L’inconscio è un lavoro

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8 novembre, 2017 - 13:52
Intervento presentato al Convegno Alipsi “L’inconscio è reale?”
Livorno 4 novembre 2017

Il titolo del mio intervento è estratto da una frase di Jacques Lacan che, per certi versi, può essere considerata una risposta all’interrogativo che anima il convegno di oggi e, più in generale, alla questione dell’inconscio reale. La frase intera, pronunciata al congresso dell’Ecole Freudienne de Paris a La Grande Motte nel novembre del 1973, è questa: “l’inconscio lavora senza pensarci, né calcolare, nemmeno giudicare e tuttavia il frutto è là: un sapere che si tratta di decifrare poiché consiste unicamente in una cifratura … che non serve a niente, non è dell’ordine dell’utile, che è dell’ordine del godimento”. Ebbene, sarà intorno a questa frase che articolerò il mio ragionamento sull’inconscio reale, un ragionamento – come è facile intuire – su una materia assai complessa che necessita di ulteriori  sviluppi. 
Con minime variazioni, ritroviamo la stessa formulazione della frase citata in testi coevi, in Television, ad esempio, che è forse il testo più noto. Lacan, in effetti, ribadisce in quegli anni, in più occasioni, il medesimo concetto: l’inconscio è un lavoro, un lavoro di cifratura, un lavoro che non serve a niente perché è dell’ordine del godimento. Una sorta di macchina cifrante, dunque, una specie di Enigma (la macchina usata dai nazisti nel corso della seconda guerra mondiale) che trasforma le lettere di un testo ‘in chiaro’ nelle lettere di un testo criptato. La traduzione che nell’inconscio si produce, però, a differenza di una qualsiasi macchina cifrante, non serve a niente – dice Lacan: non serve a comunicare, non ‘vuole dire’, non ha intenzionalità dialettica. Quindi, a rigore, non si tratta di una vera ‘traduzione’ (che suppone il passaggio bidirezionale da un codice all’altro, a differenza di quanto accade nel processo di cifratura, nel quale il passaggio avviene da un linguaggio convenzionale ad uno ‘privato’, per definizione, ‘intraducibile’): per comodità di esposizione, tuttavia, utilizzerò i termini cifratura e traduzione come sinonimi.
Ma, attenzione, torniamo alla questione centrale: Lacan non dice nemmeno che serve a godere. Questo è un punto importante, che occorre sottolineare. L’inconscio è un lavoro che non serve a niente, nemmeno a godere, nel senso che non è finalizzato, neanche al godimento – prospettiva che rinvierebbe, in una qualche misura, ad una teleologia e ad un finalismo (per quanto paradossale potrebbe apparire). Lacan afferma – e questo mi sembra il fulcro logico che va interrogato – che è dell’ordine del godimento: gode e basta. L’inconscio non serve a godere: gode. Ça jouit. Una macchina cifrante che vuole solo cifrare. In Television, Lacan definirà l’inconscio – coerentemente a quanto appena evidenziato – un ‘lavoratore ideale’. Ideale in senso marxista, ovviamente. Come vedete, ci troviamo, subito, ad avere a che fare con un nodo teorico  problematico: cosa vuol dire, in effetti, ‘gode e basta’? Non è facile rispondere ad un interrogativo del genere.
