CLINICO CONTEMPORANEO
Attualità clinico teoriche, tra psicoanalisi e psichiatria
di Maurizio Montanari

LA VOCE DAL PADRONE. La psicoanalisi ai tempi della Leopolda

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13 novembre, 2016 - 02:01
di Maurizio Montanari
Non so se, quando lo psicoanalista J.A. Miller sosteneva la necessità di ‘parlare la lingua dell’altro’, cercando di rendere l’analista una figura attuale, elastica, capace di lasciare sempre più le mura dello studio, si riferisse anche alle kermesse di corrente di partito, come quella tenutasi alla Leopolda. La passerella fiorentina rappresentava invero più un salotto esclusivo, il défilé di una piccola élite, che non le voci della città.
La psicoanalisi, piuttosto che accasarsi presso un’avanguardia benpensante e piena, satolla di mezzi e verità, dovrebbe andare laddove la carne della città è viva, in bilico, precaria, disoccupata. Dove c’è il vuoto, dove qualcosa manca, cercando di dare voce a tutti coloro i quali la voce l’hanno persa, al prezzo di volgarizzarsi. Non è populismo dire che là dentro non erano rappresentate che alcune delle voci della società. Non certo quelle dei docenti toccati dalle recenti riforme, nè quelle dei giovani vittime del jobs act, manco quelle degli operai della Fiat colpiti dal ‘modello Marchionne’, uomo col quale il leader della Leopolda si dice in piena sintonia. Se la psicoanalisi la si vuole usare in città, dans la rue, si deve cercare di arrivare anche nelle periferie. Pena, il cadere in un gioco di specchi dove il padrone si bea delle sue parole e dei suoi tecnicismi, che si stagliano, ma sfumano in mezzo alla pletora di applausi e voci univoche del coro.

Come uomini possiamo andare ovunque. Entrare in qualsiasi consesso liberamente. Come analisti sappiamo che esistono stanze che ci impongo di lasciare il soprabito fuori dalla porta. La questione dell’‘opacità’ dell’analista, vale a dire la capacità tenace di non lasciare trasparire che poco o nulla dei propri vissuti interiori, è un articolo cardine della costituzione analitica, che permette all’analista di restare tale, occupando quella posizione, indipendentemente dal mutare dei tempi e dei costumi. L’analista, e questo lo sanno davvero tutti coloro che sono addetti ai lavori, affinché il dispositivo funzioni e non si tramuti in qualcosa d’altro, deve saper mantenere questa posizione il più possibile decolorata, quel posto che Lacan definisce dello ‘scarto’. In seduta, certo. Ma non solo. Viceversa, il mostrare pubblicamente le proprie pulsioni, idee, vestendole del lessico clinico, può sfociare in qualcosa che assomiglia ad un ‘giudizio diagnostico’ extra moenia. E in un mondo mediatico dove se ti metti in posa sai che il tuo messaggio verrà replicato all’infinito, è qualcosa che può turbare, scuotere, colpire, pasticciare il lavoro in corso di tanti che si sono sentiti chiamati in causa. Penso al lavoro analitico delle mummie masochiste che voteranno no. Mi chiedo quale sarebbe la reazione dei miei analizzanti, del pd, o quelli di sinistra, o di destra, se mi vedessero non già schierato, quanto ‘arruolato’ imbracciando la doppietta del dsm in uno dei palchi politici ai quali ho partecipato. Apostrofando parte di essi come un ‘corpo unico’, definendoli in base a questa o quella affezione dalla quale sarebbero interessati. Quanto poco ci vorrebbe a pisciare su anni ed anni di faticosa costruzione di rapporti a volte difficili, densi di elementi transferali da tenere sotto controllo. Quanta fatica per raggiungere, con i limiti della mia imperfezione, la meta dell’uno per uno. Come entreranno in seduta tutti questi analizzanti che votano no? Anni ed anni di rettifica personale, con lavori minuziosi e faticosi sulla pelle del proprio inconscio, resisteranno alla diagnosi di massa effettuata dal video? E quelli che son padri e votano no, o che hanno padri che votano no, sono pronti a vivere da mummie, affette dalla patologia del masochismo? Si tramuterà in un allungamento delle sedute per elaborare la diagnosi inaspettata, o basterà non parlarne?

L’uso del linguaggio analitico per definire, e mal apostrofare, non un singolo, ma un’intera categoria di persone unite esclusivamente dal loro orientamento referendario, è una brutta deriva. Usare la diagnosi per stigmatizzare, categorizzare, delocalizzare tutto quello che sfugge alla propria capacità di ordinare simbolicamente, risponde alla necessità arcaica del dipingere il dissenziente come barbaro, malato, una sorta di golem mummificato ed angosciante che cammina per strada terrorizzando la tranquilla popolazione e premendo alle porte, come nella serie Wayward Pines. Taglio di bistecca con  mannaia; tre pezzi di carne: i vecchi mummificati, gli adolescenti perenni abbagliati da grillo, e, finalmente, gli ‘eletti’ dotati di verbo, idee e sognatori. E pazienza se sul sito dell’ordine degli psicologi trovo scritto che: lo psicologo è consapevole della responsabilità sociale derivante dal fatto che, nell’esercizio professionale, può intervenire significativamente nella vita degli altri; pertanto deve prestare particolare attenzione ai fattori personali, sociali, organizzativi, finanziari e politici, al fine di evitare l’uso non appropriato della sua influenza.
Diceva quel tale ‘Le eresie devono pur esistere’, ed è proprio questo il vero spirito laico dello psicoanalista. Aprire la porta ed accogliere tutto ciò che è dissonante, incomprensibile. Quell’elemento di sorpresa che distingue la clinica analitica da un processo di normalizzazione. All’analista non frega nulla dell’ordine pubblico.

