L'INNOCENZA DEL DIAVOLO
Psicopatologia, crimine e istanze di controllo sociale
di Rita Corsa e Pierpaolo Martucci

CENT’ANNI (E PIU’) OR SONO. CRIMINOLOGI E PSICHIATRI DI FRONTE AGLI SCANDALI BANCARI

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6 luglio, 2017 - 18:57
di Rita Corsa e Pierpaolo Martucci

«Sostanzialmente, un delitto di alta truffa o di bancarotta finamente organizzata non è dissimile da un furto volgare, e si dovrebbe risentirne lo stesso sentimento di indignazione e rimorso. Invece, a riguardo del delitto capitalistico la sensibilità morale dell'uomo civile moderno, sia esso Europeo o Americano, si addimostra di una ottusità o, a dir meglio, di una immaturità veramente sconfortante; e non solo nelle classi dirigenti dove si enumera la maggioranza dei rei di questa categoria, ma nelle masse medesime che del delitto bancario sono le vittime più numerose e lagrimevoli».

Questo scriveva nel 1899 Enrico Morselli, al tempo senza dubbio il più autorevole esponente della psichiatria in Italia. Le frasi sono tratte da una sua lunga prefazione al volume La Delinquenza Bancaria nella sociologia criminale, nella storia e nel diritto, pubblicato in quell’anno nella collana antropologico-giuridica dei fratelli Bocca, gli editori torinesi  “ufficiali” degli studiosi lombrosiani. L’autore del libro era Rodolfo Laschi, un avvocato che aderiva alla scuola positiva, già collaboratore di Cesare Lombroso e che aveva inteso approfondire in modo autonomo il tema scottante della grande criminalità finanziaria. Il risultato fu un saggio che tentava di focalizzare i tratti di una tumultuosa “crisi fine secolo”, in cui molti passaggi suonano ancora di sconcertante (e sconfortante) attualità.
Nel difficile clima di contrasti e tensioni sociali che caratterizzò in Europa l’ultimo scorcio dell’Ottocento, soprattutto in Italia e in Francia  emersero in modo clamoroso una serie di vicende in cui si intrecciarono strettamente frodi dell’alta finanza e  corruzione politica. In Francia lo scandalo investì le colossali speculazioni che determinarono il fallimento del primo tentativo di realizzare il canale di Panama.
Per quanto riguarda l’Italia, gli eventi più  gravi maturarono nell’ambito del sistema bancario, il cui sviluppo era stato rapido ed incontrollato all’indomani della conclusione dell’unificazione nazionale, quando si erano moltiplicate speculazioni ed iniziative spregiudicate. La disorganizzazione del credito derivava soprattutto dall’inesistenza di una Banca di Stato e dalla conseguente mancanza di una emissione di valuta legale unitaria, con la presenza di sei distinti istituti di emissione: la Banca Nazionale e la Banca Romana nella capitale; la Banca Toscana di Credito e la Banca Nazionale Toscana a Firenze; nel Sud il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia. Ciascun Istituto stampava per proprio conto biglietti che avevano corso legale e rappresentavano in pratica tutto il denaro cartaceo circolante.
Tra il 1887 ed il 1889, in ambienti parlamentari, finanziari e giornalistici iniziarono a circolare voci su illegalità e dissesti bancari diffusi. Si trattava in buona parte di conseguenze della disinvolta concessione di prestiti agli speculatori edilizi operata negli anni precedenti, in coincidenza con un boom delle costruzioni a Roma e in altre grandi città del Regno, spesso perseguita attuando emissioni irregolari di carta moneta.
La crisi, dapprima soffocata, esplose dopo le gravi denunce fatte alla camera nel 1892 dall’On. Napoleone Colajanni, deputato nelle file dei repubblicani. Costui, ex garibaldino, medico, economista, docente di statistica nelle università di Palermo e Napoli, era un esponente di rilievo della criminologia positivista, peraltro in contrasto personale con Lombroso, di cui non condivideva il bio-determinismo.
La commissione parlamentare d’inchiesta, istituita poco dopo, sottopose ad ispezione la Banca Romana, la principale indiziata di irregolarità, ed evidenziò una situazione estremamente grave.  Furono  riscontrati un vuoto di cassa di 20 milioni di lire dell’epoca, una circolazione clandestina di banconote per 70 milioni di lire, l’esistenza di biglietti di banca “doppi” (cioè con identica doppia serie) per un valore di 40 milioni, bilanci e contabilità falsificati, enorme giacenza di cambiali inesigibili. Dietro a molti illeciti vi era stata la prassi di erogare finanziamenti occulti a uomini di governo, parlamentari e giornalisti, per influenzare le scelte politiche in ambito bancario. Lo scandalo riguardò soprattutto la Banca Romana (e come tale passò alla storia) ma più o meno direttamente coinvolse l’intero sistema del credito (da cui la definizione corrente di “lue bancaria”), con ulteriori episodi clamorosi, a carico di altri istituti di rilievo (1).
L’inchiesta penale, che subito affiancò quella parlamentare, innescò per molti mesi un clima avvelenato, per certi versi simile a quello che esattamente un secolo più tardi avrebbe contraddistinto “Tangentopoli”. Vi furono arresti eccellenti, come quello del discusso e potente governatore della Banca di Roma, il senatore Bernardo Tanlongo, violenti dibattiti in Parlamento, morti sospette, interrogatori di centinaia di politici, finanzieri, giornalisti, si diffusero notizie incontrollate e furono coinvolti nomi illustri tra i “benemeriti” del Risorgimento. Ciò che emerse sembrò configurare l'esistenza di un collaudato sistema di scambio fra vertici bancari da un lato e uomini politici e grande stampa dall'altro: i primi avevano finanziato occultamente i secondi per "pilotare" una legislazione di favore ed evitare controlli approfonditi. Lo stesso Giovanni Giolitti, allora capo del governo, dovette dimettersi alla fine del 1893 e rischiò seriamente l’arresto.  Ma quella sorta di ciclone produsse un esito assai modesto
