IL PERDURANTE “ENIGMA” DELL’EMPATIA

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27 febbraio, 2020 - 04:10

Quello di “Empatia” è uno dei concetti più frequentemente incontrati in Psicologia e in Psicopatologia, oltre che, ormai, nel linguaggio comune. E’ al contempo tra i più sfuggenti e ambigui, invocato, nella sua accezione più radicale, per dar conto di quel fenomeno fondamentale che è il sentire l’altro da sé, ovvero del movimento attraverso il quale la coscienza soggettiva si trascende, ovvero si proietta oltre di sé nell’incontro con l’altro.

Il corrispondente e originario termine tedesco, Einfühlung (propriamente “immedesimazione”), si trova adoperato prima da Herder e da Novalis, poi ripreso da Robert Vischer, ma diffuso specialmente da Theodor Lipps, che lo utilizzò per chiarire la natura dell’esperienza estetica (Aesthetik, 1914).

La conoscenza degli altri “Io”, per Lipps, avverrebbe attraverso la proiezione, in un altro essere, di uno stato emotivo richiamato nel soggetto dalla riproduzione imitativa dell’espressione corporea altrui. L’esperienza estetica, analogamente, consisterebbe nel proiettare nell’oggetto estetico emozioni propriamente umane. E’ suggestivo intravedere nelle teorizzazioni di Lipps un’anticipazione, in sede filosofico-estetica, delle visioni neuroscientifiche dei nostri giorni imperniate sui mirror neurons e sulla simulazione incarnata. Ma queste ultime non danno conto del ”cosa è” l’Empatia, concetto dato in questi modelli per accettato in partenza e poi, come dire, “agganciato” a un meccanismo che è quello dei neuroni specchio, ma riguardano più il come dell’empatia (il come-è-possibile-che-accada). L’Empatia come fondamento della capacità della coscienza di essere sempre coscienza-di-qualcosa, ovvero di trascendersi costitutivamente, rimane, a parere di chi scrive, un mistero o comunque, al minimo, un concetto ricco di aporie.

Definita nel Trattato Italiano di Psichiatria “evanescente concetto […] attraverso cui si può comprendere l’intimità del soggetto utilizzando la propria esperienza interiore”, essa sembra insomma rispondere a un enigma ponendosi a propria volta come enigma.

 


 

Per Ey, Bernard e Brisset l’esame psichiatrico tende all’incontro comprensivo, portato a chiarire sempre più in cosa consista questa sorta di intuizione, “di empatia, di comprensione dell’intimità del soggetto attraverso la sua esperienza intima”.

Già in queste brevi definizioni possiamo scorgere quei caratteri che possono portare a sostenere la seguente tesi: il concetto di empatia, nella sua accezione più comune, si pone come un ponte di natura intuitivo-affettiva che debba poter consentire a un Soggetto dato primariamente come isolato, cioè senza mondo e senza l’altro, di effettuare un salto “fuori-di-sé” per raggiungere l’Oggetto, muovendo tuttavia e comunque da una propria esperienza interiore senza la quale questo altro/oggetto  sarebbe altrimenti irraggiungibile.

Il Soggetto così connotato, che si avvale di uno strumento di tal sorta denominato “empatia”, è ancora il Soggetto del cogito cartesiano; un Soggetto filosoficamente piuttosto invecchiato, a dir la verità.

Per sostenere questa tesi mi avvarrò della critica al concetto di Empatia che Martin Heidegger (1927) accenna in alcune pagine della prima parte di “Essere e Tempo” (nella sezione della Analitica Esistenziale); ma prima di addentrarci in un terreno per noi più impervio è forse utile delineare un breve excursus delle teorizzazioni che si rintracciano a riguardo in ambito psicodinamico.

 

L’empatia nelle teorizzazioni psicodinamiche.

