CUORE DI TENEBRA
Viaggio al termine della psichiatria
di Gilberto Di Petta

A FALLEN ANGEL - Un Angelo Caduto

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7 agosto, 2016 - 18:36
di Gilberto Di Petta
Notte di guardia di lunedì, primo agosto.
Sono appena tornato dal Sud Africa. Ho ancora, sotto la pelle, la polvere della savana. Il cicalino del telefono, in medicheria, interrompe la quiete del mio stare insieme con gli infermieri di turno. Lo vivo con fastidio, mi piaceva, in fondo, il mio riassaporare la finta pace di questo stato di allarme continuo. E’ agosto, lo so:  noi di questo SPDC, affacciato su uno dei golfi più belli del mondo, d’estate, siamo come bagnanti in attesa sulla riva del mare: ci prendiamo tutto quello che la marea ci porta; ce lo teniamo, quando la marea ritira, e lascia dietro di sé chilometri di detriti, oggetti, pezzi di legno e pesci spiaggiati. Materiali, che purtroppo nessuno, se non noi, raccoglierà mai.

Stavolta, però, quando io e Anna, la mia infermiera, scostiamo il tendone blu di uno dei box  allineati del Pronto Soccorso, scopriamo qualcosa di diverso: sul lettino c’è un angelo… Un angelo caduto... Perché, se cade un angelo sul Pronto Soccorso,  durante una notte di mezza estate, chiamano noi dell’ SPDC? Si chiama Ilaria, di una bellezza soave, ha ventanni, viene dal nord, pelle diafana e occhi celesti, cresta biondo sole e resto dei capelli maltagliati castani. Tatuaggi e piercing  si lottano lo spazio rimasto. Le sue ali sono andate via, entrambe. E’ vestita di una t-shirt  e di uno striminzito pantaloncino. Ha un profondo e lungo taglio sulla coscia destra, una ferita da punta al palmo della mano sinistra, e una sul deltoide di sinistra. Proprio laddove era l’ala spezzata, l’ultima rimasta. Che però le consentiva di volare, abbracciata ad altri angeli. Ha volato a lungo, in questi anni, sopra decine e decine di rave, aspettando il sole nascere dai tubi e dalle lamiere. Rapita, nel tonneau di centinaia di pasticche di ecstasi, nutrita dell’amore universale, antagonista di tutto, malata d’infinito e d’utopia, odiata, ignorata, non capita.  Come sento forte la tua agonia, Ilaria, angelo di questo Villaggio Globale, che non dipendi dalle leggi dell’uomo, dallo spazio e dal tempo. Angelo dell’unità…angelo, plasmato dal suono, partorito dai ventri di calcestruzzo, di acciaio e fili elettrici, dai sound sparati a palla, dal calore, dall'umidità e dall'oscurità di migliaia di anime sballate, tutte fuori dai corpi, tutte, finalmente, disarticolate ed uguali. Angelo, che portavi la mano di Dio sui capelli di chiunque, di quelle migliaia, rinascesse in quel momento. Angelo, della vita di una notte, di  fabbriche abbandonate senza ragione. Angelo della morte, che hai chiuso le palpebre en coucher de soleil  di tutti  quelli che, come te, volevano una vita forte, deflagrante, che pulsa, nella sua più pura, più intensa, nella più edonistica forma. Angelo degli spazi improvvisati, di chi si libera dall’ incertezza di quel futuro che questo mondo non è stato capace di assicurare.
“Ilaria, che ci fai tu qui, stanotte?”
“Fino a quando il sole sorgerà per bruciare i nostri occhi rivelando la realtà del mondo che avete creato per noi, noi balleremo fieramente con i nostri fratelli e sorelle, celebrando la nostra vita, la nostra cultura, e i valori in cui più crediamo…”.
“Perché volevi morire?”
“Ma ricordate che se potete fermare un qualsiasi party, in una qualsiasi notte, in un qualsiasi città, in una qualsiasi nazione o continente di questo magnifico pianeta, non riuscirete mai spegnere il party intero…”
“Rimani con noi stanotte?”
“Non avete accesso a questo interruttore. La musica non si fermerà mai. Il battito del cuore non si spegnerà mai. Il party non finirà mai”.
Il collega chirurgo si appresta a cucirle i tagli con immensa delicatezza…come se cucisse una dea, per non lasciarle cicatrici..e lei non soffre, ancora inebriata di THC, MDMA, e di alcol. Intorno a lei tre donne, la mia infermiera Anna, la farmacista amica di famiglia, e la zia che l’ha raccolta. Guardo i volti di queste donne, che si illuminano alla fiamma del  suo volto. Che sono commosse e attonite. Due generazioni sideralmente lontane, che hanno perduto il discorso, e in mezzo il mare del silenzio. Mi sovvengono, tra i batuffoli insanguinati, i versi di Gozzano, in quella  struggente poesia “le due strade”, quando il poeta si rende conto, al confronto tra l’alba di Graziella e il tramonto della sua matura amica, che il tempo, con gli dei, sono irrevocabilmente fuggiti. Da una parte, stanotte, ho qui quest’angelo caduto, ferito, straziato, ma sfolgorante di innocente bellezza, “bambina ardita” con “la gonnella corta” e “la gran chioma disfatta”, “aroma…di gioie non mietute”, che è l’unico, “dolce beveraggio alla mia malinconia”. E vorrei veramente dirle, con le parole di Guido : “O bimba, nelle (tue) palme (ferite) tu chiudi la mia sorte; discendere alla morte come per rive calme/discendere al niente pel mio sentiere umano/ma avere te per mano, o dolce sorridente!”. Dall’altro lato, invece, vedo le tre signore tristi, accanto a quell’adolescenza, belle, e non più belle tra poco, “belli i begli occhi strani della bellezza ancora/di fiori che disfiorano”, che non avranno domani, le bocche vermiglie troppo, “le tinte ciglia e l’opera del bistro/intorno all’occhio stanco, la piega di quei labri/l’inganno dei cinabri” sui volti troppo bianchi…ma il tempo è già più forte, di tutto il mio coraggio.
