Ludopatia/Ludocrazia. Una recensione.

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31 dicembre, 2017 - 15:27
Autore: Marco Dotti e Marcello Esposito
Editore: 0barra0
Anno: 2016
Pagine: 319
Costo: €16.00
Ludocrazia. Un lessico per l’azzardo di massa è un testo collettaneo curato da Marco Dotti e Marcello Esposito, ed è il secondo di due testi sull’azzardo che recensisco per Pol. it dopo Ludopatia. La posta in palio di Stefano Casarino e Mauro Selis (clicca qui per il link). Non è trattazione organica del problema, ma una sorta di dizionario nel quale sono analizzati in ordine alfabetico i vari concetti che formano nel loro insieme un discorso sul gioco d’azzardo e dintorni. A partire dall’avvincente esplorazione del concetto di addiction operata da Marco Dotti che individua le sue radici nell’addictus, una sorta di ossimorica figura di libero asservito, nella latinità, fino alle recenti contorsioni classificatorie del DSM; un uomo che è antropologicamente trasformato dalla e nella fascinazione totalizzante del dipendere. Giù giù fino alla voce videolotteries, che è l’ultimo lemma e ci presenta le lotterie sul web.
Ma noi non seguiremo l’alfabeto, per individuare invece all’interno del libro quattro filoni che ci paiono centrali, e lasciare sullo sfondo altri temi che hanno pure attratto la nostra attenzione.
 
  1. Pervasività dell’azzardo. In una situazione nella quale “il conflitto viene stemperato nella dimensione ludica”, non dobbiamo stupirci poi se niente sfugge alla logica del gioco: abbiamo così “libri-gioco, giochi per consumare merendine, per accendere mutui, per regalare case e perfino per vincere posti di lavoro”. E’ quanto scrive ancora  Ardilles nell’affrontare il tema di Gamification e gamblification. Ma a questa serie io aggiungerei che abbiamo anche giochi per vincere lo sconto quando compriamo la focaccia, e al caffè non possiamo fare colazione al mattino senza sentirci proporre dalla suadente cassiera come fosse la cosa più normale del mondo se, insieme al cappuccino, vogliamo un “gratta e vinci”. Ma perché mai dovrei volere un “gratta e vinci, se sono qui per far colazione, gentile signora? E allora perché non chiedermi se voglio un giornale, un pacchetto di sigarette, un paio di calzini, una nuova auto, un villino al mare, un posto sulla prossima astronave in partenza? Per non dire poi del gioco più feroce, quello più umiliante per l’essere umano che mi pare questa modernità dannata abbia inventato: la lotteria dei migranti per un visto di entrata negli Stati Uniti. Come dire che la vita, il desiderio di alcuni esseri umani, che solo sono nati là invece che qua, non ha più valore di una fiche che si può vincere o perdere a seconda di come gira il bussolotto. E se non è davvero ludocrazia, questa! Del resto, di che stupirci? In altri tempi il gioco obbligatorio della conta era quello con cui il potere affidava al caso le nude vite dei soldati al fronte, o degli internati nei lager, o degli ostaggi con la decimazione. E’ facile giocare con la vita degli altri, quando la vita degli altri ha poco valore. Già, gamblification di oggi e di ieri. Perché proprio non è sempre vero che, come parafrasando Kant scrive Francesco V. Tommasi nell’affrontare il tema del Gioco, lo scopo del gioco si esaurisce nell’ambito del gioco stesso, e il gioco costringe alle sue regole solo finché si rimane al suo interno ma lascia sempre liberi di uscirne. Perché esiste un problema di dipendenza dal gioco; perché il denaro e le cose che ci si giocano nel gioco sono pur sempre quelli della vita reale; perché c’è una gamblification della realtà, e sui campi di battaglia o in quelli di prigionia o nella lotteria dei visti soldati, internati e migranti si giocano la vita. E quando la posta in gioco diventa la vita, il gioco diventa poco rilassante, e meno divertente. La relazione tra gioco, illusione, capitalismo, libertà, potere è