La psicologia e la psichiatria dinamica sembrano, almeno nelle loro teorizzazioni più tradizionali, rappresentare uno dei luoghi elettivi della tematizzazione di questo “affrontarsi” (stare di fronte) di Soggetto e Oggetto, di Soggetto e mondo esterno, dati innanzitutto come separati, come entità “monadologiche” nella loro struttura di partenza e solo successivamente in relazione, magari mediante scambi di “oggetti” (pensiamo alla identificazione  e alla controidentificazione proiettiva nello schema di Ogden) che sono trasferiti nel l’altro. Due enti perciò preliminarmente “chiusi” che superano lo spazio che li separa tramite ponti di vario genere.

Non è un caso forse che identificazione proiettiva ed empatia talvolta si confondano o che comunque abbiano aree d’indubbia sovrapposizione concettuale, tanto che per Hinshelwood (1989) l’empatia è considerabile una forma benigna o normale di identificazione proiettiva e per Steiner (1993) quest’ultima, dal canto suo, rappresenta un meccanismo essenziale di qualsiasi comunicazione empatica. La differenza starebbe per Bion (1959, 1962) nel controllo operato dal soggetto sull’oggetto, essendo esso trascurabile nell’empatia e invece prevalente nell’identificazione proiettiva patologica.

 


 

Gabbard (2000), sottolineando come tutte le teorie psicoanalitiche siano basate su una logica evolutiva, nota anche come le stesse si siano spostate dall’enfasi pulsionale, dalle costellazioni difensive e dal conflitto intrapsichico all’interesse verso il Sé, l’oggetto e le relazioni. Sembrerebbe dunque che la Psicoanalisi si sia davvero avvicinata sempre più a una concezione interpersonale, fino alla definizione del concetto di “intersoggettività” assunto dalle tendenze postmoderne. Dal soggetto freudiano inizialmente chiuso nella sua vicenda pulsionale solitaria la cui economia è tutta interna tendendo alla mera scarica energetica, con la Teoria delle Relazioni Oggettuali si è assistito all’inizio di una sorta di viaggio verso l’oggetto, intendendo che le pulsioni emergano sempre nel contesto di una relazione, che esse siano innanzitutto alla ricerca dell’oggetto (Fairbairn, 1951). Portandosi oltre, attraverso la Psicologia del Sé di Heinz Kohut fino alle prospettive postmoderne, la Psicoanalisi può arrivare a posizioni assai avanzate quali quelle di Storolow e Atwood (1992), che definiscono mitologica l’idea dell’isolamento della mente. Si giungerebbe dunque anche nell’ambito della psicologia psicodinamica al superamento della divaricazione Soggetto-Oggetto? Ciò che abbiamo denotato come cammino verso l’oggetto e con la dizione stessa di intersoggettività, al di là di conferire maggior valore specifico al cosiddetto “oggetto” o di elevarlo al rango di “altro soggetto”, muove davvero in direzione di un superamento di quella distanza ontologica data innanzitutto, implicitamente, prima di qualsiasi “scambio” di natura psicologica?

 


 

Le locuzioni “verso” e “inter-“ testimoniano - le parole per lo più parlano per noi -, a mio parere, del permanere, al fondo di tali concettualizzazioni, di uno schema essenzialmente cartesiano. Nel concetto di inter-soggettività ciò che sembra essenziale è, per così dire, una sorta di rivolta “democratica” dell’Oggetto (già semanticamente politically uncorrect, con le sue risonanze reificanti e strumentali) che, dalla sua costitutiva posizione d’inferiorità e di ricettacolo dell’azione del Soggetto, sembra riconquistarsi alla sostanzialità potenzialmente attiva di soggetto a sua volta. Rimane tuttavia l’esigenza di un “frammezzo”, di un movimento-ponte fra due enti riconosciuti paritari, certo, ma pur sempre, preliminarmente, dati come isolati uno rispetto all’altro. L’inter-soggettività intende forse alludere più decisamente all’annullamento dell’asimmetria e dello scarto fra soggetto e mondo, fra soggetto e altro, ma si dibatte in un vocabolario difficilmente aggirabile e consolidato che non riesce a prescindere dal concetto di “soggetto” cartesiano (che invece la filosofia contemporanea ha da tempo pressoché superato o al minimo ridimensionato e proprio Heidegger ha dovuto inventare un vocabolario e un linguaggio nuovi per attuare l’opera di superamento del paradigma cartesiano). Nel linguaggio infatti riposa una concezione del mondo e dell’essere già data, già pre-assunta con il linguaggio stesso, inesplicita ma, nondimeno, condizionante.