Infatti, nel corso del 1894, l’inchiesta parlamentare si concluse con una sostanziale archiviazione delle accuse a carico dell’ex Primo Ministro, le cui responsabilità non erano peraltro superiori a quelle dei predecessori, primo fra tutti Crispi. Questi, nuovo capo del governo, non aveva alcun interesse a portare avanti lo scandalo e così – come scrisse Giolitti nelle sue Memorie –  «la questione fu definitivamente sepolta».  Ancora più sconcertanti  gli esiti giudiziari,  dopo sei mesi di indagini e la raccolta di ventimila documenti, limitati al rinvio al giudizio della Corte d’Assise di Roma dell’ex governatore Tanlongo e di pochi altri. Che il 29 luglio 1894 furono tutti assolti, persino riguardo ai reati che loro stessi avevano confessato nella fase istruttoria. 
Gli scandali politico-finanziari che agitarono la società italiana di fine secolo - simbolo evidente di una crisi sopraggiunta a oscurare gli ideali risorgimentai, a disperdere il «vento della rivoluzione unitaria, così ricco di promesse e così sterile di fatti», per usare le parole dello stesso Lombroso - determinarono nelle correnti criminologiche del tempo una serie di riflessioni critiche e di elaborazioni innovative, coerenti del resto con il mandato civile che il positivismo assegnava allo scienziato.
L’incalzare della cronaca e dei suoi protagonisti costrinsero i lombrosiani a prendere atto di una realtà difficilmente conciliabile con gli stereotipi fondanti dell’antropologia criminale. Dallo studio dei personaggi francesi e italiani coinvolti, rispettivamente, nell’affare di Panama e nella questione della Banca Romana, era emersa proprio la mancanza dei caratteri attribuiti al “tipo” criminale: «in complesso dunque qui si trova l’inverso di quello che l’alienista trova nei criminali comuni, si trova cioè l’assenza completa del tipo, press’a poco come negli uomini onesti» (2).  Dunque nessuna traccia di quello “stato morboso” che l’alienista Gaspare Virgilio  vent’anni prima aveva indicato come probabilmente costitutivo della tendenza a delinquere (3).
Come osserva Delia  Frigessi  «dal '90 in poi, quando inizia in Italia il decennio di sangue e nelle tensioni sociali si fa sentire la voce popolare dei movimenti di massa, ambivalenze e ambiguità diventano via via più visibili nel discorso di Lombroso, si accentuano gli aspetti discordanti, la disorganicità, dai quali possono trarre vantaggio ideologie divergenti» (4). 
Alla luce degli scandali politico-finanziari e delle proteste popolari,  l'impegno civile divenne per lo psichiatra veronese una priorità assoluta, cui lo scienziato che non sia legato alle accademie  («ispiratrici delle più vuote vanità e delle più tristi viltà») non può sottrarsi: «Tardi, purtroppo, quando il capo incanutiva e le forze scemavano, ho sentito anch’io quanto errava lo scienziato che dimentica il mondo che s’agita e ferve intorno a lui, e me ne fecero sentire purtroppo la necessità ed il bisogno i tristi avvenimenti (…) E per quanto occupato e preoccupato sempre, come sarò all’ultima ora della mia vita, dei problemi scientifici, non ho potuto più dimenticare quelli politici » (5).
Si riconosceva la realtà di un disordine sociale in cui la devianza si presentava assai più complessa e articolata, assai meno semplicisticamente leggibile di quanto non potesse apparire qualche lustro prima.
Presa la distanza dall’ottimismo dell’evoluzionismo spenceriano («per quanto dica lo Spencer, il delitto va continuamente aumentando»), Lombroso riteneva inevitabile l’incremento della criminalità economica («quanto più la civiltà andrà innanzi, tanto più l’inganno e la truffa si faranno strada»), specialmente in una società occidentale «tutta retta a menzogne ed in preda ad un fanatismo economico che va fino al delirio».  La questione era particolarmente dolorosa per chi, come lui, aveva partecipato da volontario alle guerre risorgimentali, e che avvertiva ora  «un soffio gelato per le ossa di Italia»: «Una triste osservazione in Italia mi ha dimostrato che, da Cavour in poi, non vi fu un ministero completamente onesto che potesse reggersi. Se vi prevalevano uomini troppo integri, il ministero era certo di una brevissima durata, perché non aveva abbastanza energia, furberia, tristizia contro le mene parlamentari» (6).
Ma era uno dei più giovani seguaci del Maestro, l’antropologo Alfredo Niceforo,  a tratteggiare il quadro più impietoso delle condizioni del Paese: «non c’è quasi figura di uomo politico che sia uscita con le mani nette da questo saccheggio largamente organizzato (…) Tutte quelle losche figure che passarono sullo sfondo, più o meno grigio, della grande farsa bancaria dei nostri giorni non rendono forse a meraviglia l’immagine simbolica della nostra vita italiana di questi tempi, che scivola dalla concussione alla prevaricazione e al peculato, mantenendosi in equilibrio, spesso instabile, sull’orlo del delitto e che meriterebbe di essere passata – se giustizia vi fosse – a fil di codice penale?» (7).
E se Lombroso, di fronte alla “tristezza dell’epoca”,  annotava amaramente: «Bisogna abbassare il capo pensando ai tempi che verranno, senza lusingarsi di un immediato rimedio» (8), Rodolfo Laschi chiudeva il suo libro del 1899 sulla delinquenza bancaria senza rinunciare a delle note di residua fiducia nel progresso sociale, e con un auspicio per il nuovo secolo:
«Già troppo le istituzioni economiche si sono basate sulla menzogna e sull’inganno: troppo amari frutti si sono raccolti finora. […] il secolo che muore lasci questa eredità alla nuova era che sorge e sia essa il riscatto dei suoi errori e delle sue colpe » (9).
Naturalmente, si sbagliava.
 