affrontata con particolare attenzione in un  testo che ho particolarmente apprezzato, Gioco (nella) teologia del denaro di Alessandro Simoncini, i cui riferimenti a un altro Dostoëvskij rispetto a quello quadsi obbligato de Il giocatore, quello del Grande inquisitore, all’Hegel della relazione servo/padrone o a Benjamin sono prezioso ausilio per lumeggiare la complessa relazione che lega tra loro automatismo del lavoro dell’operaio e del gesto del giocatore, scansione della temporalità e meccanismi di asservimento dell’uno e dell’altro, organizzazione del lavoro e del tempo libero nella prospettiva fordista ed emancipazione per merito o per grazia nel capitalismo contemporaneo.  E così: «Cittadino libero ma indebitato, come l’antico addictus romano, egli appare oggi come la soggettività più esemplarmente imbrigliata nelle maglie della teologia del denaro». Egli, cioè questa moderna figura di lavoratore-giocatore, il cui tempo non è mai tempo libero dal meccanismo produzione-riproduzione nel quale in parte si trova invischiato e in parte, mentre si sforza di ottenere per sorte una via di uscita, volontariamente si invischia in modo sempre più stretto. E davvero, potrei fare nome e cognome di tante persone, uomini e donne, che, percorsa fino al termine l’illusione della vincita, vengono a cercare negli spazi a lato e nell’esperienza non opprimente di ascolto che il dispositivo di salute mentale può offrire un momento di respiro e di tregua. Al fondo, c’è il problema della Dissonanza cognitiva esaminata da Marcello Esposito, quella che ci porta sempre a identificarci col vincente nella nostra illusione e ci costringe spesso a essere il perdente nella realtà. E tutti i giorni constatiamo nell’utenza dei nostri servizi come destinati a cadere vittima di questa trappola infernale siano soprattutto i più fragili, i più poveri, i più soli, i più infelici, quelli che maggiormente sono portati a pensare che un giro della pallina o una combinazione casualmente vincente ribalti magicamente la loro situazione.
  2. Clinica dell’azzardo. La psichiatrizzazione del gioco d’azzardo, che oggi viene data quasi per scontata sia che lo si voglia collocare tra i disturbi del controllo degli impulsi, le dipendenze o le conseguenze di un prevalere di meccanismi mentali di tipo ossessivo, la ludopatia come ipotesi alternativa alla ludocrazia, è invece fatta giustamente oggetto di problematizzazione nel volume. E così Eino Pelinen a proposito di Gioco responsabile critica - e il riferimento è a Thomas Szasz ma certo non solo - l’impostazione eccessivamente patologicizzante e de-responsabilizzante del DSM e il carattere tautologico della sua definizione del problema. E sulla stessa linea è Marco Dotti il quale ragionando di “impulso al gioco” critica l’impostazione del problema in termini d’impulsività fuori controllo, in quanto riduzionistica, semplicistica e di nuovo de-responsabilizzante. E Adriano Segatori, e il riferimento è ancora alla Leggenda del Grande Inquisitore, in Libertà insegue fino alla sua radice il nesso circolare che lega tra loro aspirazioni all’onnipotente controllo sul caso del giocatore forte della propria libertà; spinta verso l’esercizio di questa libertà da parte dello Stato; degradazione a vittima del giocatore una volta frustrata - com’è fatale che il più delle volte sia - la sua aspirazione; soccorso pubblico verso la vittima che il giocatore diventa. Col che: «quindi, prima il capitalismo trasforma i cittadini da sudditi a consumatori, poi li rende totalmente dipendenti dai bisogni da esso stesso indotti, infine li relega nella posizione di vittime da soccorrere per dimostrare un’ulteriore benevolenza. Ma dietro a questo buonismo capitalista c’è l’ombra della schiavitù: prima da dipendenza, poi da accudimento» (p. 175). In una catena che Segatori illustra con estrema chiarezza: dalla seduzione della libertà (p. es. di