Pensiamo alle teorizzazioni riguardanti la psicogenesi come progressiva emersione da uno stato di ripiegamento autistico e di isolamento primario. Di tal fatta appare lo schema evolutivo proposto da Mahler e collaboratori (1975) basato su uno studio osservativo dei bambini e delle coppie madre-bambino. L’autismo è qui concepito come fatto originario non difettivo, appunto “primario”, da cui bisognerebbe poi emergere, prima in una dimensione simbiotica legata con la principale figura di accudimento,  e quindi di solito la madre, e poi finalmente oggettuale, attraverso il cosiddetto processo di separazione-individuazione. Ancora a proposito della costante necessità di rinvenire “oggetti-ponte” tra enti dati come originariamente isolati in sede ontologica (seppure, ripetiamo, non esplicita), potremmo citare l’esemplificativo concetto di oggetto transizionale, in cui la transizione cui si allude è ancora quella attraverso il guado che separerebbe il soggetto che s’individua e l’oggetto (altro soggetto).

Se già la prospettiva kohutiana aveva messo in discussione l’enfasi posta dalla Mahler sulla separazione-individuazione, gli studi osservativi di Stern (1985, 1989) sui bambini lo convinsero che essi non verrebbero alla luce in uno stato di ripiegamento autistico, ma addirittura già al primo giorno di vita sarebbero consapevoli della madre o dell’agente di cura, sviluppando un senso di sé-con-l’altro. Il primo a emergere sarebbe un Sé prevalentemente corporeo, fisiologicamente fondato, e per ultimo un senso di Sé narrativo. Queste considerazioni e queste terminologie, insieme al concetto di un sistema diadico tra la madre e il bambino che produrrebbe l’interiorizzazione del Sé-in-relazione-all’oggetto, testimoniano tuttavia, anche al fondo dello schema evolutivo tracciato da Stern, del persistere di una configurazione fondamentale di tipo cartesiano in cui il primum movens rimane un soggetto-ambiente-interno che deve accogliere o al più scambiare oggetti con un mondo-ambiente-esterno, al di là di quanto precocemente nel tempo venga collocato questo rivolgersi “fuori-di-sé”. E’ la dialettica interno/esterno, è l’interiorizzazione in quanto “portare dentro” oggetti, che rimandano a quella configurazione a cui Heidegger, in Essere e Tempo, nella sua analitica esistenziale, ha offerto un’alternativa visuale ponendo, al posto del Soggetto così dato, l’Esserci come co-originaria apertura dell’essere-nel-mondo.

 


 

“Critica dell’empatia pura” in Essere e Tempo.

Occorre, per cogliere pienamente la posizione di Heidegger sull’Empatia, fare brevemente riferimento ad alcuni non agevoli argomenti della sua riflessione.

Per il filosofo tedesco la visione scientifica occidentale, estremo compimento in realtà di una lunga tradizione metafisica che risale alla Grecia antica e che identifica l’essere con l’essere semplicemente-presente degli enti, quindi con la totalità degli enti presenti e con la loro sussistenza in quel modo del tempo da questa tradizione considerato come unico dotato di realtà, vale a dire il presente, tematizza di conseguenza l’altro solo a partire dalla sua “oggettificazione” e dalla sua “presentificazione”. A partire cioè da uno “stare di fronte” a un Soggetto-monade-pensante (l’ego cogito), il quale solo successivamente, per così dire, scavalcherebbe il fossato ontologico (prima che psico-logico) che lo separa da ciò che è “fuori da” esso, per raggiungere l’Oggetto (il mondo e gli altri).

