In ricordo di Fausto Rossano (1946-2012) Folia/Follia. Quelle carte da legare del “Bianchi” di Napoli.

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6 agosto, 2018 - 15:43
Riassunto. Proprio di questi giorni, in agosto del 2012, se ne andava un carissimo amico e valentissimo collega di Ercolano, se la memoria non mi tradisce. La calura era insopportabile, la cappa anticiclonica delle Azorre simile a quella odierna, quando lessi la notizia 8 anni fa. Ora che Francesco Bollorino mi ha ipnotizzato sul quarantennale della “180”, questa cosa della chiusura dei manicomi, e di tutta la storia successiva, in pratica mi ha fatto capire cos’è l’idea prevalente. Dunque, Fausto Rossano. Me l’aveva presentato Nino Lo Cascio, perché avevo bisogno di un supervisore per la Comunità terapeutica “Mario Gozzano” di Salone di Lunghezza. Una creatura a cui tenevo molto, confezionata su una scuola abbandonata coi finanziamenti della Regione Lazio poi stanziati alla ASL RM”B”. «Guarda, però - mi avvertì Lo Cascio - stai attento, perché e preciso e puntuale, oltre che bravo. Insomma temperamento svizzero! Poi magari uno pensa fra sé “napoletano”… No! Lui è di Ercolano e quelli sono la precisione  fatta persona!»
Questo lo avevo già potuto constatare, perché prima di avere diretto “Napoli 1” e Prima di aver chiuso il “Leonardo Bianchi”, subito dopo la “180” (1978), aveva avuto il coraggio e la temerarietà di mettere in piedi il “DSM” di Piedimonte Matese. Una cosa incredibile! I classici 15 posti letto del SPDC, l’ambulatorio, le visite domiciliari e i centri diurni. Praticamente, un h. 24. Insomma tutto. Con Lo Cascio mi confidai: vabbene che è junghiano, ma dove le prende tutte queste energie? Mi risponde sempre qualcuno a qualunque telefono tu chiami… lassù fra le montagne casertane ... Alife … Piedimonte...  Nel marzo del 2011 mi invitò a Napoli per una cerimonia di archiviazione, recupero e valorizzazione del patrimonio storico delle cartelle del manicomio intitolato a Leonardo Bianchi. Questa praticamente è la breve relazione che tenni. Un inedito, che mi fa piacere inviare ai fan di Bollorino.
 
Storie di vite inaccessibili: le schede manicomiali.
C’è una montagna di ragioni per cui ho gradito moltissimo e accettato di buon grado l’invito di Fausto Rossano – l’ultimo direttore del manicomio di Napoli, intitolato a Leonardo Bianchi – e dei suoi Collaboratori, a partecipare oggi a questo vostro progetto di recuperare le memorie storiche dei malati che vi hanno dimorato.
Se ho ben capito si tratta di introdurre proprio qui a S. Biagio dei Librai, a Palazzo Marigliamo, sede prestigiosa della Soprintendenza archivistica campana, la presentazione di due volumi: uno è 'Folia/Follia. Il patrimonio culturale del Leonardo Bianchi di Napoli', l'altro, “Carte da Legare “, è il Primo rapporto sugli archivi manicomiali italiani. Una rassegna di schede regionali organizzate per singolo manicomio con la massima completezza delle informazioni di tipo istituzionale ed archivistico.
 
Dunque un’operazione storica e di restauro, direi di sapore archeologico più che psichiatrico. Oggetti, soggetti e materiali della ricerca contenuti in questi due volumi che oggi presentiamo – Folia/follia e Carte da legare – sono costituiti da inventariazione, catalogazione, repertorializzazione e archiviazione di cose e storie di sofferenza che hanno costruito (e tuttora rappresentano) la storia della follia. Ottima anche la parte promozionale. La scelta della locandina è stata particolarmente felice perché coinvolge e richiama la foto di un’artista: Carla Cerati [1], uno scatto intenso e significativo dei tempi di Basaglia al manicomio di Colorno a Parma.
Altri colleghi hanno avuto frequentazioni con filosofi, al contrario di me che ho preferito frequentare gli storici; anche se in fondo al ginnasio tutti abbiamo avuto un professore di storia-e-filosofia, generalmente da tutti più apprezzato di quello di matematica, che era quasi sempre una prof arcigna.
 
Il titolo, i titoli di questo recupero di un pezzo di storia del tutto particolare della nostra società, mi paiono azzeccati e spiritosi anche come calembour. Trovo meno felice, invece, il titolo dato ad una pur lodevole iniziativa del manicomio di Siena della Fondazione Basaglia. Il complesso di San Niccolò – si legge nell’annuncio – è la sede scelta per "sPAZZI: dalla distruzione del manicomio alla costruzione dei diritti", evento dedicato alla salute mentale organizzato dal gruppo di studenti della facoltà di Lettere e Filosofia "Collettivo di Antropologia", con il patrocinio dell'Ateneo, della Provincia e del Comune di Siena. Dal 22 al 24 febbraio 2011 si svolgeranno dibattiti, mostre fotografiche, concerti e proiezioni per riflettere sulla fine dell'istituzione manicomiale in Italia e sulla storia del manicomio di Siena.
Ecco, personalmente, fin dalle lotte anti istituzionali ho trovato stonata la locuzione distruggere il manicomio, quando ci s’interrogava sul che fare. Trovo invece giustificato – come poi è prevalso – farne degli archivi e dei musei della memoria. “Distruggere” la memoria può essere pericoloso.
 