giocare), all’esperienza dell’impossibilità di esercitare indefinitivamente quella libertà, alla costrizione della cura, magari con annessa amministrazione di sostegno come spesso avviene e comincia (giustamente) a essere oggetto di discussione. O, in alternativa, l’orgoglio di una libertà esercitata in modo responsabile e consapevole dei suoi limiti, in grado di sfuggire tanto alla seduzione della libertà per la libertà che al totalitarismo della cura. Ma si parla anche di biochimica del gioco d’azzardo, cybersex, epidemiologia del gioco, doppia diagnosi, del DSM 5 e dei suoi limiti. E considero assolutamente centrale, a questo riguardo, le pagine che Mauro Croce dedica ai Paradigmi interpretativi del gioco d’azzardo, individuando le radici del trattamento dell’azzardo niente meno che in un testo del XVI secolo e quelle della moderna interpretazione delle addiction come patologia - con i suoi limiti e le sue contraddizioni - in un’opera dedicata all’alcoolismo da Benjamin Rush, fondatore della psichiatria degli USA, del 1784. Per poi prendere in esame i contributi della psicoanalisi alla comprensione psicologica del giocatore, la nascita a Las Vegas nel 1957 di Gamblers Anonymous. E parallelamente a questi sforzi che, pur riferiti a paradigmi molto diversi, hanno in comune l’intento di aiutare il giocatore a liberarsi dalla coazione al gioco, lo sviluppo della dialettica proibizionismo/deregolazione che investe quest’ambito come quello delle altre dipendenze. E poi l’inclusione, a partire dal 1980, del gioco d’azzardo “patologico” tra i disordini mentali (implicitamente da prevenire e curare) inclusi nel DSM, e la reazione volta a “dimostrare” scientificamente come il rischio di rovina riguardi solo alcuni individui (biologicamente o psicologicamente identificati) e non sia legata alla diffusione del gioco d’azzardo in se stesso. Come il problema sia cioè nella ludopatia, che mette in discussione l’individuo, e non nella ludocrazia, che metterebbe in discussione il sistema. Un’operazione, tuttora in atto, sostiene Croce, di appropriazione da parte della medicina, catalogazione, rassicurazione, i cui rapporti con gli interessi di chi il gioco d’azzardo gestisce e su esso lucra, nonché del sistema economico all’interno del quale essi prosperano, non possono evidentemente essere trascurati.   
  3. Ludocrazia, per una critica dello Stato-banco. Siamo così giunti al concetto che dà il titolo al volume. E’ evidente che dal fatto che il gioco d’azzardo estremo debba o meno essere considerato “patologico”, cioè malattia, deriveranno i compiti dello Stato liberale, che saranno in un caso quello di proteggere, prevenire ecc., e nell’altro quello di garantire gli spazi perché la libertà di giocarsela (e rischiare di trionfare o di rovinarsi) sia, come ogni altra libertà, garantita finché almeno non impatta nella libertà altri. Ma lo Stato non è arbitro imparziale in questa partita, sia perché direttamente ci guadagna attraverso una cospicua tassazione, sia per l’influenza che, immaginiamo, la lobby (cfr. Mika Satzkhin, nel testo), economicamente potente, dei gestori potrà esercitare sulle sue decisioni. Fatto sta che una delle tesi del volume è che l’aumento esponenziale del volume d’affari del gioco d’azzardo nel mondo, ma in Italia in modo assolutamente peculiare, nasca da due ordini di ragioni, speculari e convergenti. La spinta del soggetto verso il gioco (ludopatia)  e l’attrazione determinata da coloro che gestiscono il business, gestori e Stato (ludocrazia, appunto). Quanto è importante, mi pare insomma sia una delle questioni intorno alle quali ci si interroga, lo Stato per il gioco; e quanto è importante il gioco per lo Stato, oggi in Italia? Moltissimo, in entrambi i casi. E ce lo dimostra approfondendo l’importanza dell’evoluzione della legislazione italiana nell’incremento che il gioco d’azzardo ha conosciuto in questi anni di sempre più