L’Empatia sembrerebbe proporsi come il ponte di cui si parla. Lo sarebbe, potremmo dire come già accennato, anche un meccanismo come l’identificazione proiettiva, non a caso elevata da mero meccanismo di difesa al rango di fenomeno comunicativo e rivelativo fra chi proietta e chi s’identifica con la proiezione ricevuta.

Il Soggetto come entità monadologica che deve oltrepassare mediante un salto questo fossato che lo separa dall’altro/uomo e dall’altro/mondo, il Soggetto dato dapprima e innanzitutto come isolato e che deve fare un salto dall’«in sè» della coscienza al «fuori di sé» della realtà, detta non a caso “esterna”, è, come anticipato, il Soggetto cartesiano. E’ il Soggetto del cogito ergo sum.

Le cogitationes sono proprio quei fenomeni riconducibili a una res cogitans, inizialmente priva di mondo e sussistente solo in se stessa, che è l’ego. Questa sola è infatti, secondo lo schema cartesiano, la realtà indubitabile, in quanto essa sola ha per così dire la capacità di fare da fondamento all’ergo, vale a dire al “dunque” dell’essere.

Cogito ergo sum: c’è “essere” (piuttosto che il nulla) in quanto, prima di tutto, c’è un “Io” pensante che assicura la sussistenza dell’essere e da cui si può spiccare il salto verso la res extensa.

Ebbene, questa gerarchia a rischio di solipsismo del cogito cartesiano bisbiglia ancora in molte delle nostre concezioni riguardo al rapporto fra l’”Io” e l’”altro” e fra l’”Io” e il “mondo”, ovvero tra il Soggetto e l’Oggetto, categorie perlomeno ridimensionate nel dibattito filosofico contemporaneo, ma più che vive, se non prevalenti, nel linguaggio e nel pensiero psicologico e psicopatologico. A questa predestinazione cartesiana non sfugge il concetto di Empatia, o perlomeno alcune delle sue accezioni, dato che esso si presenta, come già detto, “evanescente” e polisemico.

Per Heidegger, invece, dell’Esserci (termine con cui si designa l’uomo nella sua costituzione essenziale) è appunto fondante il rapporto di comprensione da egli intrattenuto nei confronti del proprio essere stesso. Detta altrimenti, l’Esserci è quell’ente che ha nella sua costituzione fondamentale il porsi la domanda sul senso dell’essere, dimostrando, con questo stesso domandare, un rapporto originario col problema della comprensione dell’essere. Ma altrettanto costitutivo dell’Esserci è il con-essere (Mit-sein), vale a dire che la comprensione dell’essere, propria dell’Esserci, include strutturalmente la comprensione degli altri.

La conoscenza reciproca si fonda nel con-essere e nella sua comprensione originaria.” Per Heidegger, cioè, la comprensione degli altri è un fatto originario, costituente, e solo successivamente, nella tematizzazione teoretico-psicologica, essa diventa un fenomeno definito “comprensione della vita psichica altrui” e denominata, “non certo felicemente”, empatia.

Per il filosofo di Friburgo il fenomeno originario non è quella “comprensione della vita psichica altrui” che viene chiamata “Empatia”, ma originario è l’essere-assieme comprendente, lo strutturale e fondante con-essere (o essere-con) che rende possibile una cosa chiamata Empatia. E’ quindi un’inversione gerarchica quella operata da Heidegger: non è l’empatia a rendere possibile l’incontro con l’altro (poiché essa è invece fenomeno derivativo, secondario) ma è la struttura ontologica dell’Esserci come originario essere-con a fondare, anzi a essere radicalmente coincidente con quella possibilità.

