e strutturante del guardare, mediata dall’Archetipo trascendente del Volto inteso come polo ideale infantile, che è possibile per il bambino dare una forma alla propria immagine di sé: ed è possibile per lui scolpire quella materia impressionale, patica, della propria carne, che compone le fondamenta del suo senso corporeo primitivo.
Tuttavia, in assenza di una corrispondenza emotiva e relazionale in generale, come accennavo, egli percepirà solo la faccia della madre, e vedrà in essa un riflesso alterato della immagine di sé (per questo da adulti è difficile liberarsi della sensazione di essere la “causa” delle espressioni emotive altrui). Anzi, verrà murato fuori del suo Sé, si alienerà dal proprio Sé autentico.
Se il bambino incontra solamente la faccia della madre e non il suo Volto, è possibile infatti che si attivi in lui uno stato di preoccupazione generale rispetto alle espressioni dell’Altro: una preoccupazione che produrrà un tentativo costante di controllo (arousal), all’interno del quale ciò che rischia di subire un danno irreparabile è il senso stesso del Sé primitivo – del Sé centrale.
In virtù della insicurezza ontologica e fisica strutturale che lo costituiscee – e della sua inevitabile dipendenza dall’Altro –, preferirà paradossalmente alienarsi da sé, dalle proprie necessità, dai propri bisogni, pur di controllare e predire l’umore della madre a partire dal suo Volto. Preferirà disconfermare alcune parti di sé, piuttosto che percepire l’angoscia derivante dalla possibilità che l’Altro non lo confermi – attraverso il proprio amore – nella sua stessa esistenza, nel suo stesso esistere.
Ecco perché da adulti, per chi ha vissuto tali momenti di insicurezza e di disconferma, è più facile negare se stessi che negare l’Altro, seppur in una alienazione straniante e invalidante. Perché l’autorità che l’Altro rappresenta per la vita stessa del bambino – e di cui egli investe reciprocamente l’Altro – ha una tale potenza di sfaldamento, una tale forza d’angoscia, da far preferire l’autodistruzione (in cui si ha ancora un senso minimo di controllo) al panico angosciato della distruzione possibile da parte dell’Altro. Panico connotato da un discontrollo totale.
Il bisogno di accettazione, inteso largamente come bisogno d’amore e di conferma della propria esistenza, se non viene convalidato – o convalidato in modo intermittente e paradossale, se non addirittura ambiguo e contradditorio –, spinge alla ricerca compulsiva dei segnali che possano confermare che l’Altro mi ami, e per il quale io ho un valore d’esistenza.
E tuttavia, l’intermittenza dei segnali d’amore – la “non continuità dell’oggetto” – mi spinge ad andare oltre quello che sono, oltre il mio semplice esistere, al di là cioè delle mie emozioni e dei miei sentimenti, o immagini di me: oltre i miei bisogni e desideri che  io, da quel momento, sentirò come immeritevoli di essere soddisfatti, insieme alla totalità della mia stessa persona.
Ecco il paradosso alienante. A partire dal fatto che vorrei disperatamente essere amato dall’Altro per ciò che sono, ma senza poterlo – nella negazione più o meno esplicita, o implicita, dell’Altro –, nella paura di perdere l’Altro dal quale dipendo,  sono spinto a elemosinare quell’amore attraverso ciò che non-sono, in un circolo vizioso auto distruttivo. Il bambino infatti non vivrà più la spontaneità del suo stesso sentire, ma costruirà un progetto di Sé in cui si preoccuperà di consegnare alla madre apparenze “accettabili”, legate insieme in un falso Sé dal suo sguardo positivo.
L’esistenza del bambino subirà cioè uno slittamento dal piano dell’essere a quello del fare, in cui egli convoglierà tutte le sue energie nelle performance, nella prestazioni-per-l’Altro.
Al saper essere si sostituirà dunque il saper fare; alla relazione la prestazione.
