LE RICORDANZE - SECONDA PARTE Primi passi nel territorio.

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20 agosto, 2018 - 11:33

 
La mappa non è il territorio
Alfred Korzybski "General Semantics "
 
 
Nota introduttiva
 
California, anni Settanta del secolo scorso.
 
Ho avuto qualche perplessità nel mettere in esergo l’ambigua frase di Alfred Korzybski (1879-1950), un ingegnere di Varsavia, successivamente utilizzata anche da Gregory Bateson (1904-1980),un antropologo inglese, perché quando un concetto è chiarissimo, ma le stesse parole vengono usate da studiosi differenti per sostenere tesi simili in campi di diversi oppure, unificando la diversità dei campi di ricerca in virtù della similarità dei metodi di ricerca, allora la confusione è garantita e totale. Solo che passò inosservata, anzi se ne trassero risultati positivi. Bisognava solo saperli estrarre dal mucchio. Nondimeno, si può essere d’accordo nel riconoscere che la California degli anni Settanta del secolo scorso è stato l’eldorado delle idee, alcune delle quali ci riguardano direttamente come “psichiatri”. Non prenderò molto tempo per rammentare brevemente che una sorta di auto-terapia psicologica, auto-aiuto, e life coaching, battezzati col termine PNL (programmazione neurolinguistica) nell’ipotesi mai scientificamente dimostrata, ma neppure strampalata, che tra il linguaggio, il comportamento e il sistema nervoso vi fosse una interdipendenza, recò grande successo a una coppia fortunata: Richard Bandler e John Grinder. Psicologo il primo, linguista il secondo. Si dette il caso che in questo momento felice balzò alla ribalta un personaggio incredibile Milton Hyland Erickson (1901-1980) uno psichiatra di Aurum nel Nevada, con la  sua ipnosi conversazionale. Le credenziali accademiche erano più consistenti, così come erano evidenti i suoi handicap neurologici, cui si aggiunsero due attacchi di poliomielite. I sui lavori e le sue tecniche incuriosirono Bateson, quello del double bind, detto per inciso, il quale inviò alcuni clinici competenti a studiarle.
 
Ma l’operato e il successo straordinario (diciamo pure una sorta di poteri magici) di uno psichiatra ipnotizzatore, oltretutto male in arnese fisicamente, che aveva sconfitto ben due attacchi di polio, dimostrando in corpore vili di essere più forte di qualsiasi antigene/anticorpo vaccinale, influenzarono il pensiero di Jay Haley (1923-2007) uno psichiatra statunitense del Midwest (Wyoming) e anche quello del carinziano Paul Watzlawick (1921-2007), quanto dire la Scuola di Palo Alto, dunque la cosiddetta “terapia breve”, o “terapia sui sintomi, hic et nunc”, o anche sulle “relazioni interpersonali”, e perché no “terapia familiare sistemica”. Diciamo pure una fra le “eccellenze” di questi ultimi sessant’anni, a patto di non dimenticare di aggiungerci il Milan Approach, di Mara Palazzoli Selvini (1916-1999), con quelli della Scuola di Milano di terapia familiare (Boscolo, Cecchin, Prata) e di ricordarne il fondatore: lo psichiatra statunitense Donald de Avila Jackson (1920-1968), allievo di Harry Stack Sullivan (1892-1949).
 
Ecco, sono sinceramente persuaso che questo immenso e ricchissimo coacervo di prospettive terapeutiche californiane, sia sufficientemente bastevole a farmi vincere le mie iniziali esitazioni per definire con sei parole (La mappa non è il territorio), siano esse da intestarsi a un ingegnere di origini polacche o ad un antropologo dell’Inghilterra centro-orientale, quella che dopo tutto non era Ushuaia nella Terra del Fuoco, ma molto semplicemente una delle 20 Circoscrizioni del Comune di Roma poi ridotte a 19. È del tutto evidente che si trattava di “resistenze”, ma non avrebbe potuto essere altrimenti, perchè l’impresa di organizzare, per la prima volta in vita mia, l’assistenza psichiatrica territoriale, puntando il dito su una zona della cartina di Roma-Capitale, fosse un po’ come giocare alla roulette. Va da sé che ciò che tu vivi, incontrandolo direttamente per esperienza, non è ciò che tu immagini perché te lo raccontano. E neppure corrisponde a quanto tu hai visto sulla carta geografica. Sempre supponendo che i cartografi dessero un nome ai luoghi studiati e non indicassero semplicemente Hic sunt leones come riportavano le antiche carte romane per indicare le zone inesplorate dell’Africa.
 
 
1. 2 ■ L’applicazione della 180 sul territorio
 
Finalmente, dopo la temeraria impresa di aver aperto e inaugurato, se non il primo, uno fra i primi “SPDC” romani, quello del “San Giovanni” durante l’estate del 1978 (fine maggio primi giugno), venne il sospirato momento del territorio. Non fu cosa semplice, come ho già anticipato, ma in fondo, nulla di codesta “180”, lo era stato e neppure tutto ciò che ne seguì, fu realizzato in modo lineare e senza complicazioni. La parte più difficile doveva ancora presentarsi e non è detto che oggi, dopo 40 anni, le difficoltà siano scomparse. Neppure grandemente scemate, anzi!
 