Ridiamo pure delle mummie ma, dietro al grottesco, si nasconde il giudizio. Chi fa lo psicoanalista, lo sa. Essere masochista, paranoico, fobico, schizofrenico, dissociato, non è una colpa. Sono strutture che il soggetto si trova ad abitare, lui nonostante. La psicoanalisi non giudica, accoglie. Ho ricevuto un insegnamento in questo campo, giacché tra tanti maestri fallaci, qualche clinico rigoroso l’ho incontrato, seppur tardi. L’insegnamento consiste in questo: quando parli di clinica, e fai il mestiere dell’analista, usi il linguaggio al pieno delle sue potenzialità, gravido delle sue implicazioni e devi essere pronto a sopportare le conseguenze di ciò che dici. Il masochista non è secondo Lacan semplicemente colui il quale gode soffrendo, bensì un deietto(1). Dunque un soggetto deresponsabilizzato. L’accozzaglia del no sapeva di essere gruppo di burattini in cerca di padrone, come Peter Sellers di ‘Oltre il giardino’? In realtà i mille no che io conosco, il mio compreso, affondano radici in motivazioni ben coscienti e consapevoli. Molti di loro semplicemente hanno pensato di dire no perché questa riforma è fatta male. O perché non amano Renzi e la sua compagine. O perché hanno i loro motivi.

Se usassimo il giudizio clinico fuori dallo studio, stravolgendo come detto l’essenza stessa della psicoanalisi, la Leopolda potrebbe apparire un luogo di obbedienza, dove si vota sì perché è ciò che ha detto il capo. Potrei abusare delle nozioni diagnostiche riempiendomi la bocca di parole come “forza della legge perversa”, alienazione e fedeltà. Potrei addirittura scomodare la perversione. Il perverso in fondo non è che un uomo di fede, un essere che cerca, edifica e venera un Dio al quale votarsi. Ma non farei lo psicanalista. Ciò nonostante nessuno riuscirà mai a togliermi dalla testa la convinzione che nel caso della nomina di Telemaco abbia agito una vera lex perversa. Tramutato in Caino, fa fuori il fratello di partito e ne prende il posto. Senza passare dalle urne, senza mai quell’incontro con il principio di realtà chiamato voto. Come mummia continuo a sedermi su vecchie e solide certezze: per cambiare la Carta Costituzionale, devi sapere cosa fai. Ma, soprattutto, devi esser certo di rappresentare davvero l’intenzione popolare, la maggioranza del paese, e questo, lo si voglia o meno, lo si ottiene attraverso il voto. Diversamente ti atteggi a minoranza autoeletta ed illuminata, che ti porta a redigere un quesito referendario nel quale mostri i pregi di questa tua modifica, ma tieni i difetti nella stilografica.

Liquidare l’avversario perché indossa indumenti diagnostici, significa adottare una micidiale prospettiva secondo la quale la protesta, il dissenso, diventano ipso facto paranoiche, perché attentano alla verità del capo. Ecco allora il vecchio, democristiano, ritorno di noi vs loro. Con Berlusconi gli altri erano ‘invidiosi’, oggi invece accomunati da una unica trinariciuta ‘passione masochista’. La “Guerra all’Eurasia” è stata dichiarata e la costruzione del nemico, che ora è anche malato, prende forma nel coro dei plaudenti, concretizzandosi in un ‘fuori fuori’, rivolto agli ex amici di partito, vissuti come un’orda compatta di Uruk-Ai che cinge d’assedio le insonorizzate mura della Leopolda. Un’orda non pensante, che sta per entrare nella stanza dove alcuni eletti stanno riscrivendo la carta, anche per il loro bene, e questi nemmeno lo sanno. Come nel film ‘Gattaca’, come nelle parole di Philp Dick ‘Coloro che ti sono avversi, sono pazzi’.
Questo perché il potere, alla fine, è sempre uguale a sé stesso, per sua stessa natura, è paranoico, e non tollera le voci dissenzienti perché è forcluso. E la sua forclusione è direttamente proporzionale alla forza muscolare che mette in campo per zittire le voci dissonanti. Libero di fare quel che vuole dentro a regole rigide impartite agli altri, costituisce quel discorso che la psicoanalisi deve avversare, non lisciare. Può essa essere messa al servizio di un potere che si blinda, che cambia i direttori dei telegiornali in corso d’opera per garantirsi una miglior audience? Che manganella i dissenzienti fuori le mura? Non mi si dica, per l’amor di Dio, che i manifestanti fermati alle porte della Leopolda dalle forze dell’ordine e dal servizio di sicurezza del Pd erano tutti facinorosi black block. Non mi si cerchi di avvalorare la tesi fatta passare dal palco: ‘là fuori loro ci odiano!’ Era Berlusconi ad usare la logica dell’amore vs odio, che tanto gli ha fruttato. Al netto delle condotte violente, era la voce contrastante. Erano quel reale inassimilato che, se forcluso a manganellate, torna, e sempre tornerà, come insegna Lacan, dalla finestra, che dovrà essere sempre più spessa, più barricata. Per proteggere gli eletti dall’avanzare scomposto del nemico, che avrà le sembianze vieppiù del persecutore, del perturbante, del kakon. ‘La mummia’, ‘il vecchio’, ‘il conservatore’, ‘ il cattivo partigiano’, passerella linguista degli orrori a significare che nell’altro qualcosa non funziona, e dentro alla piramide c’è la salute e la tranquillità.
Nessuno in realtà li odia. Né tantomeno truppe cammellate vogliono rubare loro i sogni. Sono loro ad avere un sogno che cercano di imporre come buona pratica di vita urbi et orbi. Hanno un sogno, ma non rappresentano null’altro che sé stessi. Staccati dall’elettorato, incuranti della loro effettiva rappresentatività, paventano predoni onirici, quando non si tratta che della gente, degli uomini del quotidiano. Quella stessa gente che del referendum sa poco o nulla, malamente informata, e per nulla istruita. Il 33% degli Italiani ha appena sentito parlare delle questioni referendarie. Il 14% dichiara di non saperne nulla. E qua, la nuova compagine telemacoide dimostra di aver del tutto abdicato all’erotica dell’insegnamento, quella cioè di informare le masse, dando la giusta dose di conoscenza. Per dirla alla Orwell “l’ignoranza è forza”.