Ho avuto qualche incertezza sul titolo da dare a questa presentazione di cose antiche “da manicomio”, giacché in vari periodi dei miei oltre cinquant’anni di lavoro nelle istituzioni psichiatriche del SSN mi è capitato sovente di affrontare temi non solo clinici ma anche storici delle strutture dedicate alla “cura dei matti”.
Io stesso, diciamo così, sono un reperto della psichiatria, avendo attraversato – dal secolo scorso al presente – molte stagioni di trasformazione della psichiatria, di evoluzione dei suoi sistemi di pensiero (più che di “tecniche”), di mutazione degli psichiatri, delle “malattie”, degli aspetti della follia e infine dei soggetti delle loro cure più o meno psichiatriche.
Quando poi i manicomi hanno cessato di esistere come “luoghi di custodia e cura”, nel maggio del 1978, mi sono trovato a riflettere sul destino di questi vecchi monumenti della sofferenza mentale per farne luoghi della memoria.
Avrei pensato di intitolare Storie di vite inaccessibili questo mio commento al vostro lavoro di conservazione del patrimonio culturale del “Bianchi”. Ho dato un’occhiata alla letteratura italiana sui progetti di recupero e di repertorializzazione dei documenti e degli oggetti custoditi nei vecchi manicomi ed ho trovato molto interesse per luoghi dimenticati troppo in fretta, molta curiosità per questo tipo di storie e sintonia di titolazioni [2].
 
Mi parrebbe che non solo le cartelle cliniche, le anamnesi, gli archivi dei malati (l’esperienza da loro vissuta e raccontata nei diari giornalieri da coloro che hanno cercato di emendarla), le biblioteche, i libri, le riviste specialistiche (il sapere alienistico) andrebbero gelosamente preservate e custodite, ma anche, manufatti e prodotti artigianali dei ricoverati. Fardelleria, divise, trombette (a Roma ne ho vista una da lattaio in magazzino, che serviva per suonare l’allarme quando c’era da far accorrere in un padiglione in difficoltà altri infermieri di soccorso), fasce di contenzione letti di forza. E ancora scritti, disegni, quadri, pitture, sculture, regolamenti, registri, foto segnaletiche, sistemi di controllo.
 
Un tempo pensavo che i manicomi fossero tutti uguali. Qualcuno me lo aveva suggerito e io ci ero cascato come un salame. Mi ero anche convinto che bastasse vederne uno per immaginare tutti gli altri. Sbagliavo clamorosamente e so anche perché. Avevo in mente le architetture a padiglione, il “Panopticon” citato da Foucault in Sorvegliare e punire, le separazioni tra destra e sinistra (il femminile e il maschile), tra l’alto e il basso (gli acuti e i cronici), tra il centrale e l’eccentrico (il cerchio interno dei servizi con la vasca dei pesci rossi e quello periferico del lazzaretto, dei TBC, la camera mortuaria. Pensavo alle geometrie ossessive: il doppio, il contrario, la conta di tutto la riconta avanti e indietro, indietro avanti. La serialità quasi anancastiche: le “sorveglianze” interne e quelle esterne, la chiave a “due giri” degli infermieri per il giorno e quelle a “tre giri” delle suore per la notte, le scatole-orologio col disco cartaceo per la firma ogni mezz’ora degli infermieri e il controllo dei sorveglianti, le “vacchette” per le annotazioni dei rapporti del turno che riportavano invariabilmente “presa consegna” il personale entrante, “lasciata consegna” il personale uscente. Le simmetrie, le corrispondenze, i recinti, grandi, piccoli, a cerchio a quadrato, le aiuole, i viali alberati. Il rosario della temporalità immota della turnazione, scandita in sette quattordici ventuno nel giorno, e la litania mattina, pomeriggio, notte, riposo libertà o disponibile nelle settimane, nei mesi, negli anni e così via all’infinito in saecula saeculorum. La vita dei matti ferma quella dei “guardiamatti“ tagliata dai turni.  
Non erano tutti uguali i manicomi. Violenti sì ma uguali no. Era l’apparenza, la forma, l’aspetto esteriore, che li faceva assomigliare, dentro i padiglioni c’erano gli esseri umani e dentro di loro, in ciascuno di loro c’era sempre un traccia di storia, di pensiero, di sentimento, talvolta capaci di essere raccontati e dunque ascoltati, tal’altra inaccessibili. Il prof. Carmine D’Angelo (da poco scomparso) aveva pensato di raccogliere tutti prodotti della cultura manicomiale: dipinti, sculture, disegni, scritti e ne aveva fatto una specie di “galleria d’arte” nell’alloggio medici. Ricordo perfettamente un foglio grande di registro dove un diligente amanuense aveva tracciato in bella calligrafia a matita un lungo elenco che cominciava più o meno così: “Papi, Re, Regine… Ministri Plenipotenziari, Carabinieri, Paraculi, Monetarji Falsi…” concludendo alla fine in maiuscolo “TUTTI ALLUCINATI” [3].
Ecco, anche per questo, ritengo che sia stato gran merito, il vostro, di aver recuperato, catalogato, riordinato, conservato questo prezioso materiale mnemonico della cultura storica manicomiale, questi 'Folia/Follia. Il patrimonio culturale del Leonardo Bianchi di Napoli', ma penso sia assolutamente necessario continuare a farlo. Chi resta all’oscuro di ciò che è accaduto prima della nostra nascita, ossia chi ignora la propria storia – ammoniva Cicerone – è come se rimanesse eternamente bambino.
Più vicino a noi Carlo (Carlin) Petrini lo scrittore enogastronomo di “Slow food” ha intervistato a Pennabilli Tonino Guerra il poeta romagnolo sceneggiatore di tantissimi film con Fellini. Pensate che il titolo pirotecnico della conversazione fra i due è stata una esortazione del co-sceneggiatore di Amarcord "Creiamo i granai della memoria", ed è tutto un programma [4].
 