Questa prima ricognizione sulla frase di Lacan mette, però, in evidenza un versante dell’inconscio meno noto, meno ‘tradizionale’, meno intuitivo rispetto al versante più classico, quello che lo stesso Lacan aveva collegato al concetto di struttura (l’inconscio ‘strutturato come un linguaggio’ è forse la sua più nota teorizzazione). Una versione dell’inconscio che appare con sempre maggior forza nella prima metà degli anni settanta, strettamente connessa al valore di godimento in esso implicato, dunque, al registro del reale al quale appare in stretta attinenza (ricordiamoci che, proprio nel seminario del 1973 –  Ancora – Lacan aveva affermato che “il godimento è qualcosa del reale”). Un possibile malinteso si annida, però, in queste iniziali considerazioni: pensare che lo statuto ‘reale’ dell’inconscio risieda nel fatto che le sue manifestazioni procurino e assicurino il godimento altrimenti interdetto, che la cifratura alla quale abbiamo finora solo accennato si riferisca, per l’appunto, al trasferimento di godimento da un piano all’altro della psiche, che il cifrare, in sostanza, coincida con questo ‘nascondimento’ di un godimento clandestino che, in tal modo, troverebbe il modo di realizzarsi. Dato questo, che, del resto, la clinica psicoanalitica dimostra in maniera incontestabile. L’esempio classico e più immediato della pertinenza di una tale considerazione dell’operazione di cifratura ci è fornito dal lapsus: una parola pronunciata al posto di un’altra, in tale ottica, ha il compito di consentire al soggetto dell’inconscio di sperimentare un ‘godimento’ che, a causa di conflitto intrapsichico, è stato precedentemente interdetto. La parola ‘sbagliata’, di conseguenza, garantisce una soddisfazione che l’io avrebbe, per motivi vari, considerato ‘illecita’. Il lapsus – come il sintomo, del resto – assicura, in questa logica, l’appagamento do quell’istanza inconscia che risulta in aperto contrasto con le esigenze della realtà o del superio. Il sogno – all’interno della stessa prospettiva – altro non è che un linguaggio ‘speciale’ sul quale si proiettano, in maniera camuffata, per l’appunto, i contenuti che la coscienza non tollera e che, in tal modo, una volta mascherati e criptati, potranno trovare soddisfazione.
Ma non è questo, a mio parere, il versante dell’inconscio che ne definisce il suo cotè reale. Una tale considerazione dell’operazione di cifratura (sebbene connetta inconscio e godimento e, di conseguenza, inconscio e reale) non risulta, infatti, in piena sintonia con l’affermazione di Lacan che stiamo commentando. La cifratura intesa come manovra inconscia che consente un godimento altrimenti vietato (versione che, ripeto, è la più affermata in campo psicoanalitico) è – bisogna esser chiari – un’operazione inscritta nell’ordine dell’utile. Lo ribadisco: l’idea che l’inconscio ‘serva a godere’, che serva, cioè, ad ottenere una soddisfazione altrimenti impedita è la dimostrazione più convincente di una visione utilitaristica dell’inconscio, che contraddice la tesi di Lacan di cui ci stiamo occupando. Contrasto che, probabilmente, risulterà più chiaro se facciamo riferimento ad un altro passaggio dell’insegnamento di Lacan di quegli stessi anni: mi riferisco ad una folgorante espressione che troviamo nella Introduzione all’edizione tedesca di un primo volume degli Scritti  (comparsa in Italia all’interno di Altri Scritti). Scrive Lacan: “al di fuori di ciò che serve, c’è il godere”. Questa affermazione sgombra il campo da ogni possibile confusione tra i due concetti. Il godere – dice Lacan – è al di fuori di ciò che serve. Godimento (reale) ed utile sono termini che si escludono a vicenda. Il godimento non è vantaggioso, in nessun modo e in nessun senso.