Io sono un uomo di sinistra dunque abissalmente lontano da Renzi, dal renzismo e dalla claque della Leopolda. E poco mi interessano. Dunque queste righe non sono da intendersi come una sorta di dichiarazione politica, non sarebbe questa la sede. Ma poiché il mestiere dell’analista tento di praticarlo, mi è parso doveroso ricordare che l’analisi è sfida, è verità minoritaria. E’ incontro con l’alterità, messa in discussione di un sapere, qualunque esso sia. L’analisi, in quanto tale, è una resistenza all’omologazione, al dire comune. Il dire analitico rompe le palle al padrone, non lo blandisce. E’ la sfida di ogni giorno nell’aprire la porta a uomini e donne che non hanno denaro, e hanno sempre meno parole. La vera sfida sta nel parlare con la medicina, con la psichiatria. Anche con la politica, ma non accovacciati al camino mentre il padrone sorseggia il tè.
La sfida della psicoanalisi sta nell’essere laddove viene vista con sospetto, con timore. Anni passati a discutere con il Pd di Modena (che un tempo non lontano ospitava la federazione del partito comunista più grande d’Europa) di eutanasia, vittime del fine lavoro, della non legge sulla tortura, di perversione e di terrorismo, delle violenze perpetrate da parti delle forze di polizia. Ospite, relatore ed organizzatore in dibattiti dove alla fine del confronto ci sono state strette di mano cordiali, sorrisi. E niente più . Niente selfie, niente cene o foto di gruppo. Cortesia fredda ma gentile. L’utilizzo che ho fatto della psicoanalisi a quei tavoli, è il solo che conosco. Portare domande, interrogativi, questioni che possano puntare il dito sulla mancanza del maitre, sul suo sentirsi pieno nel dare risposte. La psicoanalisi non può dunque essere di casa dal padrone. Possono invece esserlo gli uomini, questo si, con le loro idee e le loro aspirazioni. Ma l’uso dell’analisi si fonda sul suo essere quotidianamente impegnata in un processo di ri-territorializzazzione. Credo che il suo vero valore stia in quell’essere territoriale e non padronale, come Deleuze e Guattari sostenevano a proposito della letteratura. “Odiate ogni letteratura da padroni”,Quanti stili, o generi, o movimenti letterari, sognano una cosa sola: assumere una funzione maggiore del linguaggio, offrire i propri servizi come lingua di stato”.

Telemaco, dal suo palco autoreferenziale, non poteva dire ‘lo faccio perché io lo dico’, sarebbe stata una tautologia psicotica, un ‘farsi un nome’. La legittimità ad incarnare il posto di Telemaco, presuppone un Ulisse. Un padre, poi superato, nel solco del quale ci si muove. Già ma dove trovarli, ora che ci sono solo mummie in giro? Uno a dire la verità c’è stato. Col patto del Nazareno, che fece storcere più di un naso, stabilì un rapporto di non belligeranza, e di quasi filiazione nei programmi con Berlusconi, più di una volta sorpreso a rispecchiarsi nelle gesta del toscano. Poi le strade si sono divise. Dove trovare dei padri, dunque? Se i padri nobili mancano, si arruolano i padri morti. Quello che il gruppo leopoldino ha messo in atto è una vera e propria riesumazione del padre defunto, artatamente ricolorato al quale, come nella macabra scena de ‘La casa delle finestre che ridono’, si fanno pronunciare quelle parole mai dette che permettono di agire in nome e per conto di, guadagnando così la linea conservativa patrilineare. Berlinguer, Nilde Iotti, Indro Montanelli, Giovanni Falcone. Tutti morti, tutti per il si.

