RECENSIONE SAGGIO: Prima della Legge 180 Psichiatri, amministratori e politica (1968-1978)

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4 febbraio, 2017 - 07:55
Autore: Daniele Pulino
Editore: AB VERLAG
Anno: 2016
Pagine: 224
Costo: €14.00
Daniele Pulino passa in rassegna e documenta il dibattito sul manicomio e il suo superamento che accompagnò le esperienze delle Province di Varese, Perugia, Gorizia, Parma, Torino, Roma, Sassari, Trieste, Ferrara, Reggio Emilia, Venezia, Terni, Napoli (Nocera Superiore), Arezzo, Rieti. Sono citate anche le province di Latina, Bolzano, Forlì, Grosseto, Ascoli Piceno, L’Aquila, Nuoro, Frosinone, Benevento, Campobasso, Cagliari, Ragusa, Firenze.
Il libro di Pulino va ad arricchire la ricostruzione dell’azione del complesso di culture professionali, sensibilità, esperienze personali, collettive e politiche che portarono nel 1978 alla riforma dell’assistenza psichiatrica pubblica italiana, una riforma radicale che, escludendo la presunzione della pericolosità sociale come aggettivazione necessaria della malattia mentale e mettendo così fine alla necessità di leggi speciali per la psichiatria, ha legittimato e preteso la chiusura dei manicomi.
 
L’assistenza psichiatrica pubblica italiana
Parlo  di assistenza psichiatrica pubblica perché il lavoro di Pulino si riferisce nello specifico alle vicende di un’assistenza sanitaria normata da leggi “speciali”, a differenza di quanto ha riguardato le altre patologie  mediche: in Italia il secolo XX si era aperto con l’approvazione della legge 14 febbraio 1904, n. 36 “Disposizioni  sui manicomi e sugli alienati”, corredata dal Regolamento attuativo di cui al Regio Decreto 16 agosto 1909. A completare l’ordinamento manicomiale del 1904, nel Codice Civile, nel Codice Penale e nel Testo Unico delle leggi di polizia furono successivamente inserite norme riguardanti l’obbligo di iscrizione sulla scheda del Casellario Giudiziario dei provvedimenti di ricovero manicomiale e l'interdizione obbligatoria. In quanto interdetti, i ricoverati nei manicomi erano automaticamente esclusi dall’esercizio dei diritti civili e politici.
L’assistenza psichiatrica pubblica italiana era affidata alle Province ed aveva  norme diverse da quelle che regolavano l’assistenza erogata dal “ privato”, specie quello delle “Cliniche neuropsichiatriche” che, anche, ma non solo per questo, non partecipò se non marginalmente al dibattito critico e alle esperienze definibili come anti-istituzionali. Magari, invece, il privato ha  preferito sfruttare  a proprio vantaggio le opportunità offerte dalle difficoltà o dagli insuccessi della riforma del servizio pubblico. Così pure fecero i manicomi gestiti da Ordini religiosi (Fatebenefratelli, don Uva ecc.). E fino agli anni nostri recenti è rimasta fuori dalla riforma del 1978 l’assistenza in regime di ricovero ospedaliero dei pazienti psichiatrici autori di reato nei 6 manicomi giudiziari, poi dal 1975 ospedali psichiatrici giudiziari, 5 a gestione diretta del Ministero della Giustizia e 1 (Castiglione delle Stiviere) in convenzione con la locale Congregazione di Carità, poi Ente Ospedaliero. Anche il “privato” degli psicoterapeuti e degli psicoanalisti delle varie scuole ne rimase e ne resta tuttora fuori.
In ragione di questi tratti dell’assistenza psichiatrica italiana sottoscrivo l’affermazione  di Pier Francesco Galli secondo il quale: “Tutte le psichiatrie in Italia sono sopravvissute nel tempo e sono andate avanti in parallelo […] nessuna psichiatria è mai scomparsa” (P.F. Galli, 1998).