marcato permissivismo José Ardilles nel lemma Gioco lecito, e rilancia poi il tema a proposito di Sistemi di regolazione del gioco d’azzardo in Italia Maurizio Fiasco. Dove in particolare si documenta come, dopo un secolo abbondante di paternalismo dal 1889 al 1992 nel quale lo Stato si è fatto un dovere di proteggere, per quanto poteva, le tasche degli italiani dalla trappola dell’azzardo, da quell’anno ha inizio un meccanismo a valanga nel quale lo Stato individua in modo sempre più chiaro nell’azzardo un meccanismo d’introito dando letteralmente in pasto i cittadini più sensibili alla sua seduzione prima alle esigenze del proprio erario, per poi lavorare in modo sinergico con un tentacolare sistema opaco e incontrollato di sfruttamento a fini privati delle debolezze altrui. Non è quindi per caso, questa una delle tesi del volume, ma sulla base di disinvolte scelte di politica finanziaria, se l’Italia di questo Stato trasformatosi da oculato genitore in disinvolto croupier  è diventata uno dei Paesi al mondo dove l’azzardo fa il lucro maggiore (forse il primo in assoluto in proporzione alla popolazione), e il movimento di denaro è passato dai circa 5 miliardi/anno degli anni ’90, ai 17 miliardi circa del 2003, ai 96 miliardi del 2015 (ripartiti in 77 miliardi ridistribuiti tra le vincite, 10 miliardi alla filiera, 9 miliardi di imposte). Nella stessa area collocherei il contributo di Ilde Mattioni la quale dissertando di Legale-illegale ricostruisce una storia dell’azzardo nelle legislazioni italiane a partire dal lotto giocato del XVII secolo a Genova, citando un’interessante battuta attribuita a Cavour per la quale il lotto sarebbe una “tassa sugli stupidi” (p. 171).
  4. Altre valenze politiche dell’azzardo. Sono al centro della Teoria del gioco d’azzardo presa in esame da Raffaele K. Salinari, a partire dall’impressionante espansione che il mercato ha conosciuto in Italia, del quale si è detto. Salinari riprende quel filone della “teoria del gioco” che affonda le sue radici in Huizinga e in Caillois, la relazione del gioco con la trasgressione, la relazione dei diversi giochi in diversa proporzione con l’abilità e con il caso, la ricerca della vertigine e il suo rimando a valenze mistiche e misteriche: «e allora il gioco d’azzardo (…) contiene e alimenta ancora sia una pulsione “eversiva” rispetto all’ordine competitivo del mondo contemporaneo, sia una promessa di estasi, la visione angelicante della dama che bacia chi si gioca tutto solo per un suo sguardo» (p. 50). Le valenze politiche che il gioco può assumere sono al centro della relazione di continuità, sulla quale già insisteva Arkadij ne L’adolescente di Dostoëvskij, tra capitalismo e gioco d’azzardo, che ritroviamo qui affrontata su diversi versanti da Eino Pelinen (Blue chip), che identifica la logica interstiziale del capitalismo contemporaneo in quel gioco tra «espulsione concreta e illusione inclusiva» (p. 58) che tanta parte, io credo, ha giocato nei fattori psicologici alla base della caduta del Socialismo reale nell’Europa dell’Est e tanta ne sta giocando nei fattori soggettivi all’origine di parte delle migrazioni contemporanee, quella parte nella quale prevale il desiderio sul bisogno. Mentre l’analogia tra ripetitività nel lavoro dell’operaio e nel gioco d’azzardo è al centro di una suggestione di Benjamin che Francesco Paolella riprende nel L’oracolo meccanico, nel quale sono anche importanti i riferimenti al gioco nella visione di Dostoëvskij, Lermontov, Pirandello e Landolfi. Ma riferimenti alla relazione tra gioco e politica sono anche presenti nel lemma di Marco Traversari su Gioco e nazionalismo, a proposito del carattere campanilistico che spesso assume il tifo calcistico e può prestarsi a trasformarlo nel nucleo di organizzazioni nazionalistiche di carattere militare, o del significato politico di giochi fortemente etnicizzati come la pelota basca.