'(…e vivremo nel terrore che ci rubino l'argenteria è più prosa che poesia..'. )

Come Rino Gaetano, fatico a vedere il volto poetico di Telemaco, che non è poi così nuovo. Scuola democristiana, Sindaco, presidente di Provincia. Se lui è poeta, ai miei occhi prosaici ci sono i frutti del suo lavoro. Mettere i propri uomini ai posti chiave dei media, è roba vecchia. L’appoggio da parte di parlamentari di destra, alcuni dei quali plurinquisiti, è un residuo del vecchio trasformismo. Ho visto troppi insegnanti scaraventati in giro per lo stivale, ridotti a merce viaggiante in omaggio al progetto della ‘buona scuola’. Altrettanti giovani annichiliti e depressi da un mercato del lavoro che gli sbarra la strada, facilitato in questo dal mirabile progetto delle ‘tutele crescenti’, per vedere il premier nella sua versione dantesca. Più prosaicamente ho visto metodiche da vecchia Repubblica, compresa la mancia da 80 euro. Non vedo poesia, dicevo. E mentre ascolto Giorgio Gori, partecipante della prima Leopolda divenuto poi sindaco affermare che ‘Elettori disinformati producono disastri epocali. Per votare servirebbe l'esame di cittadinanza’, trovo in giro una vecchia dichiarazione del Pd, prima che la rottamazione avesse inizio: “La sicurezza dei diritti e delle libertà di ognuno risiede nella stabilità della Costituzione, nella certezza che essa non è alla mercé della maggioranza del momento, e resta la fonte di legittimazione e di limitazione di tutti i poteri. Il Partito democratico si impegna perciò a ristabilire la supremazia della Costituzione e a difenderne la stabilità, a mettere fine alla stagione delle riforme costituzionali imposte a colpi di maggioranza”. Partito Democratico, 2008…

1)[1] ’Il volere invece del masochista è quello di occupare rispetto all’altro la posizione di oggetto, di cosa , di elemento disponibile, sacrificabile’. Ancora, ‘Ciò che il masochista intende far apparire (...) è che il desiderio dell’Altro fa la legge (…) ‘Il masochista appare in questa funzione che chiamerei quella del deietto’.

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Così come già espresso nella connessa discussione in corso sulle pagine di Facebook, credo che uno dei punti nodali di questo articolo sia ben sintetizzato dal passo: "Come uomini possiamo andare ovunque. Entrare in qualsiasi consesso liberamente. Come analisti sappiamo che esistono stanze che ci impongo di lasciare il soprabito fuori dalla porta"...."
Punto che sottoscrivo e che mi riporta al tema caro del Limite, e dei limiti dell'intervento pubblico.
Discussione sinora non affrontata che frammentariamente e prevalentemente sulla scorta emotiva di taluni fatti e / o incidenti, ma che richiede e presuppone una visione adeguatamente chiara delle aree di intervento, dei confini, senso della responsabilità e rinuncia all'onnipotenza.....

Questo punto è stato ben colto da chi pratica la psicoanalisi.
Rifuggito o scotomizzato da chi ne fa un discorso di tifoseria.
Eppure, sono minime e basilari regole di paratica ed etica analitica.

Restando in argomento, si è espresso in maniera autorevole J. A . Miller, erede e curatore dei testi di Lacan.
Con un intervista , a seguito della quale è partita una petizione assai importante , che si espirme sulla inopportuità di titolare una scuola di partito a ppp.

La metto qua, perchè J. A Miller è un analista di riferimento a livello mondiale, e perchè il suo commento è assolutamente in linea con il tema discusso in questo post.

In un forum libero, come è per natura quello di pol.it.

L’INTERVISTA - JACQUES-ALAIN MILLER
“Recalcati? La psicanalisi al servizio di Renzi”
L’ALLIEVO DI LACAN CONTRO IL COLLEGA: “NON POSSIAMO AVERE ETICHETTE POLITICHE”
di Ferruccio Sansa

“No, uno psicoanalista come Massimo Recalcati non può mettere il suo sapere al servizio di un partito politico. Non può utilizzare le tecniche della sua scienza per attrarre i giovani. E poi in una scuola intitolata a Pier Paolo Pasolini… è troppo!”. Parla Jacques-Alain Miller, uno dei più noti psicoanalisti viventi. Alunno e curatore testamentario del maestro Jacques Lacan. Miller è arrivato a Torino per partecipare al convegno nazionale della scuola lacaniana. Ma nei corridoi dell’università oltre che di psicoanalisi si parla di politica nostrana. È scoppiato il caso Recalcati: studioso italiano di Lacan chiamato da Matteo Renzi a lanciare la scuola di partito del Pd. La polemica apparentemente tutta italiana è approdata all’estero, a cominciare da Parigi. I giornali e i siti degli studiosi di Lacan ospitano articoli e dibattiti.

-Professor Miller, lei non è stato molto tenero con il suo collega…

-C’è qualcosa di Renzi che mi ricorda Alessandra, la zarina di Russia sposa di Nicola II, che per far guarire suo figlio malato di emofilia si affidò a Rasputin. Ma il segretario Pd ha migliori possibilità di successo: Rasputin era un grande seduttore oltre che un ladro. Mentre Recalcati non ruba.