Ecco, allora, delineata in maniera incontrovertibile, l’impossibile sovrapponibilità del concetto di utile e di quello di godimento. Il godimento è fuori dalla logica dell’utile, fuori dalla logica del piacere, del tornaconto, del profitto, estraneo ad ogni forma di finalismo. Non può, a rigore, costituire il fine di un’azione, in quanto è avulso da ogni teleologia (che suppone un’azione, dunque un agente ed uno scopo). L’idea che l’inconscio serva a godere implica, inoltre, che ci sia un soggetto che, attraverso il lavoro dell’inconscio, per l’appunto, goda; che esista un’istanza soggettiva che possa godere mediante l’inconscio (il che – e la clinica lo dimostra senza alcun dubbio – è del tutto improbabile: come sappiamo, il godimento annulla il soggetto). Il godimento sarebbe, in tal senso, un qualcosa di ricercato dal soggetto, un obiettivo, uno scopo verso il quale tendere. Ma il finalismo implicito in questa accezione di inconscio non è di fatto compatibile con il registro del reale (che è al di fuori di qualsiasi rimando ad un progetto, ad un calcolo, ad un proposito). Pensare che l’inconscio sia reale perché, attraverso le sue formazioni, ‘serve a godere’ è, pertanto, scorretto e logicamente insostenibile. Voglio precisare ulteriormente questo passaggio: che l’inconscio serva a godere è l’esperienza clinica che innegabilmente ogni analista incontra nell’ascoltare i propri pazienti. Ma il godimento che l’inconscio garantisce attraverso le sue manifestazioni è un godimento intrinseco all’ordine dell’utile che, non a caso, Sigmund Freud definì ‘tornaconto’ (primario o secondario, poco importa). Dunque, un concetto di godimento che ha a che fare con il registro dell’utile, del guadagno, dell’economico: con una struttura significante, pertanto, che è quella del calcolo, del profitto, del conteggio. Un godimento – si potrebbe affermare – che il principio di piacere ha, in una qualche misura, temperato.
Ma il godimento al quale Lacan allude nei primi anni ’70 non è il resto del trattamento simbolico del vivente. Il godimento, ora, non è più considerato come eccentrico al linguaggio, ma, viceversa,  è pensato al suo interno, il suo risvolto, ad esso intrecciato in maniera inestricabile. Tanto che – come abbiamo già avuto modo di sottolineare – è insito nell’operazione stessa di cifratura (che è, del resto, l’operazione fondamentale di significantizzazione dell’esistenza). La cifratura è essa stessa godimento: questa è l’innovazione che Lacan apporta alla sua teoria. Il godimento, per dirla in un altro modo ancora, non sta solo nel ‘cifrato’ (ovvero, nelle formazioni dell’inconscio attraverso le quali il soggetto – dell’inconscio – si soddisfa) ma nell’atto stesso del cifrare, nel suo svolgersi, nel suo compiersi. Nel seminario Les non dupes errent, nella lezione del 20 novembre 1973, Lacan lo afferma una volta di più: “l’operazione di cifratura è fatta per il godimento: le cose sono fatte affinché nella cifratura ci si guadagni quel qualcosa che è l’essenziale del processo primario e cioè il Lustgewinn” L’operazione in sé è un’operazione di godimento: un più-di-godimento – aggiungerà Lacan. E come tale, non presuppone un soggetto ma, eventualmente, lo produce. Come si può notare, si tratta di un cambio radicale di prospettiva. Il godimento sta interamente nella cifratura, nella traduzione dei dati originari in dati significanti. Un godimento del cifrare, dunque, un godimento nel cifrare. Come potete notare, la questione è davvero problematica: come concepire il godimento della cifratura? Del funzionamento della macchina cifrante (e non del prodotto del suo funzionamento)? Che senso attribuire a questa soddisfazione che si produce nel lavoro stesso del tradurre un determinato dato in un dato che appartiene ad un altro registro. Si tratta, a ben vedere, di qualcosa che già Freud aveva intravisto quando, nel supplemento del 1925 a L’interpretazione dei sogni, nella parte dedicata ai limiti dell’interpretabilità, aveva sostenuto che ”le nostre attività intellettuali tendono sia verso uno scopo utilitaristico, sia verso un guadagno immediato [il raggiungimento del piacere. N.d.a.]”. Fate attenzione a questo passaggio: Freud stesso ci parla di una disgiunzione tra l’ordine dell’utile e l’ordine del ‘guadagno immediato’. Un guadagno immediato, interno al processo di traduzione: particolarmente evidente nell’attività del sognare, rappresentazione emblematica della cifratura inconscia che coincide (salvaguardandolo) con il ‘dormire’ (con il godimento immediato – e protetto dal sognare, per l’appunto – dell’apparato). Si vede bene, in questo caso, come criptazione e godimento (sognare e riposare) siano funzioni inscindibili, indistinguibili. Il godimento del sognare coincide con il godimento del dormire.