Dunque, avevo cominciato col salutare Fausto Rossano e poi ho proseguito man mano divagando con la mia conversazione in tono colloquiale su quella che è stata la mia esperienza negli OPP, quell’acronimo che definiva gli Ospedali Psichiatrici Provinciali.
Ma torniamo al punto di partenza: all’OPP “Leonardo Bianchi” e al suo ultimo direttore. Il fondatore professore di Clinica delle Malattie nervose e Mentali come si diceva un tempo è così rievocato da Vincenzo Bonavita, che ho conosciuto direttamente, un discendente lontano, uno della scuola di Vito Maria Buscaino e diretto allievo di Vito Longo: un altro della scuola «Non sembri strano che si dia inizio ad una biografia breve di Leonardo Bianchi citando il pensiero di Leonardo da Vinci in merito alla ricerca scientifica e alle regole che devono guidarla: “Sola interprete della natura essere deve l’esperienza; mai da lei ricevesi inganno. Bensì giudizio nostro si inganna aspettando effetti ai quali l’esperienza rifiutasi. Questa, dunque, è mestieri consultare e sempre ripeterla, e variarla per molte guise finché ne abbiamo tratto fuori le leggi universali, imperocché la sola esperienza può provvedere della notizia di tali leggi… ed io credo che questo metodo sia sempre da seguirsi in ogni ricercamento di fenomeni”. Il motivo della citazione è nel fatto che questo pensiero veniva ripresentato con ripetuta insistenza da Bianchi nelle sue lezioni».
Un po’ di enfasi retorica non guasta mai ai vernissage delle mostre di opere librarie e archivistiche preziose. In ogni caso, per nessuna cosa al mondo, vi volevo dire, avrei rinunciato ad incontrare Rossano qui nel suo museo a riordinar carte e a fabbricare cultura storica (o storia culturale), non solo per affinità elettive nel modo di essere psichiatri, ma anche perché adoro la storia e la storia della psichiatria in particolare. Vi dicevo che vi era una montagna di ragioni che aumentava il mio piacere di questo incontro: una montagna incantata per dirla alla Thomas Mann.
L’OPP secondo l’acronimo di un tempo, quando la gestione competeva all’amministrazione provinciale, l’avervi lavorato, l’averlo superato, avervi combattuto la cultura della custodia, è un po’ il pretesto che ci riunisce qui oggi attorno alle carte e ai libri della follia.
Ma il clima della Montagna incantata, dicevo, è per significarvi un mio sentire auratico, non perché il manicomio sia stato un’opera d’arte da restarne vittime della sindrome di Stendhal, o colti da trance, o da avvertire i prodromi della comizialità (non iatrogena). Semmai perché genera perplessità e sgomento, essendo stato, per circa tre secoli, dimora del dolore psichico e fisico della follia.
No. Si tratta di ben altro. Ragioni prossime, lontane e remote: di amicizia, di scuola, di affinità elettive, con Fausto Rossano. Perfino mie personali, se penso a mia madre, sbalzata dopo la rotta di Caporetto, appena sedicenne dalla Valsugana alla piana di Benevento. Ragioni del cuore e ragioni della memoria, tutte sul filo del pensiero, perché «Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce» (Blaise Pascal, Pensieri, 277) « Le cœur a ses raisons que la raison ne connaît point »
 