Nella sua mente egli cercherà di identificarsi in modo adesivo alla idea che pensa che l’Altro debba avere di lui, perché egli sia amato da quest’ultimo, e perché possa essere degno del suo amore. Nasce allora nel soggetto una istanza psichica giudicante, che scinde quello che sente direttamente dentro di sé come essere umano – e che appartiene alla sua persona –, da quello che può fare per essere all’altezza dell’amore di cui ha bisogno.
Tutto ciò che il bambino esperisce interiormente come non aderente alla immagine che egli pensa che l’Altro ha di lui, perché possa essere amato da lui, dicevamo, rappresenta una minaccia rispetto alla perdita dell’Altro, il quale non mi accetta semplicemente per quello che sono. Ed è a partire da ciò che io procedo a una negazione/svalutazione delle mie pulsioni interne. Al tempo stesso, questa negazione /svalutazione, alimentata dal senso di colpa verso l’autorità esterna rappresentata dall’Altro importante, fa nascere in me la rabbia contro di esso, che non mi accetta in modo incondizionato. E questo genera ulteriori conflitti, ulteriori spaccature interne al soggetto.
Il bisogno originario di conferma che è stato disatteso e che ha permesso lo sviluppo di una istanza auto-critica – la quale muove alla formazione di una performance piuttosto che alimentare la spontaneità di ciò che si è – è lo stesso bisogno che vorrebbe che l’Altro ci ami per quello che siamo. In questo modo si forma un circolo vizioso in cui il soggetto rimane stritolato tra l’autonegazione colpevolizzante e bisognosa, da una parte, e il desiderio di accettazione incondizionata frustrata dall’altra. La quale a sua volta diventa rabbia impotente. L’individuo si sentirà lacerato quindi tra un’autocritica spietata e un orgoglio disperato, tra il senso di colpa e l’angoscia abbandonica.
Se dunque la visione dell’Altro può strutturare la visione di sé del bambino, la visione di sé attraverso l’Altro, nella relazione ancora diadica, può congelare integralmente la soggettività del “destinatario” della visione (come nel fenomeno della vergogna descritto da Sartre).
Se inizialmente non si è costituita quella che Bowlby chiama “una base sicura” (a partire dal Sé “corporeo” principalmente), l’Altro, attraverso la sua visione del bambino, in quanto Altro assoluto, lo oggettivizzerà. Cioè non solo gli restituirà la sua visione di lui mediante la quale potrà inserirsi in una dimensione sociale condivisa, ma oggettiverà tout court – integralmente – la sua stessa identità. Il bambino diventerà né più né meno schiavo di ciò che l’Altro vede, non riuscendo quindi più a gestire a un livello informativo e critico la visione di sé che l’Altro gli rimanda.
Ed è a partire da questa visione che vedrà rivelarsi la sua stessa essenza. Essenza che verrà a definirsi dunque mediante l’Altro, come un Sé che può essere o completamente cattivo – che egli non deve mai essere – o un sé magnifico – che tutti adoreranno.
Se il bambino proverà un impulso che la madre non saprà gestire, questa gli restituirà uno sguardo freddo, oppure arrabbiato, oppure semplicemente maldisposto.
In quel momento il bambino percepirà la sensazione di fallimento del contenimento, e alienerà quella parte di sé disconfermata, o non contenuta, la quale verrà vissuta come altra-da-sé.
Tuttavia, questa parte sarà solamente rimossa, e mai cancellata definitivamente, e potrà tornare in modo subdolo e angosciante, fantasmatico, in qualsiasi momento. Egli diventerà dunque un oggetto ai suoi stessi occhi, all’interno di una dimensione esistenziale in cui l’auto-osservazione e l’osservazione dello sguardo approvante (o disapprovante) dell’Altro, saranno inscindibili.
Il proprio Sé “senziente” sarà un Altro spaventoso da “tenere a bada”, un Altro da controllare, reprimere: e questo a partire dal fatto che il bambino sentirà lo sguardo dell’Altro che, in modo eterodiretto, farà si che egli potrà dire a stesso «Sono visto, dunque sono». Decidendo dunque della sua esistenza, o non esistenza.