Il porre l’empatia come ciò che rende possibile sperimentare il sentire altrui e comprenderne la vita psichica significherebbe invece operare un fondamentale travisamento di quella costituzione originariamente “con” dell’Esserci, attribuire a un fenomeno considerato di natura psicologica (e non ontologica, come è invece l’originario con-essere) il compito di “gettare un ponte ontologico tra il proprio soggetto, dato innanzi tutto da solo, e l’altro soggetto, a sua volta innanzi tutto chiuso”. Seguendo Heidegger invece, essendo l’Esserci essenzialmente essere-nel-mondo, l’altro da sé e il mondo, non meno essenzialmente, «ci» sono già, ovvero sono co-originari all’essere stesso dell’Esserci, vale a dire del soggetto reale effettivo e non di quello “fantasticamente” postulato per rendere ragione dello stare della coscienza di fronte a un mondo e all’altro.

L’Esserci, in quanto essere-nel-mondo, è già da sempre con l’altro.

La comunicazione, articolazione di questo originario essere-assieme-comprendente, non è, come comunemente intesa, un trasferimento di esperienze vissute dall’interno di un Soggetto (si ribadisce: dato innanzitutto come chiuso) all’interno di un altro, poiché il con-essere è già manifesto ab origine in quanto struttura ontologica. La “compartecipazione” è già prima ancora di essere afferrata ed espressa esplicitamente nel discorso. Sia il rivelarsi che, all’opposto, il chiudersi all’altro si fondano proprio nell’essere-assieme ed è sulla base di questo che sono anche possibili l’indifferenza nei suoi confronti e il trascurarlo, come modi difettivi che s’iscrivono in quella che Heidegger chiama esistenza inautentica.

Più in generale possiamo affermare che alle radici della “evanescenza” del concetto di empatia si situa il problema della giustificazione della costituzione del Soggetto e di una realtà a lui esterna, e quindi della giustificazione della presenza e della esperienza dell’Altro (spirito, persona) che in filosofia viene indicata appunto come “problema dell’altro”.

Non sembra possibile considerare con sufficienza o come flatus vocis tali questioni appellandosi a una generica immediatezza e a-problematicità dell’esperienza, in quanto, volenti o no, implicitamente o esplicitamente, esse si annunciano al fondo della problematicità di quel concetto che, in quanto espresso mediante una parola appartenente a un linguaggio integrato, importa con sé significati già dati, anche quando non esplicitamente colti o tematizzati.

L’analisi heideggeriana mostra in definitiva il carattere arbitrario del problema della giustificazione di una realtà “esterna” alla coscienza, giustificazione implicitamente e necessariamente richiesta invece dal cogito cartesiano. Essa mostra come tale problema sorga dal presupposto della tesi filosofica da egli ritenuta infondata di un’esistenza dell’uomo che non consista radicalmente e indefettibilmente nel rapporto con il mondo e con l’altro.

Il «ci» del termine Esser-ci indica proprio questa originaria apertura del mondo.

 
 


 

Jaspers o Heidegger?

Nella “Psicopatologia Generale” (1913), Karl Jaspers non utilizza esplicitamente il termine “empatia”, ma parla di “immedesimazione nell’altro” a proposito delle capacità di cui lo psicopatologo dovrebbe essere fornito. Tale immedesimazione consisterebbe nel “tentativo di autotrasformarsi pari a quello dell’attore che si immedesima nel personaggio pur restando se stesso”, nel “palpitare della propria anima all’unisono con le vicende altrui”, concetti che, come si vede, in vario modo sembrano avere oggettive assonanze con alcune delle accezioni più comuni del termine “empatia”. Ma lo stesso Jaspers avverte che possiamo renderci “obiettiva” l’anima altrui con immagini e metafore, ma che in realtà essa rimane l’onnicomprensivo (Umgreifend) “che  non diviene oggetto, ma dal quale ci provengono tutti i singoli elementi divenuti oggettivi”. Possiamo allora immaginare che l’impossibilità jaspersiana di far divenire “oggettivi” alcuni dei fenomeni “visti” attraverso l’empatia nel ben noto concetto di incomprensibilità o inderivabilità possa corrispondere a un limite posto alla stessa come strumento di conoscenza della “vita psichica altrui”. In questo caso per “conoscenza” intendiamo una “relazione d’essere”, come in Nicolai Hartmann, e non la conoscenza come mera asserzione, giudizio, adeguazione apofantica dell’intelletto all’oggetto del conoscere.