Tutta squisitamente storica o storicizzabile, la montagna di queste ragioni e pensieri, comunque repertorializzabile, catalogabile, un inventario personale, se si vuole. Una storia di vita, la mia, una Lebensgeschichte, che per oltre mezzo secolo (quello passato e la prima decade di questo che viviamo) ha attraversato, testimoniandole, le vicende che hanno rivoluzionato la psichiatria. Per quanto mi riguarda, ho sempre lavorato – a vario titolo – nelle istituzioni sanitarie nazionali della pratica e della didattica della salute mentale. Dunque proverò a accennarvene alcune di queste ragioni: così, come mi vengono in mente perché hanno più di un legame con questa regione, un legame profondo.
La storia, dopotutto, po’ anche fatta di ricordi personali. “Res gestae” e “Historia rerum gestarum” sono due locuzioni latine che assumono, rispettivamente, il significato di: Fatti accaduti, negli ambiti di competenza del diritto o della storia - Storia dei fatti accaduti, cioè la composizione dei fatti compiuti in una narrazione (logos), in un ambito che è di competenza della storiografia. Storia e storiografia, dunque: questa è una delle più elementari e classiche delle distinzioni. Le scienze storiche hanno polarizzato l’interesse degli studiosi nel XIX e nel XX soprattutto quando si è costituito lo storicismo tedesco e pari dignità scientifica di quelle naturali ha guadagnato il campo delle Geistwissenschuaften. In questa università hanno contribuito al dibattito voci autorevolissime: Benedetto Croce e Adolfo Omodeo. Ma precedentemente c’era stato un certo Giovambattista Vico nominato “storiografo regio” da Carlo III di Borbone. Al secondo piano del Palazzo Filomarino della Rocca abitò Croce il maestro di un allievo eterodosso ma fedele: Ernesto de Martino.[5].
Storiografia, storia orale, ma anche la storia tramandata dagli antenati, quella della memoria personale la Lebensgescichte, il mondo delle esperienze vissute. Queste danno forza mnesica aiutano a mettere a fuoco i ricordi, a riordinarli. Quelli che la presbiofrenia della senescenza affastella copiosi, a ritroso, nella nostra vita. Specialmente in quel tragitto di tramonto dell’esistenza in cui, la vista lunga delle rammemorazioni che si rincorrono, tutto dilata e rallenta. In quella stagione ovattata del De senectute di ciascuno (quando abbiamo la fortuna di raggiungerla). Ecco che può capitare proprio allora, che codesta senilità ci appaia, talvolta, vastissima e lunghissima, ma è un paradosso. Ci sembra, che i nostri fatti trascorsi, unitamente a quelli degli altri, guardati con l’artifizio naturale del cannocchiale rovesciato, o con gli occhi di Mnemosine se si preferisce tramontare insieme a una dea, si snodino all’infinito e si possa riuscire a vederli, talora nitidissimi, a così grande distanza dentro la nostra esistenza. Ma è un paradosso, un’illusione però, perché, in fondo, come dice il poeta “Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera” (Salvatore Quasimodo)
Le ragioni del cuore dicevo. Andiamo per ordine. Comincio da mia madre, ma penderò l’argomento un po’ da lontano e con stile narrativo come si conviene alla rievocazione storica di chi ha attraversato oltre mezzo secolo di storia della psichiatria italiana vivendola sempre dalle istituzioni pubbliche.
Alle ore 2 de 24 ottobre 1917 (mia madre aveva 16 anni e mio padre 25) le truppe italiane schierate sul fronte di Caporetto, giunte alla dodicesima battaglia dell’Isonzo, non ressero l'urto delle truppe di elite austro-ungarico-tedesche e dovettero ritirarsi fino al fiume Piave.
Il treno dei profughi valsuganotti del Comune di Carpané-Valstagna (VI) – fatti rapidamente evacuare dal sindaco in conseguenza dello sfondamento nemico al fronte di Caporetto, il quale era andato a svegliarli casa per casa – dopo aver sostato qualche giorno a San Bonifacio (Verona), proseguì verso il sud e si fermò a Benevento.
Il Beneventano è tradizionalmente una zona a vocazione agricola. Sebbene l'attività agricola interessi soprattutto i comuni della provincia, Benevento non fa eccezione, avendo nel suo territorio comunale ampie zone rurali. Tra le principali coltivazioni, l'uva, le olive e il tabacco. Il sindaco della Valsugana, era a conoscenza di queste coltivazioni di tabacco e chiese al collega del Sannio Beneventano di poter far rimanere i suoi concittadini per coltivare il tabacco. Ignoro se videro la città com’è oggi, ma il centro storico di Benevento che si trova su un'altura – dove svetta il castello chiamato “la Rocca dei Rettori” – fra il letto del Calore e quello del Sabato, digradante a ponente verso la loro confluenza, dubito si sia mai mosso. È, invece, quasi certo che, a distanza di quasi un secolo, sia cambiata la morfologia e la toponomastica della città.
Si fermarono lì, a Benevento e dintorni, codesti valligiani del Brenta, sparpagliati lungo i costoni del medio e del basso Calore [6]. Da quella vallata potevano scorgere la lussureggiante zona agricola della Piana di Benevento [7]. Altri, invece, proseguirono fino in Sicilia. Mia madre si adattò benissimo e fece in fretta a capire la lingua locale. Fu là che mia madre vide i multicolori prodotti dell’orticoltura e della frutticoltura della pianura beneventana e ne rimase abbacinata. Fu stregata da quella dovizia di prodotti dell’agricoltura lussureggiante che cresce su territori alluvionali e clima mite. Appezzamenti di terra feconda, ben lavorata, inondata di sole capace di generare copiosamente frutta, verdura, fiori, arbusti e vegetali ornamentali, come non aveva mai visto prima di allora fra le sue valli. Fu là che mia madre imparò a conoscere il “Sarmantaro”, il “Padulano”. Una seconda volta tornò nuovamente in Campania, a Sapri, sposata con un figlio, felice come una pasqua. Mio padre era un Ispettore delle Ferrovie come il padre di de Martino. Infinite altre volte tornò a Napoli, c’ero anch’io: scendevamo a Mergellina dal capostazione Fauci per aspettare l’imbarco sul Postale Napoli – Palermo.
Molti anni dopo il mio maestro, Mario Gozzano, per un destino, compagno di università di Francesco Vizioli (poi Direttore del “Bianchi”) entrambi allievi di Onofrio Fragnito, a sua volta discepolo di Leonardo Bianchi chiamati “I beneventani”, mi affidò per la carriera universitaria a Raffaello Vizioli (detto Ninì). Non se ne fece nulla. Lo incontrai qualche anno dopo a Cagliari dove avevo vinto un concorso di primario all’OPP e dimorammo nella stessa pensione. I Vizioli erano abruzzesi, originari di Colledimezzo (Chieti). Il direttore del “Bianchi” Francesco era figlio di Raffaele (professore pareggiato, come si diceva un tempo) e aveva battezzato Ninì: Raffaello. A sua volta il Nonno paterno di Ninì, aveva un fratello di nome Francesco Vizioli (Colledimezzo, Chieti 18421899) Cattedratico di neuropatologia ed elettrofisiologia, celebre agli antichi congressi della SIN per polemizzare con Enrico Morselli (quello del 1877) e ancora aspro e citato nelle cronache accademiche del tempo, quelle del 17 dicembre 1886 all’Ospedale Gesummaria di Napoli dove inaugurava la cattedra per l’insegnamento dell’elettroterapia. Sempre sull’elettricità. A Cagliari e a Dolianova nei primi anni Settanta, studiando le cartelle cliniche e parlando coi ricoverati feci le mie prime osservazioni sulla patologia psichiatrica da scompenso migratorio.
 