 
Il manicomio
Non si può capire la fatica, la durezza del lavoro per la chiusura e il superamento del manicomio, se non ci si sofferma  su cosa esso non solo rappresentava, ma davvero era.
Il manicomio era uno complesso di edifici, talvolta un unico grande edificio,  isolato dal contesto urbanistico esterno, tendenzialmente “autarchico”: poteva contare su cucina, lavanderia, guardaroba, forno per il pane, tipografia, calzoleria, falegnameria, officine, colonie agricole con campi e stalle. Vi vigevano la violenza paralizzante di una fortissima e capillare organizzazione gerarchica che dal direttore scendeva ai medici di sezione, ai capi-reparto, ai vice-capireparto, alle suore, ai pazienti ordinati in agitati, cronici, cronici tranquilli, lavoratori, ai pazienti che aiutavano il  personale nei reparti svolgendo le funzioni più umili e spesso finendo col fare i kapò degli altri internati. Chi, paziente o infermiere, non si adeguava, andava incontro a sanzioni. L’infermiere svolgeva le sue funzioni collocato in postazioni rigidamente assegnategli in reparti sovraffollati, chiusi all’esterno e compartimentati  all’interno, separati da porte chiuse a chiave: la dimensione del mazzo delle chiavi dava l’idea del potere di un operatore.   
Nel manicomio il Direttore medico psichiatra aveva “la piena autorità” sul servizio sanitario e “l'alta sorveglianza” su quello economico.  L’ergoterapia (lavoro dei pazienti come cura, quindi non contrattato), le contenzioni meccaniche erano molto praticate, così come l'isolamento in appositi locali. Il direttore istituiva corsi per l'istruzione “degli infermieri provvisori e effettivi”della durata di tre mesi, che Eliodoro Novello, leader del sindacato AMOPI, (1998) definisce “di incerto, ed in genere scadente, valore”ai quali si accedeva  con la quinta elementare.  Al termine, queste persone potevano essere assunte. Svolgendo gli infermieri soprattutto funzioni di custodia erano privilegiati criteri quali la disciplina, il buon comando, la robustezza, erano addestrati alle tecniche di vigilanza, di evitamento delle aggressioni e delle fughe, di contenimento dei pazienti. La dimissione era autorizzata  dal Presidente del Tribunale, su richiesta del Direttore o dei parenti e sempre  ordinata in via sperimentale, in armonia con il carattere tendenzialmente definitivo dell'internamento.
Per quanto riguardava i medici, annota sempre Novello, giocava negativamente oltre al basso rapporto numerico rispetto alla popolazione dei ricoverati anche il fatto che, a parte il medico direttore (che solo era a autorizzato fare diagnosi e a decidere dopo 15-30 giorni dal ricovero la dimissione o la ammissione definitiva dei pazienti) ad essi non era formalmente richiesta alcuna specializzazione e, talora, neanche l'iscrizione all'Ordine dei medici, considerati come erano alla pari, per funzioni, responsabilità e remunerazione, degli impiegati amministrativi dell’Amministrazione provinciale.
Per i medici che sceglievano l'Ospedale Psichiatrico non come rifugio ( dato che questo era l'unica struttura ospedaliera il cui posto di ruolo assicurava loro, a tutti i livelli, la stabilità fino all'età di 65 anni con relativa pensione, mentre negli altri ospedali ciò valeva solo per i medici primari ) ma per interesse professionale, le possibilità di specializzazione offerte dalle Università erano quelle delle Cliniche delle Malattie Nervose e Mentali in cui prevaleva nettamente l'indirizzo neurologico ed organicista.