Ma facciamo un passo in avanti. Lacan ci dice che si tratta del godimento di un apparato, di una macchina, di un dispositivo che fabbrica sapere (nel caso del sognare, ‘confeziona’ sogni), che gode (cioè, si attiva e si rinforza in maniera chiusa e autoreferenziale) nel generare, incessantemente, un sapere. Visto da tale angolatura, l’inconscio è creazione impersonale, automatica e desoggettivata di sapere. È costruzione di un sapere (dunque, di un sistema significante) a partire da elementi ad esso estranei, produzione (e accumulazione) di cui la macchina inconscia gode. Si potrebbe dire che l’inconscio trasforma il non-significante in significante: questo è il suo effettivo (e misterioso) tornaconto. O meglio: trasforma il non-ancora-significante-per-il-soggetto in significante (dunque, per un soggetto). Trasferisce, per essere ancora più precisi, sul piano del significante ciò che ancora non lo è.
Di tale operazione di traduzione, possiamo ipotizzare due letture. La prima è più ‘freudiana’: si tratta della traduzione del dato quantitativo in dato qualitativo, ovvero, dello stato di eccitazione dell’apparato (tensione o quiete) in un vissuto (di piacere o di dispiacere). Facendo riferimento al testo Progetto di una psicologia, la traduzione riguarderebbe la trasformazione del dato percepito (e dei suoi effetti sul corpo) in un dato pensabile, in un fatto psichico: dell’energia prodotta dalla forza dell’evento, in rappresentazione: della traccia causata dall’impatto dell’evento percepito, in significante elementare, capace di denotare una caratteristica specifica di quel determinato evento. L’inconscio è, per il Freud del Progetto, il luogo nel quale il segno di percezione (l’impronta lasciata ‘tipograficamente’ dall’evento) si trasforma in un primo elemento psichico. Freud, non a caso, parla di ‘processo primario’: primario nel senso che è all’origine del pensiero, della possibilità di giudizio (di attribuzione e di esistenza) sull’oggetto percepito. E sarà proprio questo giudizio, questo primo tratto significante, a cancellare la traccia: la rimozione originaria consiste esattamente in questa primitiva Aufhebung dell’evento al cui posto (e in memoria del quale) sorgerà la rappresentazione. Il simbolo uccide la cosa – così Lacan riprenderà, attraverso Hegel, la lezione di Freud. Un significante al posto dell’oggetto, dunque: si tratta di un significante speciale, quello che Lacan, nel Seminario IX, definisce il significante più semplice, quello che viene prima del Verbo, quello che è all’inizio, il significante nella sua funzione elementare: il tratto unario, l’S1 che il vivente estrae, sceglie, preleva dalla moltitudine di S1 che popolano – in maniera indifferenziata – il mondo del neonato, il mondo che Lacan chiamerà lalangue. L’inconscio, allora, in questa prima versione più freudiana, è il lavoro di traduzione dell’esperienza libidica (che imprime tracce sull’apparato neuronale) in primo elemento significante, in tratto unario inconscio che tale resterà ad orientare la vita del futuro soggetto. Un lavoro che accompagnerà il soggetto per tutta la sua esistenza, destinato a ripetere senza sosta l’associazione tra impressioni libidiche (effetti di godimento del corpo) a significanti, e la loro connessione inversa, ovvero, di scatenamento di effetti di godimento del corpo causati, questa volta, dai significanti precedentemente associati ad essi.