La psichiatria ha sempre tratto ispirazione dalla Storia e dalla Filosofia e mi pare che abbia tutti i diritti per essere ritenuta (anche) tra le altre discipline consorelle, una scienza umana applicata. Io come psicopatologo fenomenologico amo entrambe ma prediligo la Storia, mi appassiona di più. Ho saputo di questo vostro ambizioso progetto e mi piace perché lo condivido da molto tempo. Ho anche qualche modesta competenza nello specifico.
In passato, fra l’archivio e la biblioteca del manicomio di Santa Maria della Pietà di Roma, ho svolto ricerche su testi antichi e su storie cliniche. Con Nino Lo Cascio, per esempio, abbiamo tenuto due Relazioni al Convegno Nazionale di Reggio Emilia dell’11-12 aprile 1980 sul tema “L’emarginazione psichiatrica nella storia e nella società”[8].
All’Università di Milano ho collaborato più volte con la Cattedra di Storia contemporanea dove di cui è titolare l’amico Alceo Riosa [9]. Egli mi ha coinvolto in vari progetti sulla follia: quella disagio mentale dei civili e dei reduci ricoverati all Senavra durante la “Grande Guerra” del 1914-18 [10]; quella degli emigrati italiani di ritorno in patria dall’Europa ai tempi della recessione economica del 1973 per disturbi mentali e ricoverati in manicomio.
E, ancora, nel 1981 mi invitò a partecipare al Convegno della Fondazione Giacomo Brodolini (9 ottobre 1981) sul tema “Biografia e Storiografia”. Mi azzardai – fra tanti storici di professione come De Felice / De Rosa / Diaz / Levillain / Nello / Riosa / Romano / Romeo / Vigezzi – a tenere una relazione intitolata Biografie dei marginali. [11]. In: Riosa Alceo (curatore). Fondazione G. Brodolini. Franco Angeli, Storia, Milano, 1983)  
 
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Ad un convegno di storici, a Milano nel 1981, proposi una categoria di “marginali senza potere e senza diritti:” i «lungo degenti manicomiali», cittadini istituzionali di schedatura clinico-segnaletica, la cartella manicomiale. Una proposta temeraria oltre che difficile da far accettare nelle categorie storiografiche. Questi più o meno alcuni fra i principali temi della relazione.
Ritengo valga la pena riportarne qualche passo.
L’analisi antropofenomenologica introdotta in psicopatologia da Ludwig Binswanger per la sua ricchezza, per la sua completezza e per la sua rigorosità possiede ancora oggi una validità in assoluto, tale da rendere auspicabile una sua applicazione anche ad altre discipline umane.
Non dovrà apparire strano che vi possa essere una certa similarità o quanto meno una specularità tra l’oggetto d’indagine dello psichiatra e lo psichiatra stesso. Sicuramente il medico ha consuetudine con la «storia» del paziente. Anamnesi è appunto il ricordare, la reminiscenza, il rammentare il proprio passato e dunque anche lo psichiatra (non voglio qui entrare nella vexata quaestio se lo psichiatra debba o meno disconoscere la sua qualità originaria di medico) è un sollecitatore di ricordi esistenziali, è un « ministorico » attento agli Erlebnisse del proprio paziente, è un ricostruttore della vicenda personale dell’individuo sofferente.
In ogni caso questa ricostruzione – e qui mi ricollego al tema centrale che era stato tracciato questa mattina, ossia il rapporto tra individuale e generale, tra personale e collettivo – per noi psichiatri diventa essenziale perché abbiamo la necessità di ricavare da quelle che sono delle categorie psicopatologiche astratte, la soggettività, l’intenzionalità, la peculiarità dell’individuo folle: in una parola la concretezza della sua qualità umana.
E tutto ciò non attiene soltanto alle operazioni che chiamiamo anamnestiche, ma anche alle funzioni più propriamente terapeutiche.
Il vero problema è come costruire questa storia personale, come rapportarla al collettivo, in quale angolatura porre questa biografia particolare, come fare emergere l’uomo e il suo rapporto con il mondo, come porsi di fronte all’individuo biografato senza limitazioni dettate dall’antinomia «normalità / follia», senza preconcetti dogmatici, né proiezioni ideologiche.
Questo, però, è estremamente difficile perché presuppone un atteggiamento, una consuetudine, una rigorosa posizione di ascolto, un collaudato controllo dei limiti e dei sentimenti del biografo, una approfondita conoscenza del rapporto intersoggettivo con gli accadimenti del biografato.
 
Durante la discussione che si sviluppò allora, annotai alcune frasi chiave:: le scelte del biografo, le fonti storiche, il rapporto con la biologia, il mito, il carisma, la committenza, la metodologia.
 