A questo si aggiunga che durante il ventennio fascista fu bloccata ogni iniziativa relativa agli studi psicologico-psicoanalitici  che operò un forte condizionamento negativo sul piano culturale, cosicché anche da questo punto di vista mancò un aiuto al disancoramento degli studi psichiatrici dalla preponderante matrice neurologica universitaria (Novello, 1998). Ciò consentì di ritenere utili e lecite le scelte più svariate, di dare veste di dignità di terapia anche all’empiria più rozza e a prassi inumane[1].
Va infine tenuto conto del fatto che il manicomio era anche un’azienda che, per quanto pagasse poco chi vi lavorava, garantiva un salario, carriere a medici, infermieri, amministrativi, stabilità del posto di lavoro e la pensione: chiudere il manicomio voleva dire chiudere una “fabbrica” che garantiva occupazione, rischiare un lavoro sicuro, vicino a casa: ricordo al riguardo si aver lavorato con  molti  infermieri, in gran parte ex- braccianti ed ex-edili che spesso si erano fatti, costruiti la casa vicino al manicomio.
 
La legge 431/68
Giustamente Pulino fa partire la stagione riformatrice dal 1968, un anno di svolta con l’approvazione della legge stralcio n. 431. È utile però secondo me ricordare tre cose che prepararono il terreno:
  1. a partire dalla metà degli anni ’50 del secondo dopoguerra immediatamente precedenti vi era stata la novità dell’entrata in uso dei farmaci neurolettici, antidepressivi e poi ansiolitici, strumenti maneggevoli  rispetto ai trattamenti biologici e di shock. Essi consentirono una  maggiore personalizzazione dei trattamenti, un migliore e più efficace controllo dei sintomi . In particolare, tali caratteristiche degli psicofarmaci consentivano di cominciare a pensare anche a dimissioni “in sicurezza” delle persone internate, con la collaborazione attiva del paziente stesso: non è casuale che da quegli anni i temi del farmaco e dell’adesione al trattamento, dei suoi effetti gradevoli e sgradevoli, sia diventato uno dei focus se non il focus principale dell’attenzione nella vita quotidiana delle persone in trattamento, dei loro famigliari e degli addetti all’assistenza.
  2. Agli inizi degli anni 60, nella testimonianza di E. Novello,  lungo l'asse Veneto, Lombardia , Emilia, Toscana si saldò l'incontro di allora giovani psichiatri ospedalieri che riuscirono poi a coinvolgere nella progettualità riformista la maggior parte dei colleghi italiani sino ad assumere a Napoli , nel 1963 , la responsabilità di gestire l'AMOPI ( Associazione Medici Ospedali Psichiatrici Italiani) unica realtà associativa del genere esistente allora in Italia. Cominciò così un'opera di pubblicizzazione e di comparazione delle realtà manicomiali italiane e delle prospettive che potevano aprirsi modificando presupposti e modalità tecnico giuridiche del ricovero ospedaliero psichiatrico in uno con lo spostamento all'esterno del manicomio del baricentro dell'assistenza psichiatrica. Operazione non facile in quanto comportava un impegno a tempo pieno dei medici nelle strutture pubbliche di fronte al fatto che per la maggior parte dei medici dei manicomi la sostanziale parte degli introiti, visti gli inadeguati compensi percepiti con il lavoro istituzionale , era legata alle prestazioni in convenzione presso gli enti mutualistici (INAM, ecc.)
    Per questo le iniziative per il cambiamento legislativo, per la modifica della legge del 1904 inerente i diritti dei malati dovettero necessariamente coniugarsi con iniziative atte a modificare lo stato normativo-giuridico del personale medico e non e , conseguentemente, il loro trattamento economico. Fallì il tentativo di inserire gli oo.pp nella riforma degli ospedali generali, attuata anch’essa dal ministro Mariotti con la legge 132/68,  fallimento legato alle resistenze delle Amministrazioni Provinciali che , “bianche o rosse che fossero non vollero perdere il potere politico ed elettorale legato dagli OP che da soli rappresentavano metà delle dotazioni di bilancio e di personale” (Novello, 1998).