Il caso di Michele sembra rappresentare bene questa situazione: si tratta di un ragazzo di ventisette anni, che si rivolge a me per un profondo stato di inibizione che riguarda gli studi, la socialità, il desiderio in senso lato. Il suo pensiero ruminante gira costantemente intorno allo stesso tema: ‘sono un fallito’. Si descrive come timido, introverso, diverso dagli altri (‘non mi piace il calcio’), pigro, introspettivo, solitario sin da bambino: dotato dal punto di vista intellettivo (tutti, in famiglia, hanno avuto grandi aspettative) ma totalmente bloccato sul piano delle relazioni. Nasce dieci anni dopo sua sorella, da una madre oramai quarantenne che, a causa di un’amniocentesi, rischia di perderlo. Nasce prematuro e trascorre i primi tre mesi di vita in incubatrice. Primo maschio dell’intera famiglia, cresce in un clima di amore sconfinato, in particolar modo da parte di sua madre (donna – mi dice Michele – delusa dal marito). Nel corso dell’analisi, emergono alcuni ricordi che sono per lui ‘enigmatici’: non comprende, ad esempio, perché a tre anni, all’asilo, giocava sempre con la cucina, giocava a ‘fare la spesa’ (e non si interessava alle attività nelle quali erano coinvolti i suoi compagni). A cinque anni – ed è un ricordo che davvero non sa spiegarsi – si fa comprare un passeggino giocattolo, con il quale porterà a spasso i suoi soldatini. A sei anni circa, scopre il piacere della masturbazione: ma anche la disapprovazione di sua madre, la quale gli dirà che ‘non si gioca con il pisellino’ (frase che, in qualche modo, segnerà il suo destino virginale). A otto anni, sorprendentemente, una compagna della sua classe rifiuta il suo ‘amore’: esperienza umiliante, sconosciuta. Sviluppa, come risarcimento narcisistico, la fantasia di diventare ricco come zio Paperone e ‘nuotare nell’oro della sua cassaforte’ (sceglierà, peraltro, di iscriversi ad una facoltà universitaria a indirizzo economico). A tredici anni, consiglia al padre di fare alcuni investimenti di denaro in azioni che ha scoperto essere vantaggiose in siti appositi (che lui regolarmente frequenta su Internet). Nello stesso anno, ha la prima polluzione, masturbandosi mentre guarda le foto di donne in mutande su Postal Market: è per lui un trauma. Sviluppa una fortissima fobia per lo sporco, talmente grave che sua madre, preoccupatissima, lo porta in psicoterapia. A seguito di questo evento – e dopo un lungo periodo di ‘astinenza’ dalla masturbazione – inizia a cercare foto di uomini in mutande. Non sa se sono le donne o gli uomini ad attrarlo: forse entrambi, forse nessuno, mi dice. Nelle ultime sedute, mi racconta del clima speciale che ha respirato nella sua prima infanzia: affiorano ricordi confusi, nei quali, tuttavia, prevale un’atmosfera di coccole, di carezze, di sguardi teneri, di ‘elettricità’ (così la definisce) che lo attraversava quando era con sua madre. Si tratta di un ricordo che ha a che fare con la posizione speciale che ha occupato nel desiderio materno: “mi pettinava, mi spogliava, mi vestiva, mi lavava”, dice in una seduta nella quale appare con chiarezza la particolare cura del corpo (e del piacere ad esso connesso) alla quale la madre si dedicava. Questo – potremmo dire – è il marchio libidico che l’ha segnato: è questo il significante materno che l’ha ‘percosso’, è questa l’alluvione di godimento di cui è stato oggetto (e che riaffiora come confusa sensazione di calore, di piacere diffuso, di beatitudine perduta). Ed è interessante notare come questo marchio di godimento si sia tradotto in un significante speciale che emerge nel corso di una seduta, quando, gli sfugge un’espressione di cui lui stesso si stupisce: “mi trattava come una bambola”. Espressione al femminile, innanzitutto, che designa un S1 (la bambola) che riassume in sé – cancellandola – la traccia libidica dell’incontro con il suo Nebenmensh. Lui è la bambola, dunque, un oggetto, un oggetto che non può, per definizione, avere un desiderio, un oggetto, in più, asessuato, o meglio, indefinito, dal punto di vista sessuale. Né maschio, né femmina: bambola è il significante della lingua materna che l’inconscio di Michele ha ‘scelto’, fondandolo, nell’evanescenza della fondazione stessa, come soggetto.