In Jaspers la propria esperienza interiore serve da trampolino di lancio verso l’esperienza altrui e potremmo perciò dedurre che senza di essa l’empatia non potrebbe semplicemente darsi, sulla base dell’assunto jaspersiano che noi potremmo riconoscere e ri-sperimentare dell’altro solo ciò che abbiamo già in noi come forma di esperienza vissuta, altrimenti il suo sentire ed esperire non potrebbero darsi che come scotoma, come punto cieco della comprensibilità. Questa impossibilità presunta (pre-assunta) da una tale concezione dell’empatia sembra poter dar conto del concetto jaspersiano di “incomprensibilità”, di “estraneità” irriducibile nell’incontro con l’altro psicotico, che, insieme al concetto correlativo di “processo”, costituisce l’ordinatore dell’esperienza delirante primaria. Se quanto argomentato sin qui è valido, Jaspers sembrerebbe a sua volta ricadere nell’implicita asserzione di un Soggetto innanzi tutto isolato, che solo successivamente incontra l’altro e il mondo e li incontra solo a partire dalla propria esperienza interiore.

 


 

Certo, Arnaldo Ballerini ci metteva in guardia da quello che egli considerava un fondamentale fraintendimento epistemico del concetto jaspersiano d’incomprensibilità, che andrebbe inteso a suo dire come limite dinamico, contesa palmo a palmo del terreno del comprendere più che sbarramento, argine invalicabile presso cui si arrenderebbe lo sforzo di immedesimazione. Tuttavia, a mio parere, per la sua tematizzazione complessa e polisemica, esso rimane un concetto suscettibile di tali fraintendimenti.

Ancora Ballerini afferma, a partire da Jaspers, che “ogni identificazione completa è fenomenologicamente un mito”; ma a me pare che anche il termine “identificazione” rimandi all’immagine di un soggetto senza-mondo, a una coscienza “in sé” che poi deve raggiungere l’altro attraverso un movimento (perché tale è e in quanto sembra dover coprire uno spazio vuoto frapposto) d’identificazione.

Per l’Heidegger di “Essere e Tempo”, di converso, non vi sono sponde al di qua e al di là di cui andare, guadi da attraversare per mezzo di Empatia e Identificazione, in quanto l’altro «ci» «è» già da sempre, consustanziale alla costituzione del Soggetto. Se è vero che Jaspers afferma che “l’anima è da considerare non come un oggetto con qualità peculiari, ma come essere nel suo mondo, come un tutto formato di un mondo interiore e di un mondo esteriore”, Heidegger sembra più radicale quando pone l’essere-nel-mondo come struttura unitaria dell’essere di quell’ente chiamato Esserci, e non appare casuale la differenza grafica fra la forma discorsiva dell’espressione “essere nel suo mondo” jaspersiana e quella più solida, consensuale e organica resa da Heidegger con “essere-nel-mondo”.

E se è vero che, innanzi tutto e per lo più, nell’essere medio quotidiano possiamo certo esistere nella miscomprensione e nella negligenza dell’altro e dei suoi bisogni, ciò non accade in quanto originario sarebbe un solipsismo o egotismo della coscienza bisognosa di un ponte che la possa condurre alle soglie dell’altro ma, anzi, questo modo per lo più difettivo di essere con gli altri per Heidegger conferma la originarietà di quel rapporto dato ab initio ma che viene declinato inautenticamente e mediamente nei modi difettivi dell’inerzia e della neghittosità relazionale (così come gli originari esistenziali del discorso, della visione e della comprensione sono degradati mediamente nella chiacchiera, nella curiosità e nell’equivoco) .

 


 

Conclusione inconclusa: il domandare.