 
In conclusione, a partire da queste dinamiche basilari, emerge la necessità di una istanza “etica” intrinseca all’empatia, intesa questa non come semplice rispecchiamento o adeguamento all’altro: ma come quello stato originario del con-esserci, nel quale avviene ogni possibile circolazione e scambio di segni, ogni possibile prendersi cura, in cui può emergere quella dimensione reticolare di significati carichi di un senso comune condivisibile.
A questo proposito vorrei sottolineare un punto a mio avviso piuttosto importante, rispetto alla con-fusione simbolico-relazionale che sembra ormai far parte del nostro tempo in modo pressoché irreversibile.
La fisica quantistica ha dimostrato, mediante l’osservazione e lo studio del fenomeno dell’Entanglement, che la totalità di cui facciamo parte si esprime attraverso dimensioni “differenti”, delle quali la manifestazione visibile rappresenta solo una delle sue possibili forme. Due particelle subatomiche che abbiano inizialmente interagito tra loro mantengono una memoria interna di questa interazione, e, se separate, continuano a influenzarsi reciprocamente – e in modo sincronico – al di là dello spazio e del tempo, secondo un ordine di connessione che è sostanzialmente quello dell’invisibile.
Essendo gli esseri umani stessi dei sistemi quantistici in rapporto tra loro, è plausibile dunque una influenza necessaria, una interconnessione transpersonale di tutti i viventi e tra di essi, a partire da una dimensione inter-umana che, seppur sviluppandosi attraverso la semplice presenza, richiama a un senso etico dell’empatia che travalica i fenomeni “visibili” legati alla presenza stessa.
La pura intenzionalità, il semplice pensiero, le differenti forme del silenzio. È nella stratificazione e contaminazione relazionale di questi stati impalpabili e sfuggenti, che l’essere umano deve rintracciare – a mio avviso –, al di là della confusione dei codici e dello svuotamento di senso contemporanei, i sentieri che lo riannodano a se stesso e all’Altro.
Il silenzio soprattutto, che può aprire un vuoto fertile all’interno di un conosciuto che ha esaurito le sue possibilità; oppure il silenzio inteso come stato originario dell’essere, che interroga e giudica la nostra indifferenza rispetto all’Altro; oppure la nostra stessa impossibilità di aiutarlo, come abbiamo visto nella interazione tra madre e bambino. La madre si sente gratificata come madre dal sorriso della sua creatura; viceversa prova apprensione o inquietudine se il suo bambino piange, o gli oppone la durezza di un silenzio che rifiuta le sue cure, o la benevolenza delle sue regole di vita.
Questo per dire che l’Altro, in quanto Altro, chiede implicitamente una risposta da noi attraverso la sua semplice, nuda presenza. Una presenza avvolta in una dimensione muta, ma ricolma di significati: i quali ci richiamano e ci invitano alla scoperta di un loro possibile “dire” quasi misterico. Ma altresì è il nostro stesso silenzio ontologico ed epistemologico insieme – inteso come scarto tra la consapevolezza di “essere” e il “contenuto” che cerchiamo di dare a questa consapevolezza, come dice Camus – a spingerci ad una auto-responsabilità rispetto al nostro proprio esserci.
L’uomo infatti, come abbiamo detto, è quell’ente che deve sempre realizzare se stesso attraverso le sue stesse possibilità, che si relaziona a sé come a colui per il quale il senso della propria esistenza “deve essere realizzato”. Un centro in-oggettivabile in cui egli stesso è un essere in vista del suo stesso essere.
È quell’ente che mette in questione se medesimo, il senso del suo esistere, attraverso di sé e reciprocamente mediante l’altro da sé.
Forse, allora, è nel circolo virtuoso di un’auto-etero-appercezione responsabile che è possibile riallacciare le fila di una empatia fondata su un a-priori etico originario, a partire dal quale, prendendoci cura di noi stessi, abbiamo l’occasione di prenderci cura efficacemente dell’altro – e viceversa.
 

 
 
 

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