CLINICO CONTEMPORANEO
Attualità clinico teoriche, tra psicoanalisi e psichiatria
di Maurizio Montanari

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9 agosto, 2016 - 23:38
di Maurizio Montanari

E’ confuso Giles, capo della polizia di Rome, cittadina della profonda Virginia. Nella sua veste di rappresentante della Legge è diviso a metà tra la sua funzione di tutore dell’ordine e quella di paesano, costretto ad assistere a fatti razionalmente inspiegabili.

Quella città è da tempo interessata da un fenomeno di presunta possessione demoniaca  , che colpisce solo alcuni cittadini, dapprima con una  mutazione violenta del carattere del ‘ prescelto’ il quale, in alcuni casi, ha necessità di essere contenuto. La moglie di un suo caro amico è tra questi.

All’occupazione del malcapitato fa seguito un processo di  normalizzazione , una progressiva convivenza pacifica tra  quel che resta dell’individuo preso di mira e l’entità che ne occupa la mente. Una sorta di osmosi dell’animo, posseduto nel suo intimo, ma ancora dotato della maschera esteriore alla quale tutti  erano abituati. L’io di questi uomini e di queste donne, la facciata,  resta per lo piu’ immutato. Dentro di loro, tuttavia,  qualcosa è cambiato.

La legge dello sceriffo non riesce ad estendere il suo dominio sulla città, cosi’ come la legge della chiesa non ha la capacità di entrare in tutte le anime. Esistono e resistono delle zone grigie, impermeabili  a questi due discorsi complementari, anime obbediscono ad un'altra legge. Chi si accorse   ben presto questa compresenza nei cuori dei paesani, fu il reverendo Anderson, pastore della comunità , uomo segnato dalla vita e con la passione per la lotta al maligno, figura non inquadrabile nei canoni del buon parroco di città, quanto piuttosto un individuo tormentato, preda di passioni carnali e desideri di protagonismo.  Cerca un alleato in Kyle Barnes, figura enigmatica, dotato della capacità   di riconoscere al solo tatto della pelle gli individui posseduti. Kyle dapprima accetta di combattere al fianco del  sacerdote la   battaglia per ‘liberare’ i concittadini partecipando ai rituali dell’esorcismo.  La prevedibile trama di un paese di indemoniati,  dove le forze del bene ingaggiano l’eterna lotta contro il male sotto forma di demoni, che relegherebbe Oucast al rango di una delle tante miniserie splatter di quart’ordine, lascia ben presto spazio ad un imprevedibile quanto reale particolarità dell’essere umano: la scelta deliberata del male, preso in coppia con il piacere ad esso connesso.

 

Già, perché nel mezzo della storia, il protagonista inizia a porsi delle domande. Una su tutte: perché gli esorcismi del reverendo Anderson hanno fallito? Lui lo sa bene che non sono stati efficaci, perché la sua particolare dote di captare il male gli permette di vedere che a fronte di una patina di presentabilità sociale, il maligno alberga ancora in quasi tutte le persone sottoposte al rituale liberatorio.  Lui è il ‘reietto’, una sorta catalizzatore, dotato della capacità  di scoprirli, il che   lo rende temibile da parte loro.   Il tormento di Kyle è il tormento dell’analista, colui il quale  cammina sul limite tra la la legge del codice penale e la legge del godimento umano, cintura sotto sotto la quale i due universi sconfinano l’uno nell’altro.   Lui lo sa, e proprio per questo si scoraggia sempre piu’, chiamandosi fuori dalla battaglia che il reverendo sta ingaggiando per il trionfo del ‘bene’. Kyle capisce che, grattando sotto la crosta immaginaria, ha a che fare con scelte individuali precise più che con le scelte del maligno.  Essi, da qualche parte insondabile, anelano  alla convivenza col demonio. Vogliono campare, da quel momento in poi,  col sale della trasgressione, accettando di  stare alle regole della città, ma non senza quel ‘male’ celato in corpo fonte di godimento illimitato. Kyle si arrende al fatto che la gente scelga il male, un male  che appare assoluto solo agli occhi del reverendo, ma che nelle parole dei protagonisti assume sfumature dolci  e colme di passione.

Un parrocchiano, segregato in chiesa ed esorcizzato con fatica da Kyle, dice al reverendo che non metterà mai piu’ piede in chiesa. Racconta pacatamente che non vuole tornare indietro,  che le sensazioni vive e calde provate in quello stato di transe, sono state una delle piu’ belle esperienze che abbia mai vissuto.

 

 

 

 

Tanti  vogliono convivere col demone, lo desiderano. Perché li ha resi vivi, diversi, eccitati. Ha fatto riscoprire loro un gusto della vita che nella monotonia di paese si stava perdendo. E’ quello che sostiene Ogden, vecchio amico dello Sceriffo, il quale grazie alla possessione riscopre una moglie voluttuosa e desiderante ,  regalando al marito al sensazione di  gustare i piaceri della vita prima che la nausea di paese  azzerasse le papille gustative del loro essere.
Tutto è come ‘ la prima volta’ sottolinea Ogden, mentre mette in guardia il polizotto dai suoi tentativi di fermare Sydney, ritenuto il demonio in persona.
Tante storie parallele, tanti anfratti nei quali ciascuno persegue ciò che gli da piacere, e lo fa all’ombra delle legge, laddove questo diventa illecito.