Se partiamo dall’essere-nel-mondo come lo tematizza Heidegger, davvero non si darebbe nessuna esperienza dell’Esserci, neanche quella più pervicacemente e ulteriormente psicotica, che si proponesse come irriducibilmente estranea al con-essere (all’altro con cui si è in relazione originaria ed essenziale), pur nell’ambito di una pre-comprensione non tematizzata, inesplicita, antepredicativa; non “estranea” non solo o non tanto dal punto di vista meramente psicologico ma, più radicalmente, ontologico.

Semmai è questo passaggio a un livello derivativo, secondario, che è quello psicologico, che affonda tale esperienza, per così dire, nelle brume dell’incomprensibilità, in quanto ciò che è difettuale è proprio il dislivellamento a un modo del linguaggio, quello psicologico, a partire da una struttura e da un piano che sono invece ontologici e a livello dei quali davvero all’uomo nulla è alieno dell’uomo. Il nihil humani mihi alienum est sarebbe dunque interpretabile non come la constatazione in base alla quale sempre nella mia esperienza ho la possibilità di rintracciare l’esperienza dell’altro, bensì, all’opposto, come l’attestazione del fatto per cui, nell’esperienza dell’altro, scopro, rintraccio, “apro” (ovvero rendo disponibile alla comprensione) il «me stesso».

Il «tu-lì» e l’«egli-là» non sono individuati a partire da un «io-qui», ma all’opposto è questo «io-qui», Soggetto, Coscienza, che dir si voglia, che è individuato a partire da un «tu-lì» e un «egli-là» che sono riconosciuti e rintracciati attraverso il loro prendersi cura di ciò che è nel mondo. A tal proposito Heidegger cita Von Humboldt che ha richiamato l’attenzione su quelle lingue in cui l’”io” si esprime col “qui”, il “tu” con il “lì” e l’”egli” con il “là”, in cui cioè i pronomi sono resi con gli avverbi di luogo. Dicendo “qui” l’Esserci non si volge verso se stesso, ma si rivolge a un “là” a partire dal quale egli si situa nel mondo, ovvero in una cornice di rimandi significativi.

Allora anche alla modalità di esistenza “psicotica” è originaria ed essenziale la struttura ontologico-esistenziale dell’essere-nel-mondo e perciò l’apertura di un mondo inteso come intreccio di rimandi significativi, di un abitare presso, avere familiarità con questi significati e di un Se-stesso che, nel caso dell’Esserci psicotico, sembra urtare più drasticamente contro il “Si” impersonale dello stato interpretativo pubblico in cui per lo più e mediamente si mantiene l’uomo e contro quella pre-comprensione già sempre aperta (implicita) nel linguaggio comune condiviso. Potrebbe allora essere la lacerazione del linguaggio comune condiviso (che importa un mondo di significati e di interpretazioni già dati, anche se inesplicitamente) a produrre l’apparente scotoma di comprensibilità delle forme di esistenza psicotica? Lo scacco della comprensibilità e della comunicazione è anche il fallimento dell’empatia o ciò che chiamiamo empatia fa piuttosto riferimento a un piano pre-linguistico, pre-cognitivo e pre-discorsivo che è ontologico-strutturale prima che psicologico? L’Empatia, ancora, è meglio afferrabile  e tematizzabile se da fenomeno psico-logico è fatta risalire piuttosto a una struttura onto-logica e quindi a struttura fondamentale dell’essere dell’Esserci nella forma che abbiamo visto dell’heideggeriano essere-assieme-comprendente?



Queste domande vengono qui lasciate aperte, confortati tuttavia, sulla scorta del mito dell’Anamnesi, esposto da Platone nel Menone, che ci suggerisce che “il ricercare e l’apprendere non sono altro che reminiscenza”, che nel domandare stesso, ancora una volta, si annunci una pre-comprensione di ciò che viene domandato, senza la quale, semplicemente, non potrebbe darsi alcun domandare.



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