NOTE
(1)   Per una approfondita ricostruzione vedi Martucci P.:  Le piaghe d’Italia. I lombrosiani e i grandi crimini economici nell’Europa di fine Ottocento. Milano: Franco Angeli, 2002.

(2)   Lombroso C., Ferrero G.: “Sui recenti processi bancari di Roma e Parigi”, in Archivio di psichiatria, XIV, 1893, 193.
 
(3)    Virgilio G.: “Saggio di ricerche sulla natura morbosa del delitto e delle sue analogie colle malattie mentali. Osservazioni raccolte nella Casa dei Condannati invalidi e nel manicomio muliebre di Aversa pel dott. G. Virgilio”. In  Rivista di discipline carcerarie, 1874, 2, 380.
 
(4)   Frigessi D.: Cesare Lombroso. Torino: Einaudi, p. XV.  Sul piano personale grande significato per Lombroso aveva avuto l’amicizia con Filippo Turati e soprattutto la frequentazione – fra il 1885 ed il 1890 – con Anna Kuliscioff, grande protagonista del nichilismo russo e compagna dello stesso Turati.
 
(5)   Lombroso C.: Prefazione a Le piaghe d’Italia, in Il momento attuale. Milano: casa editrice Moderna, 1903, pp. 10-11.
 
(6)   Lombroso C.: La funzione sociale del delitto. Palermo: Sandron, 1896, p.7.
 
(7)   Niceforo A.: L’Italia barbara contemporanea. Palermo: Sandron, 1898, p. 308.
 
(8)   Lombroso C.: La funzione sociale del delitto, cit., p.31.
 
(9)    Laschi R.: La Delinquenza Bancaria nella sociologia criminale, nella storia e nel diritto. Torino: Bocca, 1899, p.177.

 
 

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