Andiamo ora alla seconda lettura, che, forse, il caso di Michele ci aiuta a comprendere più facilmente: Lacan, infatti, si spinge più in là di Freud – o meglio, per essere più precisi, mette in evidenza quegli aspetti dell’elaborazione di Freud che, per lo stesso Freud, erano rimasti in ombra: “l’inconscio – afferma Lacan nel Seminario XX – è un sapere, un saper fare con lalangue”. Ecco l’avanzamento del ragionamento di Lacan, che sposta l’asse concettuale in un campo preciso dell’esperienza umana. L’inconscio è si un sapere – questo lo avevamo già considerato – ma è un sapere particolare, un ‘saperci’ fare con lalangue. “Il sapere, in quanto riposa nella dimora di lalangue – continua Lacan – vuol dire l’inconscio”. Come si può notare, vi è una quasi totale coincidenza tra inconscio e lalangue. “L’inconscio, vale a dire lalingua”, aggiungerà Lacan, a sottolineare la sovrapponibilità dei due concetti. Se dunque l’inconscio è un lavoro di cifratura e se, come abbiamo appena visto, l’inconscio coincide con lalangue, allora, il lavoro di cifratura – quello del quale stiamo cercando una definizione – è il saper fare con lalangue. La cifratura dell’inconscio di cui l’inconscio gode è, dunque, l’operazione di traduzione del materiale significante asemantico che costituisce lalangue, in elemento significante differenziale: è la traduzione degli effetti-affetti determinati dalla materialità sonora delle parole (prima che esse acquisiscano un senso), dalla loro melodia, tonalità, ritmo, dai gesti, dalle espressioni corporee, dal contatto visivo, dalle impressioni propriocettive, dal contatto corporeo, da tutte quelle cose che si articolano all’interno di lalangue (interessante, a questo riguardo, è l’espressione di Lacan nel Seminario XX a pagina 133: “lalingua articola cose”), in un primo significante, in un significante speciale, in un S1 che assorbe in sé il valore libidico dell’esperienza alla quale è associato, in un significante – potremmo dire – impregnato di godimento. L’inconscio è, pertanto, il lavoro di cifratura implicato nella dimensione aurorale di lalangue, dimensione che resterà come sottofondo ineliminabile del linguaggio (e che, dunque, impegnerà il soggetto in una costante e interminabile opera di cifratura). In questa prospettiva, acquista un senso chiaro anche la nota espressione di Freud che troviamo nel commento al caso dell’uomo dei topi: “l’inconscio è l’infantile”. L’inconscio, cioè, lungi dall’essere l’informe, il non ancora maturato, ciò che deve essere bonificato dai suoi precedenti istintuali (visione che la psicoanalisi postfreudiana ha sviluppato in maniera, a mio avviso, scorretta), è il lavoro che fa l’infans, colui che ancora non parla, colui che, pur essendo nel significante, non ne coglie ancora la struttura (e, di conseguenza, il senso). Lavoro che concerne la traduzione in significante di tutto ciò che sfugge al significante (e che pertanto persevera nell’esistenza di ognuno ben oltre il periodo dell’infanzia): lavoro di cifratura che è già di per sé – lo ripeto – godimento.
L’inconscio è reale perché consiste nella cifratura di lalangue, perché è il lavoro di traduzione del reale di lalangue. In lalangue, cifratura e godimento convergono: l’estrazione dalla massa indifferenziata di “quanto concerne il significante” è uno dei modi per dire l’operazione di cifratura. Si tratta – aggiunge letteralmente Lacan – di introdurre “la differenza in quanto tale” nel campo di lalangue. Un campo che è attraversato da correnti libidiche, da effetti di godimento, da impressioni affettive. Cifratura del godimento e godimento della cifratura sono, in altre parole, un tutt’uno, due aspetti della medesima questione. Per esser più precisi, il lavoro di cifratura dell’inconscio può essere concepito come il lavoro di trasferimento del godimento di cui il vivente è originariamente oggetto, in una ‘scena’ nella quale tale posizione diventa a sua volta garanzia di un appagamento libidico possibile (questa volta, come soggetto): il diveniente soggetto preleva un S1 dal ronzio, dal mormorio, dallo sciame di lalangue, e di questo S1 ne fa la causa della sua soddisfazione pulsionale. La costruzione del fantasma risponde precisamente a questa logica: trasformare S1 nell’oggetto piccolo a e metterlo ‘al servizio’ del soggetto, fare di quella iscrizione originaria, del marchio di lalangue, dell’S1 (che, in epoche diverse, Lacan definirà tratto unario o significante unario), cioè, della primitiva e inevitabile marchiatura che lo ha visto oggetto, la causa di un godimento inconscio. Il lavoro di cifratura dell’inconscio – si potrebbe affermare – consiste, in sostanza, nel fare di S1 (che designa la primitiva posizione di oggetto del vivente) la condizione del godimento del futuro soggetto dell’inconscio (a).