  3. La necessità di un intervento legislativo avente per oggetto l'assistenza psichiatrica non poté essere eluso dopo la pubblicazione da parte del Ministro della Sanità del "libro bianco" sullo stato dell'assistenza psichiatrica in Italia.
 
Pulino esplora e mette in luce il ruolo svolto da alcuni amministratori provinciali nel sostegno a innovazioni nelle finalità e nell’organizzazione di servizi pubblici  centrati sul manicomio, nel quale, come detto, prevalevano le finalità della custodia, con una miseria di mezzi e saperi disarmante. Pulino dà però, secondo me, un giudizio non equo della 431[2], perché tale legge fu la cornice entro cui quegli amministratori operarono nel decennio 1968-78. Per dire che, a mio parere, senza la 431, non sarebbe stata nemmeno pensabile la 180 del 1978. Ritengo infatti che abbia avuto un effetto decisivo nell’innovare a fondo metodi e finalità dei servizi, su quasi tutto il territorio nazionale, perché:
  • restituì diritti civili e politici con l’introduzione del ricovero volontario, che toglieva di mezzo il passaggio attraverso l’imbuto delle decisioni del direttore e del Tribunale e consentiva di trasformare il ricovero in ricovero volontario quello “definitivo” delle persone internate;
  • introdusse il “lavoro in squadra” di medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali, sociologi, una novità straordinaria in grado di corrodere nel lavoro quotidiano il primato prima indiscusso dell’approccio neuropsichiatrico;
  • aumentò gli organici e le retribuzioni del personale, equiparandoli a chi lavorava negli ospedali “civili”[3] (di quello stesso anno 1968 è la legge 432 di riforma ospedaliera). Va considerato al riguardo che ci furono resistenze non solo di amministratori, ma anche della “categoria” dei lavoratori degli Enti Locali che si vedevano “fuggire” gli associati che passavano alla Sanità;
  • istituì i  Centri di Igiene Mentale, anch’essi affidati alle Province, che contribuirono a facilitare le dimissioni, andare, come si diceva “ nel territorio”, consentendo una maggiore conoscenza della vita e delle storie delle persone, delle loro famiglie,  dei loro contesti sociali, compresi i sindaci e in generale gli esponenti della vita delle comunità locali, i parroci, i vicini di casa, gli amici, anche i carabinieri;
  • contribuì a ridurre lo stigma, sostenne e facilitò grandemente il lavoro delle dimissioni perché rese possibile la trasformazione in volontario del regime dei ricoveri già “definitivi”, le relazioni con le famiglie e le comunità locali, arricchì il bagaglio generale delle competenze con l’inserimento già citato delle figure delle assistenti sociali e degli psicologi. Molti contesti manicomiali furono investiti dal lavoro di gruppi di operatori che cominciarono a modificare stili e finalità dell’assistenza, “umanizzare” le condizioni della vita quotidiana, aprire le porte dei reparti, abbattere mura e recinti, migliorare la qualità del cibo, contrattare le paghe dell’ergoterapia, organizzare apprendimenti utili nella vita quotidiana,  accompagnare le persone nell’esplorazione di un mondo che si andava tumultuosamente trasformando, favorire il ristabilirsi di autonome relazioni interpersonali e sociali, dare la possibilità di indossare i propri vestiti, spendere il proprio denaro: tutto questo lo chiamammo socioterapia;
  • l’aumento della dotazione di personale medico, il suo maggior impegno nell'istituzione, la contemporanea istituzione di Cliniche Psichiatriche Universitarie, sedi di una più specifica preparazione specialistica, oltre ad incrementare l'assistenza favorirono la crescita culturale fra i medici, mentre per gli infermieri le resistenze di tipo sindacale non consentirono spesso di avviare da subito una idonea riqualificazione (Novello, 1998).