Ma non solo solo i posseduti ad agire in maniera perversa camuffando un proprio piacere personale come strumento al servizio di un ordine superiore.
Anche il reverendo, a fronte della constatazione dei fallimenti dei suoi esorcismi,  confessa di  non aver agito perché obbediente alla fede nel suo Dio, ma dalla ricerca di fama e riconoscimento.   

Davanti al crocefisso, egli confessa :

‘So di aver detto che faccio la tua volontà, Signore. E’ quello che ho detto alla mia congregazione. E’ quello che ho provato a dire a mè stesso.
E’ una bugia Signore, l’ho fatto perché mi piaceva.
L’attenzione, le lodi, la sensazione di potere. Il tuo potere.

Lacan, parlando del rapporto del perverso con Dio, lo descrive come un esecutore: ‘ il carattere strumentale al quale si riduce la funzione dell’agente (..)  (è) un lavoro che è in rapporto a Dio. Dio è colui che si diffonde   nel testo di  Sade’. Testimoniando quello che scrissi in un post precedente, vale a dire che ‘ il perverso è in sé un uomo di fede, un essere che cerca, edifica, installa e venera un Dio al quale votarsi, immedesimarsi. L’Altro è il detentore della massima da agire, il depositario delle regole, un entità nella quale allinearsi completamente e da li, prendendo la sua volontà supposta come Legge, dare la stura alle peggiori nefandezze delle quali è capace , finalmente libero di appaltare ad un volere assoluto i suoi servigi’.  

 

 

Tante volte ho avuto  a che fare con la supposta presenza del demonio in casi di condotte cosiddette ‘devianti’,  ovviamente ritenute tali da amici e parenti del soggetto analizzato. La loro    insistenza nel combattere le scelte di vita  del paziente, in alcuni casi generava  una pressione tale da indurlo  a dubitare delle sue azioni, costretto in molti casi a fronteggiare l’ostilità della famiglia, e del   paese intero.

Ricordo una ragazza proveniente da una zona rurale della parte centrale dell’Italia, a me molto cara e familiare.

Una realtà nella quale rituali cristiani e pagani si sono fusi nel tempo, dando vita a un particolare modo di veicolare e trattare il disagio psichico. Zone nelle quali il ‘Malleus Maleficarum’ a suo tempo veniva applicato con zelo e sadica dedizione.

La sua banale ma pervicace rivendicazione di non voler accettare un matrimonio combinato, veniva imputata  al ‘malocchio’  che qualche individuo malvagio le avrebbe praticato, distogliendola da quella che era la normale e retta condotta di una ragazza di paese che prevedeva di sposare il prescelto in Chiesa secondo la formula del matrimonio  concordatario,  assolvendo dunque al volere di Dio  e alle leggi del Sindaco.  Lei rifiutò, ovviamente, fuggendo con un ragazzo del quale era innamorata e che frequentava da anni.

Mi bastò ascoltare la consistenza delle sue parole ‘ Non mi frega nulla delle accuse di avare il malocchio. Io amavo quell’uomo, mi hanno dato della pazza e  della  puttana quando hanno dovuto ammettere quello che tutto il paese sapeva, cioè che eravamo amanti da tempo’ per capire con cosa avevo a che fare.  Né la nomea di squilibrata, né quella di donna di malaffare riuscirono a fermare il suo desiderio di rifiutare la combine. Entrarono allora in gioco gli anziani di paese, e si passò allora a termini di valore simbolico ben piu’ pregnante per quelle terre:   ‘posseduta’, ‘striata’ , ‘ colpita da malocchio’: formule che pacificarono il paese senza scomodare troppo Dio, e senza irritare il primo cittadino che veniva in tal modo dispensato dall’insistere nel tentativo di maritare la reproba. Avere il malocchio: un po’ meno che puttana, un poco sopra l’essere pazza. Comunque, a quel punto, libera ed intoccabile.

E’ dentro agli anfratti ritagliati da questa parola ‘ striato’, che la città riusciva a scaraventare   ogni possibile desiderio illecito, ogni forma di trasgressione, ogni violazione di un qualsivoglia tabu’ sessuale, bandendolo formalmente, ma  di fatto accettandolo e reintegrandolo in società. Non fu una classificazione fatta a caso. Il demone scelse lei, e lei si lasciò scegliere dal demone, cosi’ dissero le donne che sentenziarono il sortilegio.  Sta tutta qua la chiave con la quale alcuni gruppi sociali fanno spazio alla scelta personale , facendo rientrare dalla finestra ciò che in maniera ufficiale non può varcare la soglia di casa.  Lei accettò la parte che la protesse da ingerenze , e le permise di rifiutare quell’altare al quale altri  l’avevano predestinata.