1 Il biografo sceglie il personaggio in base a determinati problemi di carattere storico, lo psichiatra dell’istituzione – se vuole dare un senso al suo lavoro – è obbligato a frugare in quell’umanità apparentemente perduta della follia nel tentativo di suscitare una presenza da un’assenza, una parola dal silenzio, un soggetto da una macchina biologica desueta.
 
2 Le fonti storiche sono i “lungodegenti”, i “cronici” degli ospedali psichiatrici, coloro che hanno perso diritto d’asilo sociale all’interno della collettività. Non sono certamente vicende di uomini illustri, biografie di personaggi di valore storico (o almeno raramente e in misura statisticamente esigua), ma piccole drammatiche storie di gente ridotta ad «oggetto», a «numero»; biografie speciali collettive di gruppi marginali dove si tende a ripristinare un minimo di individualità, di umanità ed eventualmente quel potenziale inespresso di creatività.
 
3 Il rapporto tra biologia e storia, tra natura e cultura, tra individuale e generale, cui accennava in maniera efficace Levillain, è un passaggio molto importante e molto complesso della scienza, perché costituisce un tentativo di interpolazione tra scienze  cosiddette esatte e scienze sociali che trae spunto da una lezione esemplare della biologia macromolecolare. Essa ipotizza la costruzione dell’ordine dal disordine (si vedano in proposito autori come J. Monod, F. Jacob, E. Morin).
 
4 Brevissime considerazioni sul mito e sul carisma: in proposito vorrei porre il problema di quanto incida l’effetto alone dei mezzi di comunicazione di massa nella propalazione del carisma e in una certa misura anche del mito. Qui io trovo una esemplificazione dei rapporti tra individuale e generale, tra interpreti di un ruolo e spettatori dell’interpretazione che osservano, dove, in un clima sciamanico cessa il flusso di intersoggettività. Può succedere, è successo, e non solo in una relazione psicotica. Io ritengo che la comprensione di ogni accadere storico, di ogni meccanismo mitico o carismatico non possa prescindere dalla analisi della interattività reciproca di questi due estremi.
 
5 La committenza delle biografie è di vario tipo. Generalmente rimanda a un progetto politico e dunque richiama la necessità di leggere filosoficamente la storia. Ma può anche concernere il ritmo biografico, la temporalità storica, i momenti esistentivi che scandiscono l’evoluzione e lo scorrere biologico dell’individuo. Ciò rende necessario tener costantemente presenti: lo sviluppo, la prima comparsa sociale (o la disconferma sociale nel caso del “disturbo mentale”), gli incidenti di percorso, le infermità (o l’asilarizzazione permanente nel caso della follia povera), le scelte della vita matura, la morte.
 
6 Quanto alla metodologia, nell’approccio biografico della follia, mi sono attenuto all’analisi antropofenomenologica, che differisce da quella psicoanalitica (freudiana),  da quella basata sulla psicologia del profondo (junghiana), dalla comportamentale e così via. Il tipo di indagine che ho usato nello studio della popolazione emarginata degli ospedali psichiatrici, parte dall’analisi antropofenomenologica introdotta in psicopatologia da Ludwig Binswanger .
 
Oggetto della ricerca è il rapporto Io-Mondo, ovvero come l’Io si progetti nel mondo e si riveli, esprimendo questo progetto. Si tratta di un’indagine dell’essenza modale dei tre termini con cui si articola l’essere-nel-mondo di un certo qualcuno (Cargnello); illumina nell’accezione diltheyana di Erhellen il chi-è, come- è il mondo-in-cui-è.
Il problema più importante, nell’esperienza presente dello psicopatologico è quello di non eludere la prassi di collegare la sofferenza attuale con le sue cause lontane, di contrappuntare il personale con il collettivo, di non tralasciare alcun tentativo di leggere l’inintelligibile del paziente nel contesto che lo ha espulso (o da cui si è alienato) e di aiutare il paziente stesso a rientrarvi o, quanto meno, a comprenderne la reciprocità dei meccanismi alienanti, ma soprattutto dare un senso a ciò che sulle prime potrebbe apparire in-sensato.
È proprio qui che interviene anche nello psichiatra, come nello storico, quel fenomeno dell’intuizione di cui è stato discusso tra Sergio Romano e Rosario Romeo: l’Einfuhlen di Gruhle (1880-1958), cioè il comprendere per immedesimazione, l’intuition di Bergson, al fine di riempire i buchi, gli strappi, le smagliature del continuum esistenziale della follia, massimamente di quella istituzionalizzata. In un certo senso si tratterebbe di acchiappare gli archivi del silenzio per farli parlare come diceva Brunello Vigezzi chiosando una finissima dialettica tra Furio Diaz e Gabriele De Rosa a proposito della storiografia dei silenzi.
Quando all’interno dei manicomi si trovano certi gruppi di persone come ad esempio donne con una particolare espressività psicopatologica di rifiuto totale, anziani con improprie etichette di demenza, emigranti con frettolose diagnosi di schizofrenia, bambini con inappellabili giudizi di pericolosità, soggetti poveri, bollati dal marchio della improduttività e irrecuperabilità, che cosa, se non l’intuizione, può aiutare lo psicopatologo a tentare di costruire delle biografie collettive, a tracciare dei profili umani che necessitano di una vitalizzazione personale?
Nel dibattito, notai allora, che si parlò tanto di biografie di “uomini rappresentativi”, si disse anche dell’interesse di studiare i quadri intermedi, bassi e medio-bassi di uomini politici. Ebbene io chiedo chi, come e dove, si deve porre il problema della gente che non è neppure un “quadro”, né intermedio, né basso, ma che fino al 1978, ha vissuto  semplicemente ai margini della società, ovvero negli asili della follia?
Questo mi sembra anche un problema di coscienza oltreché un grande tema sociale. La chiusura dei manicomi, almeno per quanto riguarda l’Italia, può essere considerata una risposta? Io credo di sì, se ciò significhi la cessazione della pessima abitudine e della cattiva coscienza di chiudere, occultare, cancellare la diversità, marginalizzando, l’umanità perdente in quei luoghi dove, fino a prima della “180”, non si è parlato, non si è fatto biografia, non si è fatto storia, non si è fatto nulla. Si è dato luogo alla terribile nientificazione di un tempo inconosciuto da trascorrere in cattività.
 