 
Per tutte queste ragioni, l'applicazione della 431 trovò applicazioni differenziate a livello delle singole Amministrazioni provinciali ed un impegno diversificato da parte del personale medico, soprattutto in rapporto alla scelta del “tempo pieno” o del “tempo definito” nella prestazione istituzionale. Data la frammentazione delle esperienze, il peso della dimensione locale, la diversità dei rapporti di forza nelle varie situazioni concrete, la stessa successiva applicazione della 180 mantenne i caratteri “a macchia di leopardo” ereditate dalla 431. Anche, e soprattutto,  per la assenza di una formazione professionale generale comune.
Laddove, come racconta Pulino, amministratori e psichiatri furono aperti e pronti a dare applicazione ai  nuovi orientamenti, si aprì una nuova stagione per l'assistenza psichiatrica che ebbe come riferimenti sostanzialmente due “modelli”: quello che si richiama all'esperienza francese del "settore psichiatrico"  e quello che si richiamava alle esperienze inglesi di Maxwel Jones di cui pioniere fu F.Basaglia a Gorizia. Franco Basaglia muoveva al  settore la critica di costituire una "nuova istituzione" cui il potere affidava una gestione “tecnica” delle devianze  nella medesima società che aveva voluto e organizzato i manicomi.  A questi due modelli fecero riferimento più o meno direttamente le proposte legislative relative all'assistenza psichiatrica fatte a partire dal 1976 da vari gruppi parlamentari nel contesto dei lavori preparatori della legge istitutiva dal Servizio sanitario nazionale. L’assistenza psichiatrica pubblica italiana, come le coeve USA, britannica e francese, si è declinata tra manicomialismo, psichiatria di settore,  lavoro anti istituzionale e  movimento per il diritto alla salute mentale[4]. Nel suo complesso il movimento riformatore rimase accomunato dal rifiuto di modelli medici a base organicista.
L’uscita degli operatori e dei pazienti dai manicomi italiani ha avuto quindi una lunga preparazione e fu ovunque e sempre accompagnata  da una discussione molto intensa e “tirata” fra medici e infermieri intorno al fatto se si potevano ignorare i regolamenti, se si poteva adottare pratiche diverse da quelle della cultura manicomiale, a quali rischi si andava incontro, di chi era la responsabilità in casso di comportamenti violenti, allontanamenti. Qui fu fondamentale il riferimento all’esperienza di Trieste che, va sottolineato, portò alla chiusura del manicomio, prima della 180, vigente la legge del 1904. 
La scelta di iniziare a lavorare, come si diceva, “nel territorio”, cioè presso i domicili, nelle comunità dei paesi e dei villaggi, in contatto con i Comuni ed i servizi sociali e sanitari prima e l’associazionismo e il volontariato poi, non è mai stata una scelta solo o prevalentemente organizzativa, perché ha comportato una profonda modificazione del bagaglio professionale di ciascuno, la necessità di abbandonare consolidati criteri, modalità di approccio e relazione, finalità di lavoro proprie dell’istituzione manicomiale per impararne e adottarne altri del tutto nuovi e diversi centrati sulla ricerca del consenso, sul rispetto della dignità delle persone, sulla tutela dei diritti dei pazienti e delle loro famiglie. Tutto questo è stato fatto per lo più “sul campo”, imparando nell’esperienza, nello scambio di informazioni con i protagonisti di ciò che si stava facendo in altri manicomi, con un intenso lavoro nelle équipes. È potuto accadere così gli stessi operatori che avevano condiviso la visione pessimistica dell’incurabilità del disturbo mentale, l’internamento e l’ospedalizzazione di lunga durata in un luogo separato e cinto di mura, andarono ad aprire Servizi di diagnosi e cura negli ospedali generali, centri di salute mentale, ambulatori, centri diurni, accoglienza