“Perché, Ilaria, hai mutilato la bellezza?”
Ma già ci avviamo verso l’SPDC, con passo triste, ma lieve. Per una volta senza il 118 e la polizia. Stavolta scortiamo solo …un angelo. Nel buio delle luci soffuse, leggeri, sui linoleum, facendo scattare le serrature degli allumini anodizzati, accediamo all’SPDC, il nuovo regno del silenzio. Gli psicofarmaci, come annotava Tobino cinquanta anni fa, hanno trasformato i nostri reparti da bolge infernali a regni del silenzio. Gli infermieri di guardia ci accolgono attoniti. C’è distanza intorno ad Ilaria, quando entra in reparto, le fanno tutti ala, come se Ilaria  avesse ancora le ali. Entra nella sua stanza, Ilaria, e finalmente si lascia andare, lei che non ha mai dormito, al suo lungo e insonne sogno.
Dopo le formalità della cartella clinica, dopo aver annotato che Ilaria con sé non ha nulla, se non la sua utopia, ritorno in camera. Le prime ore di aria condizionata non mi hanno tolto ancora da dosso il respiro del deserto. Sul comodino lo sguardo cade sui i due testi che mi ero preparato per stanotte, uno di Giovanna Del Giudice “…E tu slegalo subito: sulla contenzione in psichiatria”, ed un altro di William White : “Pazzi da slegare”.. Il mito fondante della psichiatria, come scriveva Henri Ey, è ancora quello di Pinel, di quel giorno di oltre duecento anni fa, in cui un medico libera un uomo.
Spengo la lampada. E’ ormai tardi. Non ho più voglia di leggere niente. Mi interrogo, mentre aspetto il tocco leggero del sonno. Ma io, psichiatra di guardia, qui,  stanotte che devo liberare? Chi devo liberare, e da cosa? Ho solo dato accoglienza ad un angelo caduto, ad una scheggia bionda e azzurra, piovuta sul Pronto Soccorso come un meteorite, sfregiata dalla propria inesauribile fame di senso, sfibrata dalla noia, refrattaria a tutte le droghe sintetiche di cui si è nutrita, dissociative, allucinogene, stimolanti, passata come un’ombra per il SerT di San Vito al Tagliamento, fuggita mille volte da casa, ignota ai CSM…che, ricucita dal chirurgo, chiede, come ultimo atto, la sua pace in un SPDC: di dormire un sonno senza sogni.
Chiede, Ilaria che ha giocato la sua vita contro il mondo, di essere solo protetta dalla sua traumatofilia, che la porta a cercare nel trauma ripetuto l’uscita dal trauma originario. Mi basta questa spiegazione? O piuttosto, con Ilaria, sono di fronte all’eterna, irrispondibile, domanda metafisica : perché c’è l’essere, anziché il nulla?
Chi sono io? Chi siamo noi? Dove va la psichiatria? Siamo ancora dei repressori, come scrivono la Del Giudice e Borgna, o piuttosto siamo gli ultimi che H24 raccogliamo homeless, derelitti, sbandati, dementi e …..angeli caduti? Può mai di notte, di domenica, a Pasqua e a Natale essere l’SPDC l’unica risposta di senso che questa società riserva a queste falene impazzite che essa stessa produce? Chi devo scontenere? Come faccio, piuttosto, a convincere Ilaria che ha perduto le ali? Che il mondo l’aspetta a piedi? Che è giunta al termine della sua corsa? Che non è ruscita ad uccidersi in nessun modo? Dietro di sé non ha più nulla, perché il cielo è perduto. Davanti a sé non ha più nulla, perché la terra è inospitale. Dove sono tutti quelli che Ilaria avrebbe potuto incontrare prima di me, stanotte, e che ha evitato come fa una biglia di acciaio lanciata contro le palette di un flipper?
“La contenzione frantuma ogni dimensione relazionale della cura, e fa ulteriormente soffrire esstenze lacerate dal dolore, e dall’isolamento; e la contenzione scende come una ghigliottina sulla loro vita psichica: ricolma di sensibilità e di fragilità, di nostalgia della vita e della morte.” Così scrive Eugenio Borgna nella prefazione al testo della Del Giudice.
Questa notte, come le altre, si avvia al suo termine. L’incontro con Ilaria è stato il benvenuto per il mio ritorno.  Le sue ali spezzate sono ingombranti. Vorrei, però, che anche la psichiatria smettesse la sua retorica. Non meno ingombrante delle ali di Ilaria. Vorrei che capissimo meglio cosa possiamo fare per l’uomo contemporaneo, e dove va la sua follia, che è la nostra.
E che non continuassimo, noi psichiatri, a portare la croce dei matti che abbiamo segregato, in questa eterna Norimberga. Forse c’è ancora qualcosa che possiamo fare, se smettiamo di gemere il nostro rimpianto e cominciamo ad ascoltare, sospendendo il respiro e tacendo, come batte il nuovo ritmo del mondo.

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