-Lei ha scritto anche di peggio sul giornale “Lacan Quotidien” diffuso tra gli psicoanalisti di mezzo mondo…

-Mi sono chiesto se Recalcati è Faust e Renzi il diavolo. No, Renzi è un uomo politico di talento che prende il nuovo dal lato della psicoanalisi. La “canaglia”, detto con ironia, è Recalcati.

-Parliamo di uno degli psicoanalisti più noti d’Italia…

-Chi fa il nostro lavoro non deve avere etichette politiche addosso.

-Chi difende Recalcati ricorda che anche voi siete scesi in campo alle ultime presidenziali francesi. È vero?

-Certo. Abbiamo ritenuto che fosse un dovere schierarsi contro la proposta del Front National in un momento in cui in Francia nessuno sollevava la questione dell’identità e del passato di questa forza politica. Ma se avesse vinto Marine Le Pen avrebbe significato l’isolamento della Francia in Europa, un disastro per l’economia. Il rischio di una dittatura. Noi abbiamo deciso di parlare per raccogliere un fronte repubblicano. Senza un partito, senza un’etichetta.

-Qual è invece la colpa di Recalcati?

-Mettersi al servizio di un partito. Noi non abbiamo bisogno di politici, dobbiamo dare una vita nuova agli ideali democratici. E anche all’insegnamento di Lacan. Schierarsi in politica può creare invece un danno.

-Lei ha usato la parola scandalo…

-Sì, per noi è uno scandalo. Non possiamo accettarlo. Non possumus.

La domanda che sorge spontanea è: ma ad uno psicoanalista è precluso il diritto ad avere praticare e manifestare le sue idee politiche?
Deve dimenticare di essere psicoanalista? Non può usare le sue competenze?
Rammento a chi non lo conoscesse che Mauro Morra psicoanalista con funzioni didattiche della SPI fu per diversi anni con grande orgoglio da parte sua Segretario Cittadino a Genova di Rifondazione Comunista.
sarebbe per altro intrigante capire le ragioni che hanno spinto Miller a dire queste cose nei confronti per altro di un suo ex allievo analizzante.
Psychiatry on line Italia è un forum libero possibilmente preferisce stare al di fuori di diatribe da cortile seppure lacaniano ma sempre cortile

Anche mia figlia ha capito che la questione non è che un analista possa o meno schierarsi in politica.
Lo hanno compreso davvero tutti che l'elemento centrale non è schierarsi, ma con quali mezzi lo si fa.

Anche io lo sono, schierato, da anni.
Mi sono ben guardato dall'usare gli strumenti della diagnosi per apostrofare i miei avversari.
Non mi sono dimenticato il mestiere che faccio.
Proprio tenendolo a mente, ho sempre lasciato a casa il lessico diagnostico.
E' molto chiaro. Lo era già dai primi commenti al pluriletto post.

Ho frequentato per molto tempo Rifondazione, da dentro.
Conosco bene Morra. Mai una sola vota apostrofò gli avversari come 'affetti da masochismo', cadendo in mega categorie onnicomprensive dentro le quali ficcare quelli avvinghati nel 'godimento della distruzione'. Mai l'ho sentito dire degli avversari che erano ' retti da un mito di natura incestuosa'.
Mai.

Per questo non mi colpiscono le accuse di 'diatribe da cortile'. Non stiamo parlando di me, analista di periferia, ma dell'uso tecnico che si fa del linguaggio analitico lacaniano.
In questo sito discusso, approfoindito, e assai dibattuto.

Non ho idea del perchè Miller abbia detto quelle cose. Solo so che l'uso di Pasolini asservito lui nonostante al Renzismo, ha mosso le coscienze di tanta gente libera.
Che ha cercato di mostrare il suo dissenso, motivandolo.
Pol it è anche questo.

L’esito del voto referendario, come qualsiasi punto di prova che preveda una validazione esterna, fornisce sempre degli spunti di rettifica. Quand’anche duri e sgretolanti.
Sono proprio le certezze granitiche che, in corso di analisi, le prime a scheggiarsi.
Nessuno si aspettava una mobilitazione e uno stop così violento da parte del paese.
Un incontro col reale che ha sortito sorprendenti effetti di rettifica.
Da parte del premier, passato da ‘ La mia scorta è la gente’, al piu’ prosaico ‘ Perché mi odiano tanto?’.
Un buon inzio di revisione.

Il dato conferma anche quello che ho sostenuto. La psicoanalisi ed il suo frasario ( non le persone, che vanno dove loro aggrada), non stanno bene nei consessi chiusi e staccati dal quotidiano, come il rovinoso epilogo della Leopolda insegna. Se proprio vogliamo, oggi, pacatamente, e da fuori, utilizzare il frasario epico-clinico, è la definizione stessa di Telemaco ad essere sbagliata, laddove intesa come l’incarnazione di quel cambiamento dei giovani vs la mummificazione dei padri. Come altri colleghi hanno piu volte sostenuto.
Perché Telemaco non è stato solo bocciato ( sonoramante) dai padri, ma anche dai figli( ancor piu sonoramante)
Il violento no ( a lui ) ha visto la novità della mobilitazione massiccia dei giovani.
Che hanno fatto la fila per scrivere un no.
E non gli hanno concesso il posto del fratello liberatore.
Hanno fatto la fila, alla sera, per scrivere si in maniera diversa, ma da quello stesso Telemaco, frettolosamente autonominatosi avanguardia del rinnovamento , percepito come vecchissimo pezzo di establishment da quel mondo la fuori.
Icaro è forse la figura che piu’ si avvicina alla sua parabola.