in residenze protette. Fondamentale, a sostegno del percorso del cambiamento, furono il consenso di un grande movimento di opinione pubblica, quello alla fine pieno delle organizzazioni sindacali degli infermieri e dei medici, quello più tormentato e incerto dei grandi partiti della prima Repubblica: PCI, DC e PSI[5]. Se non si coglie l’intensità delle modificazioni del punto di vista, delle culture professionali  della maggioranza degli operatori, non si possono comprendere la fatica e il valore del lavoro compiuto in trent’anni dalla fine degli anni ’60 al compimento della chiusura del manicomio il 31 dicembre 1999. Un ruolo decisivo per la svolta che portò alla 180 lo ebbe il movimento per la riforma sanitaria e, dentro allo stesso, la scelta del PCI che  nel convegno dell'Istituto Gramsci (1969)  sul tema "Psicologia, psichiatria e rapporti di potere" si schierò favore della posizione di Basaglia (i sostenitori del “settore” non furono invitati), ma collocata entro la proposta di integrazione delle attività di assistenza psichiatrica nella organizzazione complessiva di una parte del nuovo sistema di sicurezza sociale: il servizio sanitario nazionale[6]. Fu  sottolineata l'importanza della prevenzione nella comunità, nell'ambiente di vita e di lavoro dei cittadini, alla ricerca  delle cause che minacciano la salute mentale dei cittadini; di qui la richiesta di abolire la legislazione speciale per i pazienti psichiatrici, integrare l’assistenza psichiatrica nell'organizzazione sanitaria di base, fornendo alternative al ricovero in ospedale (deospedalizzazione dell'assistenza), collegare la lotta contro il manicomio con quella per il Servizio sanitario nazionale.
Tutto questo nel libro di Pulino c’è, con una attenzione importante alla sua “declinazione” nelle vicende locali da una parte, e alle fitte relazioni con i partiti politici e il Parlamento dall’altra.
 
Post Scriptum
Ad una più completa ricostruzione degli avvenimenti del decennio 1968-78 mancano tuttavia, a mio avviso, la rassegna e la valutazione del lavoro svolto dalle Regioni che cominciarono ad operare  dal 1970, impegnandosi a esercitare le proprie competenze in materia sanitaria e ad anticipare aspetti di quello che sarà il Servizio sanitario nazionale dopo la 833/78.  Al riguardo mi limito a  citare l’esempio dei Consorzi sanitari di zona  (Csz)della Regione Lombardia  che portarono le associazioni di Comuni a occuparsi anche del lavoro per la salute mentale.  Oltre alle Province molti Comuni si misurarono con le questioni dell’assistenza psichiatrica e della salute mentale: per tutti cito l’esperienza della città di Milano con l’assessore Faustino Boioli e la istituzione dei Servizi di Igiene Mentale Età Evolutiva (SIMEE).
C’è poi la da esplorare la questione, tuttora irrisolta, della formazione degli operatori, che si trovò di  fronte  
  • a una enorme domanda di sapere e di sapere critico che veniva da chi era impegnato nelle esperienze di riforma. Fra le risposte date cito il “Gruppo milanese per lo sviluppo della psicoterapia” di Pier Francesco Galli, Berta Neumann, Enzo Codignola, Emanuele Gualandri e la rivista «Psicoterapia e scienze umane» che festeggia i 50 anni;  il gruppo di via Ariosto di Milano; lo straordinario sapiente lavoro “socratico”di Sergio Piro
  • all’ingresso/ irruzione nei servizi dei sociologi di Trento, ma soprattutto degli psicologi che uscivano dalle facoltà di Padova e Roma. Al riguardo segnalo l’importante recente Psichiatria e psicoterapia in Italia dall’Unità ad oggi, nel quale sono raccontate la vicenda e l’esperienza di Massimo Fagioli
  • alle mancate attivazioni e assunzioni di responsabilità della gran parte dell’Università italiana, un comportamento da inscrivere in quello definibile come “il silenzio degli antagonisti”.