In chiusura, una brevissima vignetta clinica, tra le tante che mi hanno aiutato a formulare le considerazioni che vi ho presentato. Si tratta di Marina, una ragazza di ventiquattro anni, arrivata nel mio studio dopo due anni e mezzo di comunità di recupero per persone con doppia diagnosi. Dopo che in analisi ha trascorso più di un anno a cercare di riequilibrare e mettere ordine nella sua vita – gravemente scossa da dipendenze rovinose da sostanze stupefacenti e da pratiche sessuali sregolate e pericolose – porta in seduta il tema delicato delle proprie fantasie erotiche, centrate sull’esser dominata, picchiata e insultata con violenza. Fantasie che ha agito nella realtà sin da adolescente e che si sono materializzate in rapporti nei quali le sue pressanti richieste di maltrattamento fisico hanno, a volte, spaventato gli occasionali partner. Marina è preoccupata di questo aspetto della sua sessualità che – ne è cosciente – non solo le impedisce relazioni stabili ma che, soprattutto, la mette in situazioni assai rischiose. Eppure – mi dice con un tono di sconsolata rassegnazione – non può che fantasticare di ‘farsi far male’, di convincere l’eventuale uomo a schiaffeggiarla con prepotenza, a percuoterla con forza, ad offenderla ed umiliarla. ‘Farsi far male’ è la condizione dell’orgasmo, ciò che infiamma il suo desiderio, la situazione che, quando si realizza, la fa sentire ‘a casa’, paradossalmente ‘al sicuro’. Le sembra la cosa più naturale, più familiare, più rassicurante. Non ne capisce il motivo, ma non ha dubbi: solo quando qualcuno le fa male (su sua richiesta, beninteso) lei si sente protetta, si sente di esistere, di consistere. Non sa dire altro.
Quando, poi, spaventata per i lividi sul volto di Marina, sua madre mi chiede un appuntamento per parlarmi della sua preoccupazione per l’attuale rapporto della figlia con un uomo di 25 anni più grande di lei (tossicodipendente e dedito al gioco d’azzardo), vengo a sapere alcuni dettagli fondamentali dei primi mesi di vita di Marina. La madre mi racconta di avere avuto una fortissima depressione postpartum, che le ha impedito di stabilire un legame sereno con la neonata: ricorda che non sapeva come prendersene cura, come cambiarla, come allattarla, come consolarla quando piangeva. “Avevo sempre il terrore di farle del male” – mi dice – “e Dio solo sa quante volte l’ho fatta piangere perché magari ero stata involontariamente manesca…”.
La paura di ‘farle male’ ha costituito il sottofondo affettivo della lingua materna: è questo S1 che, evidentemente, Marina, a sua insaputa, ha prelevato dal suo Altro. Un S1 particolare, che significantizza e designa la sua inaugurale posizione di oggetto (dell’azione materna maldestra, goffa, ai limiti dell’incuria e della, seppur involontaria, brutalità). ‘Farle del male’ è, nelle parole della madre, il significante circolato nella loro relazione. È chiaro, allora, come nella storia di Marina, questo S1 (il tratto unario che costituirà la sua identificazione fondamentale) sia diventato l’oggetto causa del desiderio, l’oggetto piccolo a che, nella costruzione del suo fantasma, diventerà, a tutti gli effetti, la condizione (e garanzia) del suo godimento inconscio.

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