Questo articolo è stato letto, commentato, criticato ed apprezzato praticamante ovunque. Solo dal profilo fb dell'analista in questione, è stato rimosso dopo pochi minuti.

Apprezzo molto il dibattito ed i commenti

Apprezzo la tempestività nel rimarcare quanto la mia posizione non rispecchi quella della testata.

Egualmente apprezzo che, a piu’ voci , venga chiamato in causa la mancanza di censura.
Certo, non so perché proprio ora, a me pareva superfluo ricordarlo.
Era nei patti. Non avrei mai fatto parte di una redazione che avesse una sola voce, o una sola ed omogenea linea editoriale.
Questo perché io la censura vera e violenta l’ho conosciuta in luogo analitico, dunque, mi esprimo bene laddove il terzo garantisce. E pol.it, certo lo fa. Lo sapevo.

Apprezzo un po’ meno che alcuni commenti, non tutti , non si siano minimamente soffermati sui tanti contenuti che ho cercato di toccare , senza approfondiren manco uno, preferendo la ‘reductio ad curvam’, leggendo nelle mie righe, solo ed esclusivamente una polemica personale . L’opposto di quello che volevo dire.

Eppure, dopo questo articolo, ho ricevuto un miliardo di messaggi. Apprezzamenti, Critiche, spunti di contraddizione. Tutto quello che doveva essere.
Ma nessuno, nessuno, di questi ha mai pensato che la questione centrale fosse la leggitimità o meno di essere schierati per il si o per il no, quanto l’impasse nella quale si può cadere utilizzando termini clinici in luogo politico. Solo qua, evidentemente perché mi sono espresso male, sono stato frainteso.
Nel resto del web, e della carta stampata, la questione è invece stata ben compresa.

Lascio cadere velocemente, le malposte accuse di essere stato offensivo, o di esser passato sul personale, o cose simili. Roba che non mi appartiene. Roba che non c’è. ‘Piaggeria’. Termine che ho trovato 1000 volte in rete commentando l’ingresso della psicoanalisi alla Leopolda, con illazioni, allusioni, scherno. Ma non qua.
E, ripeto sino alla sfinimento, la questione mia, non è rimarcare come Crozza che la ‘c’era tanta bava da far esondare l’Arno’, o cercare d capire quanti dei relatori troveranno presto una collocazione come ammiccano i maliziosi giornali di destra.
No no.

Non ci siamo.

Dell’uomo, di quegli uomini, realmente, mi importa poco.
Nè delle loro vite, o carriere.

E' il tema che ci sta sotto, che invece mi appassiona.
E’ la risonanza che l’uso dell’analisi ha avuto in quel luogo, le sue implicazioni, le conseguenze, che mi interessano
.
Il fatto poi che questo post sia andato praticamente ovunque senza che sia stato minimamente ‘sospinto’, mi da la cifra che la direzione è quella giusta.
Discussione, condivisione, allargamento della prospettiva. Critica, scambio, commistione di termini.
Una delle cose che rendono pol. It un luogo non qualsiasi.
Non è così?

Quando nell'agosto del '14 scrissi il post "Recalcati e l'ultimo dei Proci" http://www.psychiatryonline.it/node/5138 pensavo che il pensiero di Recalcati (per quanto criticabile) non fosse sovrapponibile a quello che Renzi predicava e faceva. E che per questo il riferimento di Renzi a Telemaco tradisse il pensiero di Recalcati soprattutto nel mancato riconoscimento dei debiti delle nuove generazioni nei confronti del passato e della necessità di un rapporto dialettico con i padri: soprattutto con quei padri che hanno saputo dare ai propri figli una 'pesante' eredità. Ascoltando l'intervento di Recalcati alla Leopolda ho avuto l'impressione che anch'egli si sia appiattitto sulle posizioni di Renzi.