Come gli abitanti di Rome, ella accettò quell’abito, perché  solo dicendo si  avrebbe potuto riscattare  una quotidianità banale e predeterminata.

E quelle notti di passione consumate ai margini della città con il suo vero amore, erano quel gioiello al quale lei non avrebbe mai voluto rinunciare.  Si uniformò, obtorto collo, al codice che piu’ le permetteva di vivere la propria vita, fingendo un omaggio insincero a riti e tradizioni alle quali non ha mai creduto minimamente, ma che le permisero di sentirsi viva e desiderante.

 

Concludo, pensando ai giorni nostri, e alla quotidinaità della clinica.

Quando una persona sceglie una forma estrema di devianza o soddisfacimento radicale, provenendo da ambienti castranti,  conservatori, o miserrimi, qualsiasi intervento  esterno, anche quello di un clinico, finisce per tramutarsi in un azione pseduo confessionale, proprio come quella del reverendo Andesron il quale, nella piazza del paese, si scaglia contro Sydney ( il demonio)  additandolo come l’inoculatore del  veleno del piacere.  Reverendo che finisce zittito dalle argomentazioni dei singoli posseduti, uno per uno, i quali gli impongono di andarsene, e lasciarli liberi col loro piacere rinnovato.

Per questo, specie oggi,  finiscono miseramente le mie indicazioni, o quelle di colleghi medici e psichiatri, quando si ha a che fare con cassintegrati o persone espulse brutalmente dal mondo del lavoro  che incontrano la cocaina, l’alcool, le macchinette magia soldi alla stazione, o altre forme di dipendenza stordente. Qualsiasi indicazione clinica relativa allo stare in guardia dagli effetti collaterali della coca, o che informi sulle conseguenze dell’abuso di psicofarmaci o  superalcolici,  che  dobbiamo eticamente dare, si trasforma in una trita paternale agli occhi di chi  si era barricato in casa da mesi dopo  un licenziamento conficcato nel mezzo di una vita, con conseguente perdita di identità sociale e depauperamento rapido delle   possibilità di sopravvivenza.  Ricordo lo stupore di due colleghi che lavorano nel servizio pubblico, ai quali si sono rivolti i familiari di un attempato signore colpevole di aver perso la testa per la venticinquenne d’oltrecortina, con lo scopo di  farlo interdire. ‘Se mi restano anche solo dieci giorni, io li voglio consumare con quella donna’ sono le frasi che l’amico ha pietosamente omesso di scrivere sulla cartella clinica di questo nonno, del   quale stava cercando di acclarare la salute mentale, validando se fosse o meno a prova di raggiro.

Si accomodi, è la nostra ultima cena.

Abbiamo tutti la peste.

E ogni giorno che ci rimane, deve essere una festa’, sono le frasi dell’ultima cena del film di Herzog.

  Il culto Zar, attualmente diffuso lungo tutto il corso del Nilo, da Alessandria d'Egitto fino Khartoum, nel Sudan, costituisce un classico esempio di culto di possessione usato da alcuni componenti della società per fini esclusivamente personali. In questi luoghi la donna riveste un ruolo meno che marginale, viene relegata agli ultimi posti della scala gerarchica e gode di pochissima considerazione e di quasi nessuna prerogativa. I riti zar hanno lo scopo di placare l'ira degli spiriti maligni che si sono impossessati di una persona causandole la malattia. Sono di norma riservati alle donne e interdetti agli uomini, i quali possono però parteciparvi come musicisti. Il ruolo principale è esercitato dalla sheikha, sacerdotessa zar, la quale dispone di un vario numero di costumi da usare nella rappresentazione, ciascuno in relazione al particolare tipo di spirito. Quando viene invocato il nome dell'entità che si è impossessata di una delle donne presenti, questa si reca al centro dell'area ove ha luogo la cerimonia, esibendosi in una serie di danze che la portano, progressivamente, a cadere stremata al suolo. Lo spirito, prima di acconsentire ad abbandonare il suo corpo, avanza una serie di richieste, riguardanti gioielli, abiti costosi
e cibi particolarmente raffinati. La richiesta di questi beni viene immediatamente soddisfatta, il pubblico presente fornisce il proprio sostegno sociale, e rende possibile la soddisfazione di questi desideri altrimenti inesaudibili. Successivamente la donna può entrare a pieno titolo nel gruppo di culto Zar, divenendo essa stessa sacerdotessa. Quello che emerge da questa descrizione è un perfetto meccanismo sociale adoperato dalle donne allo scopo di sottrarsi, per un
breve periodo, alla misera condizione alla quale sono abituate, e poter essere finalmente gratificate in quelle piccole cose che vengono loro normalmente negate, aumentando, per questo arco di tempo, la loro considerazione sociale.

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