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Tutto sommato, mi pare che questa sontuosa presentazione napoletana di S. Biagio dei Librai, a Palazzo Marigliano, la cornice immaginata e voluta da Fausto Rossano che, non dimentichiamolo è di Ercolano, dunque originario degli “Osci” (popolo di lavoratori) e a questo punto comincio a pensare seriamente che abbia una  marcia in più rispetto a noi comuni mortali, sia solo un pretesto. In realtà lo scopo più ambizioso, il suo, potrebbe essere quello di promuovere una koiné culturale di più grande respiro com’è l’idea di riunire e mettere in collegamento fra loro appassionati di scienze dell’uomo, studiosi di storia della psichiatria e storici per davvero. Tra l’altro siamo a due passi da Palazzo Filomarino, scusate se è poco. Peraltro, stamane ci onora della sua presenza il prof. Francesco Barbagallo, Ordinario di Storia Contemporanea e direttore del Dipartimento di Discipline Storiche della “Federico II” di Napoli. Sua è anche la direzione, dal 1983, della gloriosa rivista trimestrale di storia “Studi Storici” dell'Istituto Gramsci fondata da Manacorda nel 1959.
La parte tecnica che riguarda tutto il valoroso personale dell’archivio e il loro paziente lavoro – anche se non ho competenze archivistiche, pur frequentando assiduamente biblioteche – mi pare molto bene impostata e correttamente suddivisa nell'attività di recupero dell’Archivio storico. Ripulitura e deumidificazione delle cartelle cliniche, bonifica dei luoghi e delle carte, ordinamento, inventariazione, impostazione della scheda informatica di rilevazione, inizio della schedatura e dei CD ecc. Napoli è un caso particolare perché pare ci siano “fascicoli personali”. Credo, per quanto possa valere il mio giudizio che la riorganizzazione della Biblioteca con la compilazione di tre cataloghi: uno del libro antico, uno delle monografie e un terzo dei periodici sia eccellente. Mi pare un’ottima disposizione strategica per fornire a quanti vorranno frequentare il “Centro Studi Antonio D’Errico” un efficace e utilissimo strumento di lavoro.
Sono stato molto vicino a Tommaso Losavio e ad Antonino Jaria che hanno pubblicato un’opera voluminosa sulla storia del Santa Maria della Pietà e vi hanno allestito un museo storico con reperti delle stanze e delle terapie di un tempo (pagliericci, letto di contenzione, gabbiette delle zanzare per la malarioterapia, fasce di contenzione, ecc). Ho avuto anche frequenti contatti con gli archivisti di Reggio Emilia. Sono andato a fare una conferenza sulla “doppia diagnosi” alla “Brusegana”, il manicomio di Padova, e così ho potuto visitarlo.
L’anno scorso ho parlato con Franco Bellato il Collega di Lucca che cura l’attività museale e conserva gli archivi dell’antico Monastero dei Canonici Lateranensi di Santa Maria di Fregionaia, poi donato allo Spedale lucchese di San Luca della Misericordia e infine divenuto il Regio Manicomio di Castelpulci (Maggiano), insomma l’OPP dove praticamente ha vissuto Mario Tobino quasi in eremitaggio fino alla morte, dopo esser tornato dalla campagna d’Africa della seconda guerra mondiale. So che c’è un gruppo consistente di ex manicomi che fanno questo stesso lavoro di recupero che fate voi. Ciò fa ben sperare.
 
A proposito delle minibiografie di esseri umani sepolti nelle cartelle cliniche dei manicomi, quelle che speriamo si possano rintracciare e recuperare negli archivi superstiti dei manicomi abbandonati (almeno quelli storici), penso alla resurrezione. Rileggendo quelle carte fragili della follia, che ancora (si spera) ne racchiudano le storia di vita, le memoria, il ricordo, le testimonianze di legami, passioni, furori, ora tutti sopiti, in religioso silenzio come in una Chartreuse; riflettendo sul progetto di renderle fruibili per chi verrà dopo e avrà curiosità di leggerle, mi viene in mente, per concludere, un sonetto di Giuseppe Gioacchino Belli Er giorno der giudizzio
 
“… Allora vierà su una filastrocca
De schertri da la terra a ppecorone,
Pe ripijà ffigura de perzone
Come purcini attorno de la biocca.
 
E sta biocca sarà Dio benedetto,
Che ne farà du' parte, bianca, e nera:
Una pe annà in cantina, una sur tetto…”
 
Qui la biocca, la chioccia, sarà lo studioso, il ricercatore  che farà le sue partizioni, le sue schedature, il suo DSM se volete, le sue congetture etiopatogenetiche: una bianca e una nera, ma anche una infinita sfumatura di grigi, dalle schizofrenie paucisintomatiche, ai disturbi di personalità, alle doppie diagnosi di oggi, per leggerne le forme in cui si presentavano un tempo, neppure molto lontano, con termini ormai desueti: isteria, ipocondria, psicastenia, esaurimento nervoso, eretismo, catatonia. Perché non riprenderne a parlare curiosando fra le vostre preziose carte che andate riordinando?
 