RICEVO DA SARANTIS THANOPULOS E PUBBLICO IL SUO COMMENTO:
Ho sentito l'intervento di Massimo Recalcati alla Leopolda su You tube, incuriosito dalle polemiche che ha suscitato. Ho letto poi la rubrica di Maurizio Montanari sul sito.
Nella sostanza Recalcati accusa la sinistra del No di masochismo, paternalismo, odio nei confronti della giovinezza. Accuse piuttosto generiche, non specificamente psicoanalitiche, direi prese di posizione politiche senza alcuna analisi di un tipo o di un altro. Del resto il contesto era quello che era. Mi ha colpito la totale assenza di riferimento alla riforma, l'oggetto da discutere, apparentemente.
Il fatto che Renzi per molti possa essere considerato un'innovatore, non si traduce di per sé, nella bontà della sua riforma.
Certo il tono mi è sembrato aforistico. Pur essendo di sinistra e a favore del no, non mi considero masochista (non più di tanto almeno), paternalista (men che mai) e amo (con senso di moderazione) la giovinezza.
Non mi convince, inoltre, l'idea di un Renzi-Telemaco. Da un padre di figli, come il nostro presidente del consiglio, mi aspetterei che non si identificasse troppo con un figlio (provvisoriamente) orfano, aspetterei una più intima convinzione sul suo ruolo.
Al tempo stesso, non condivido la posizione di Montanari che la "neutralità" o l'"opacità" dell'analista, sia lesa dal fatto che egli esprima in pubblico delle opinioni politiche (necessariamente di parte). Penso che la sua neutralità/opacità nell'ambito dell'analisi consista nella sua capacità di sospendere il giudizio e nell'ambito della sua vita pubblica nella chiarezza e trasparenza delle sue posizioni e nel senso di misura. Il che non implica per forza una "fredda cortesia". Se un po' di passione rende l'analista più vivo, questo non dispiace a chi ne fa uso.
Francesco Bollorino ha fatto molto bene a garantire la libertà di parola, senza la quale niente di quello che diciamo avrebbe davvero senso.
E altrettanto bene ha fatto a dissociarsi dall'accusa di piaggeria.
Credo che ognuno possa pensare dell'altro quello che vuole nel suo intimo, ma usarlo in modo offensivo in uno spazio pubblico, lede parimenti la libertà di parola perché danneggia il dialogo.
L'offesa crea malanimo e, soprattutto, non è un argomento.
Credo che sarebbe una cosa buona se riuscissimo a discutere tra di noi, sui malanni psichici collettivi che caratterizzano il nostro tempo. Forse abbiamo più cose utili da dire, non vi pare?

Sarantis Thanopulos

Non credo affatto, dopo aver letto con attenzione l'intervento di Maurizio Montanari, che egli intendesse riportare in auge un concetto di neutralità morto e sepolto da decenni, nonostante alcuni analisti continuino ancora oggi a illudersi di praticarlo coi propri pazienti (con effetti disastrosi). Nè mi pare che intendesse dire che un analista non possa in assoluto esprimere un proprio parere politico su delle questioni, anche pubblicamente, qualora se ne presentasse l'occasione.
Io credo che egli intendesse piuttosto mettere in guardia rispetto all'effetto deleterio sulla pratica clinica della sovraesposizione mediatica, spesso non necessaria, dell'analista (o del terapeuta in generale) di cui oggi abbiamo molti esempi.
La neutralità dell'analista infatti protegge innanzitutto il paziente e il suo transfert, poichè in analisi si lavora col e sul transfert; protegge cioè la qualità del lavoro analitico. Se l'analista si espone troppo pubblicamente corre il serio rischio di inficiare le fantasie transferali dei propri pazienti su di lui e non può più interpretarle appropriatamente; oppure le inibisce, se ad esempio il paziente credeva di lui certe cose e invece i dati di realtà hanno brutalmente mostrato a quest'ultimo tutt'altro. Dico "brutalmente" perchè nella relazione transferale la scoperta della realtà del proprio analista può risultare di forte impatto, in senso positivo per alcuni pazienti, ma certamente anche in senso negativo per altri.
Se un analista decide, per motivi assolutamente personali, di esporsi pubblicamente e ripetutamente su questioni che non attengono alla clinica è libero di farlo, certo, ma non può pensare che ciò non influenzerà il suo lavoro clinico (a meno che egli si dedichi in realtà prevalentemente ad altro, come in certi casi specifici mi verrebbe da pensare). Se invece vuole fare tutto, ossia ottenere visibilità mediatica, esporsi pubblicamente (c'è sempre una componente narcisistica nel desiderio di esposizione che a mio avviso andrebbe tenuta attentamente sotto controllo) e avere consenso pubblico su certe questioni anche quando ciò non è strettamente necessario, e poi fare analisi coi propri pazienti come se niente fosse stato, pensando di poter tranquillamente gestire il loro transfert - certamente inquinato da quell'esposizione - a mio avviso quell'analista peccherebbe di una certa onnipotenza.
Ecco, credo che Montanari intendensse sottolineare l'importanza dell'atteggiamento sobrio e astinente di un terapeuta nella sua vita quotidiana, un atteggiamento consigliato da molti analisti illustri del passato, ad esempio da Bion, il quale riteneva che quell'astinenza da un eccesso di desiderio consigliata agli analisti in analisi fosse una sorta di igiene mentale da perseguire nella vita di ogni giorno anche al di fuori di essa proprio per allenare la mente a non cedere a certe "tentazioni".
Io concordo quindi con Maurizio circa il fatto che l'analista, se vuole fare analisi (per la psicoterapia, specie di altri orientamenti, il discorso cambia) debba mantenersi astinente e riservato anche nella sua vita privata-pubblica di cittadino qualunque (per quanto possibile oggi, in un'epoca così mediatica).
Se non lo fa, se cioè sacrifica la propria immagine clinica con cui lavora coi pazienti, con l'immagine pubblica, deve approfondirne urgentemente il perchè e valutare attentamente le conseguenze di quell'esposizione sulla propria pratica analitica quotidiana, che comunque ci saranno e non saranno lievi, quantomeno per alcuni pazienti.