 Tutto questo evidenzia ancor più il valore dell’impegno e del coraggio dispiegati dagli amministratori provinciali così ben documentati da Pulino.
 

Riferimenti
Pol-it, Speciale Vent’anni di 180, 1998:
intervista a Eliodoro Novello di Gerardo Favaretto
intervista a Pier Francesco Galli L’attività del Gruppo milanese per lo Sviluppo della psicoterapia negli anni 1960 di Anna Grazia
intervista a Giovanni Berlinguer La 180, il ’68 e il PCI intervista di Albertina Seta
intervista a Sergio Piro di Gennaro Esposito
Antonio Balestrieri, Memorie e dimenticanze in un secolo di psichiatria, S. Servolo, 9.10.1998
Luigi Benevelli, La chiusura dei manicomi: note sul dibattito e i percorsi della de-istituzionalizzazione  dell’assistenza psichiatrica nell’esperienza italiana, in G. Contini, E Straticò ( a cura di) Il tramonto del manicomio, CLUEB, Bologna, 1998, pp. 15-30
Mariopaolo Dario, Giovanni Del Missier, Ester Stocco e Luana Testa, Psichiatria e psicoterapia in Italia dall’Unità ad oggi, L’asino d’oro edizioni, Roma 2016.



[1] (Balestrieri, 1998) Dell’elettroshock ancora tanto si discute, per lo più di chi non lo ha mai visto né applicato. Sul resto è calato l’oblio. Ci siamo dimenticati di come si riducevano gli schizofrenici trattati col coma insulinico. Ci siamo dimenticati dei non pochissimi che dal coma non rientravano e morivano sotto i nostri occhi disperati. Ne valeva la pena o tutto ciò si faceva in mancanza d’altro o per una illusione terapeutica collettiva?
 
[2] La legge 431 […] è formata da 12 articoli che eliminano le storture più evidenti della legge manicomiale, ma non modificano l’assetto del sistema asilare. (p. 57)
 
[3] Il personale che lavorava nei manicomi provinciali fruiva del contratto degli Enti Locali e non fu semplice portare la “categoria” dal contratto degli enti locali a quello della sanità. Al riguardo il convegno CGIL di Falconara Marittima del 1970 costituì lo snodo per il cambio.
 
[4] A tale ultimo riguardo, ritengo che Franco Basaglia fu l’inventore e il costruttore dei servizi per la salute mentale con un approccio radicalmente diverso da quello psichiatrico, anche quello che ispirava la “psichiatria di comunità”.
[5] I punti di resistenza al cambiamento si ritrovavano fra i parlamentari eletti nelle circoscrizioni in cui stavano grandi manicomi minacciati di chiusura o comunque ridimensionamento, spesso gestiti da Ordini religiosi: ricordo mi aveva colpito nella X Legislatura (1987-1992) l’impegno a difesa dell’esperienza del “Don Uva” di Bisceglie di Giovanni Battista Bruni, deputato del Partito Repubblicano, eletto nella circoscrizione di Bari, per non parlare del dramma di Girifalco dove il nuovo ospedale psichiatrico terminato a ridosso dell’approvazione della 180 si trovò a non poter essere usato come tale. Ma nello stesso PCI, fuori dalle posizioni ufficiali, era presente una vivace opposizione alla riforma dell’assistenza psichiatrica: ricordo  la battaglia condotta da Antonello Trombadori, per non parlare della dolorosa e oscura vicenda di Aldo Togliatti esplorata da Massimo Cirri nel suo Un’altra parte del mondo, Feltrinelli, Milano 2016.
[6] Come noto, la riforma dei servizi socio-assistenziali (legge n. 328/2000), l’altro corno di un sistema integrato di sicurezza sociale nazionale, ha dovuto attendere più di vent’anni ed in realtà non è mai stata pienamente implementata nelle Regioni, andando ad aumentare le diseguaglianze fra i cittadini.
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