Note
1. Carla Cerati, Bergamo, 3 marzo 1927, fotografa e scrittrice italiana. Il titolo dell’immagine è foto pazzi Colorno.
2.  Ne elenco qualcuna. Luigi Lugaresi. Il luogo dei sentimenti negati. L’Ospedale Psichiatrico di Rovigo (1930- 1997). Graziella Magherini. Le prime istituzioni per folli a Firenze: Santa Dorotea dei Pazzerelli (1643) e Pazzeria di Santa Maria Nuova (1688), Massimo Marà. Le idee, i vissuti, i tentativi, le prassi anti istituzionali nell’Ospedale Psichiatrico S. Maria della Pietà dal 1968 a 1980.  Luigi Massignan La casa di salute di Montecchio Maggiore nella storia della psichiatria veneta. Sergio Mellina. Psiche psichiatria: breve storia di un conflitto irrisolto. Il nodo imbarazzante dell’Anima. 2001: “Rivista di psicologia analitica”, 12, 2001, pp. 75-88
Sergio Mellina. Gli archivi degli ospedali psichiatrici come possibili fonti storiche dell’emigrazione italiana. Ministero per i beni e le attività culturali - Direzione generale per gli archivi, 2002, Roma. In monografia: “L’emigrazione italiana 1870-1970”, vol. I, pp. 493-498. Atti dei colloqui di Roma (19-20 settembre 1989, 29-31 ottobre 1990, 28-30 ottobre 1991, 28-30 ottobre 1993). Sergio Mellina. La realtà psichiatrica del “sogno americano”: storia di un’emigrata.  Roma. Ministero per i beni e le attività culturali - Direzione generale per gli archivi, 2002. In monografia: L’emigrazione italiana 1870-1970, vol. II, pp. 1201-1207. Atti dei colloqui di Roma (19-20 settembre 1989, 29-31 ottobre 1990, 28-30 ottobre 1991, 28-30 ottobre 1993)
Villone Giovanni, Musci Leonardo, Lupo Emilio, Rossano Fausto, Tramontano Donatella. Chiude il manicomio, apre l’archivio. Progetto di recupero e fruizione dell’archivio del “Leonardo Bianchi” di Napoli.. Editore: Ministero per i beni e le attività culturali - Direzione generali per gli archivi Roma 2001.
3. Si veda Tutti allucinati Psychiatry on line Italia
4. Carlo Petrini Repubblica 15 marzo 2011, pagina 40.
5. Si veda de Martino Psychiatry on line Italia
6. Il Calore Irpino o Beneventano, si badi bene, non il Calore Lucano, quello che scorre nella piana del Sele e vi confluisce, un fiume della Campania lungo 108 km, principale affluente del Volturno.
 
7. All'altezza media di circa 130 m, con un'estensione di oltre 10 km² attraversata dal medio Calore e più a sud quella della piana di Solopaca dove il Calore si getta nel Volturno, all'altezza media di soli 50 m con una superficie di circa 36 km², e la pianura precedente, tra il Ponte Maria Cristina e la stazione di Casalduni.
8. Commentario ai regolamenti della custodia manicomiale nel“Santa Maria della Pietà”di Roma. Riv. Sper. Freniatr., Reggio Emilia, CIV, Suppl. al Fasc. IV pp. 1115-1126, 1980; e Pauperismo follia e carità in Roma. Il manicomio di “Santa Maria della Pietà”dal ‘500 ai nostri giorni. Riv. Sper. Freniatr., Reggio Emilia, CIV, Suppl. al Fasc. IV (1303-1320), 1980.
9. Alceo Riosa (1939-2011), insigne studioso, ha insegnato Storia contemporanea alla Facoltà di Scienze politiche dell'Università Statale di Milano. È stato autore di saggi sulla storia del socialismo e sulla "questione" della nazione e del nazionalismo, tra cui Rosso di sera e Storia del sindacalismo rivoluzionario. Ha collaborato a numerose riviste scientifiche e culturali. È stato membro del comitato scientifico della rivista storica francese «Mil neuf cent. Revue d'histoire intellectuelle» ed è stato direttore responsabile de «Gli argomenti umani».
10. Milano in guerra 1914-1918. Opinione pubblica e immagini delle nazioni nel primo conflitto mondiale. A cura di: A. Riosa. Unicopli, Milano 1997.
11. Sergio Mellina (1981). Biografie dei marginali. [Relazione] in Biografia e storiografia, [Atti del seminario promosso dalla Fondazione G. Brodolini e dall’Istituto di diritto del lavoro e di politica sociale dell’Università degli Studi di Milano, a cura di Alceo Riosa, Milano, Franco Angeli, 1983, pp. 65-73 e 124-128 (Studi e ricerche storiche, 29)]. Testo integrale della relazione presentata al convegno della Fondazione Giacomo Brodolini (9 ottobre 1981). In: Riosa Alceo (curatore) “Biografia e Storiografia”. De Felice / De Rosa / Diaz / Lo Cascio / Levillain / Mellina / Nello / Riosa / Romano / Romeo / Vigezzi ”Fondazione G. Brodolini”. Franco Angeli, Storia, Milano, 1983.

 
 

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