Uno degli aspetti che credo i lettori di Psychiatry on line Italia più apprezzino della Rivista è la sua libertà e indipendenza.
Dentro Psychiatry on line vengono, nella sezione Rubriche, ospitate voci spesso dissonanti tra loro ma che qui trovano libero spazio di espressione in una dialettica del pensiero che credo sia una delle ragioni del successo crescente della testata.
Questo vale per il pezzo di Maurizio Montanari che riflette le sue personali opinioni rispettabili, ma che non necessariamente corrispondono a quelle della rivista.
Io credo che sia legittimo e doveroso che la psicoanalisi entri dentro il sociale, lo ha fatto troppo poco in passato ed è bello che ritorni al centro del dibattito culturale come avveniva tanti anni fa e come avviene per fare un esempio oggi in Argentina.
Io credo che la psicoanalisi in una pluralità di sentire che è la sua vera forza tutt'ora eversiva possa e debba entrare nel dibattito politico portando il suo contributo.
Così come trovo legittime le posizioni di Maurizio che rispetto, esprimo la mia convinzione che la sua analisi dell'intervento di Massimo Recalcati alla Leopolda (questo è il tema del pezzo vorrei fosse chiaro ai lettori) abbia una connotazione più politica che "clinica": si può essere psicoanalisti ed essere a favore del NO, ma si può essere psicoanalisti ed essere a favore del SI' e trovo civile che ciò appaia pubblicamente o sulle pagine di POL.it o sul palco delal Leopolda, l'importante è il rispetto di posizioni che sono oneste poichè dichiarate.
Ben vegano pertanto gli interventi di Montanari alla Festa dell'Unità di Modena, ma ben vengano al pari gli interventi pubblici di Recalcati.
In ambedue i casi ci viene messa la faccia e ciò mi pare positivo pur nella evidente diversità di lettura, che fa parte di un salutare dibattito culturale.
Un'unica osservazione sul testo pubblicato che come tutte le Rubriche si basa sul rapporto fiduciario tra Direzione e Collaboratori senza alcuna censura preventiva, accordo sancito al momento della stipula del rapporto di collaborazione (in cui viene discusso il contenuto della possibile Rubrica proposta dal nuovo collaboratore) che prevede la pubblicazione diretta su POL.it dei testi delle Rubriche senza intervento della redazione centrale cos ache accade invece per tutte le altre sezioni della Rivista (credo sia importante che i lettori sappiano questa modalità di operare): Massimo Recalcati lo conosco bene, è storico contributore della Rivista, per cui da editor e da suo amico posso dire che le sue opinioni possono non essere condivise (ci mancherebbe) ma che sia andato a parlare alla Leopolda per piaggeria cortigiana verso il "potere" proprio non lo penso e non lo condivido e credo sia corretto dirlo anche io pubblicamente assumendomene la responsabilità.

Coloro che hanno concorso alla mia formazione di psichiatra ad indirizzo psicodinamico (insegnanti della scuola di specializzazione, analista, supervisori) si collocavano su posizioni politiche diverse tra loro. Tutti mi hanno aiutato perché sapevano fare una netta distinzione tra la dimensione politica e quella clinica. Si tratta di due "lunghezze d'onda" differenti: lo scopo dell'attività clinica è, in ultima analisi, a carattere riparativo; quello dell'attività politica inevitabilmente è contiguo con la (o sconfina nella) lotta per il potere. In quest'ultima, domina una violenza simbolica verso l'avversario, i cui scopi non possono essere confusi con quelli curativi. La distinzione è più agevole quando si ha a che fare con il singolo paziente: a qualunque categoria egli appartenga, egli è sempre una persona che soffre e che accetta d'essere messa in discussione. Nessuno di noi, in questo ambito, si permetterebbe di usare il proprio ruolo per indottrinare questa persona. Ecco perché concordo con Bollorino che si possa essere buoni terapeuti, qualunque sia la nostra posizione politica. Più difficile e più delicato è il compito di utilizzare il nostro sapere analitico quando si esprimono giudizi su categorie di persone. Se tali giudizi s'inseriscono in una lotta politica, è facile che gli scopi conoscitivi e riparativi vadano persi, e che si usino le nostre interpretazioni e categorie diagnostiche allo scopo di screditare l'avversario. Di qui, quello che, a mio avviso, è il malcostume di utilizzare, al di fuori del contesto clinico, termini come "isterico", "paranoico", oltre che tutte le parole composte che contengono il termine "fobia" (la fobia, a rigore, è una paura patologica, non una colpa): non si tratta più di diagnosi, ma di accuse o insulti. A questo male, alla confusione tra due dimensione diverse dei rapporti umani, siamo tutti esposti: è inevitabile che ciascuno di noi abbia un'opinione che non coincide con quella altrui; l'importante è esserne consapevoli. L'unico rimedio a questo male è quello proposto da Bollorino: un dibattito il più libero possibile tra persone che, in quanto terapeuti e individui che si occupano di scienza, vogliono trarre dalla discussione un insegnamento (o un modo per chiarire posizioni differenti) e non un mezzo per imporsi.


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