 
Questi, mi pare i quattro filoni principali che ho rintracciato nel testo. Ma non è tutto. Mika Satzkhin si sofferma sull’importanza del “fattore tempo nel gioco”, Gianna S. Monti e Aldo Solari sul concetto di probabilità, mentre della complessa relazione tra “videogioco”, componente audio e incarnazione in un avatar virtuale fino alla completa immersione e all’intrappolamento si occupa Mauro Vanetti. Si sofferma sulla prossemica del gioco d’azzardo Carmen Marrone a proposito di Design dell’accessibilità, e coglie nel meccanismo generale delle dipendenze - rifacendosi a Deleuze - l’importanza del “paradosso della volontà” per cui giocatore è chi non può smettere di smettere di giocare Pietro Barbetta in Dipendenza e addiction. L’ultima sigaretta di Zeno avrebbe di che insegnarci al riguardo. Ritorna poi  sulle valenze mistiche dell’azzardo ancora Raffaele K. Salinari a proposito del Gioco delle perle di vetro e a proposito della storia dell’azzardo, troviamo un’affascinante ricostruzione del tema delle Lotterie di Stato al termine del XVIII secolo operata da Marco Dotti, quello altrettanto interessante di Francesco Paolella sulla discussione sul gioco del Lotto nella prima metà dell’Ottocento (e poi sui Numeri buoni), le pagine dedicate da Raffaele S. Salinari al Turco meccanico, ricche di suggestivi riferimenti a Poe e a Benjamin e ancora la ricostruzione estremamente interessante della posizione della Chiesa sul gioco d’azzardo operata da Dotti in Gioco e peccato.
Ho apprezzato particolarmente quanto G.S. Monti e A. Solari, autori anche di un bell’intervento a proposito dell’equità come uno dei presupposti fondamentali del gioco, scrivono a proposito di Fallacia dello scommettitore: un’ossimorica ricerca della logica dell’illogico alla quale Dostoëvskij nelle sue lettere, e i suoi personaggi, confessa di non saper rinunciare.
Si parla della storia del pampano, come di quella del pachinko. Marco Dotti occupandosi di Slot machine ricostruisce la storia di questo diabolico strumento che nasce oltre cent’anni fa nei lontani giorni della corsa all’oro della California e si diffonde per il mondo con il suo carico maledetto di miseria e sentimenti di colpa. Si tratta di una trattazione così chiara che ho avuto la fantasia che, leggendolo, i miei pazienti che soffrono di questo disturbo possano essere illuminati e guarirne alla sola lettura. Così ho proceduto; e ignoro ancora quale sarà il risultato. Ma credo che possa aiutarli sapere quante sono le reali probabilità di vincita, regolate in questo caso non dalla sorte cieca ma da un circuito preprogrammato e tenute incredibilmente basse, o come vengono utilizzate per manipolare le loro menti musiche, colori o sottili (perfidi?) meccanismi psicologici come quello della “quasi vincita”.
A lato di tutto ciò che è più direttamente collegato al gioco d’azzardo, e intorno ad esso, sono poi importanti i riferimenti a concetti come quello di azzardo morale da parte di Marcello Esposito, uno strumento di comprensione per i disastri della finanza contemporanea e persino per le questioni dell’ambiente, o la critica del keynesinmo operata da Pierangelo Dacrema a proposito di Denaro.
Si tratta, in conclusione, di un testo ricco di spunti che, evidentemente, non è stato qui possibile tutti  richiamare, relativi al gioco d’azzardo ma non solo, anche a quella ludocrazia alla quale siamo tutti, chi più chi meno, inevitabilmente assoggettati, verso il quale spero di avere suscitato la curiosità che merita di evocare un libro originale, ben documentato, impertinente, decisamente attuale per l’argomento ma non solo per quello.
 

 

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