Intanto come primo atto amministrativo si doveva espletare il concorso per l’assegnazione dei responsabili dei settori dipartimentali. Una specie di “primari psichiatri” a capo delle organizzazioni territoriali di prevenzione, tutela, presa in carico e riabilitazione della salute mentale o dell’eventuale disturbo una volta che si fosse manifestato, anche in forma acuta. Ebbene, fu l’ultimo compiuto dall’Amministrazione Provinciale e avvenne nel 1980. Rammento che a riprova del fatto che tutto si svolse con limpidezza e assoluta regolarità fu sottolineato il dato che, il Prof. Ferdinando Pariante, uno dei due direttori del Santa Maria della Pietà, dimessosi dal ruolo, aveva partecipato al concorso con tutti gli altri concorrenti. Se la memoria non mi tradisce, su base volontaria, nelle 20 circoscrizioni/municipi di Roma vennero nominati dall’Amministrazione Comunale i 20 vincitori. In nuce, una sorta di “psichiatria di rete”.
 
A quanto ricordo la mia scelta (ideologica senza dubbio) fu orientata dal fatto che il territorio dovesse essere privo di strutture sanitarie impostate sui vecchi principi istituzionali che avevamo superato. Avrei contribuito io stesso a crearne di nuove, collegialmente con gli altri colleghi e i rappresentanti del territorio, curando che fossero libere, accessibili, democratiche e necessarie alla popolazione. Ingenuità imperdonabile, ma diciamo pure dabbenaggine vera e propria. C’erano circoscrizioni che potevano disporre di abbondanti strutture sanitarie come ospedali ambulatori cliniche convenzionate ambulatori mutualistici (INAM, INPDAP ENPALS INAIL ENPAM e via dicendo) strutture riabilitative, aree di studio e di controllo per le attività sportive ed altre dove non c’era assolutamente nulla. Poteva capitare, e capitò, a Fausto Antonucci (V), a Nino Lo Cascio (VII) e a me (VIII, cui poi venne aggiunta la X per abbandono della Collega Anna Maria Tarantini), ma in fondo ce l’aravamo cercata e nessuno di noi fece mai obbiezione di sorta. Per dirne una, se ti fosse capitato di avere un incidente (piccolo eh?) in via di Torre Spaccata, avresti fatto prima a raggiungere il pronto soccorso di Frascati che quello del San Giovanni.
Per fortuna nel mio Municipio, sarebbe sorta, in seguito, la seconda università statale romana al Policlinico di Tor Vergata e il Policlinico Casilino (la vecchia “Villa Irma” poi convenzionata con la Regione Lazio). Ma dal 1978 c’era già a Villa Gentile la  Cattedra psichiatrica di Nicola Ciani, (la III) trasferitasi da Via di Villa Massimo, che aveva dato risalto all’impostazione filodinamica e psicoanalitica.
 
 
2. 2 ■ Articolare un pensiero scientifico procedendo per tentativi ed errori.
 
Sul come fare per predisporre un piano scientifico che ci consentisse di raggiungere gli scopi della 180 applicandone i principi fondamentali sul territorio ci soccorse qualche spunto tratto dal pensiero della filosofia politica del viennese Karl Popper (1902-1994) allora molto in voga e studiato ma anche molto contestato.
Da un lato, tanto per cominciare, non v’era alcun dato certo oltre il fatto che il manicomio fosse un luogo violento oltre che antiterapeutico, emarginante, inutile, e, tutto sommato anche costoso, per ciò che doveva servire. Quel tipo di reclusione, con annessa la totale perdita dei diritti civili e politici, per giunta, era inaudita, ma non garantiva niente e nessuno. Se non la cattiva coscienza di chi si sentiva garantito dalla “follia” (ben rinchiusa), dalla sua “pericolosità” (solo presunta) e dal “pubblico scandalo” che si pensava dovesse suscitare l’alienato, mentre il poveretto era solamente celato alle pubblico fastidio e sottratto alla pubblica pietas.
Ecco, se da un lato tutto questo era moralmente ingiusto criminoso e da cambiare, dall’altro aveva poca evidenza scientifica, nel senso positivistico del termine, sul quale incardinare un ragionamento di base partendo da elementi scientifici inconfutabili, quali ci si aspettava che uscissero, dopo tutto, da tecnici della salute mentale che avevano fatto 6 anni di medicina, tre di specializzazione e vinto un concorso di area medica. Una contraddizione, e non da poco, messa subito lì di traverso sulla strada del territorio come un macigno con cui fare i conti, subito.
Ecco ancora, che se ti fossi domandato che cosa fosse scientifico e cosa no, di tutto quello che ti apprestavi a fare, Popper ti avrebbe chiesto di applicare il principio di verificazione, praticamente impossibile per empiria, mentre ti avrebbe suggerito di non partire dall’osservazione, bensì dal pensiero, dall’immaginazione attraverso le quali noi facciamo (insieme agli animali) ipotesi o congetture, creiamo modelli speculativi di pensiero che guidano le nostre esperienze per tentativi ed errori [1].
 
Per l’appunto laggiù, in Via di Torrespaccata, dove mi ero andato ad infilare, in un complesso edilizio di cui vi dirò più avanti, sulle prime mi trovai a pensare, anche per motivi di solitudine, che la filosofia politica di Francesco Bacone (1561-1626), forse era completamente sbagliata. La sua accanita partigianeria per una rivoluzione scientifica basata sul metodo induttivo fondato sull'esperienza non mi convinceva più tanto, nell’Ottavo Municipio di Roma. Al contrario, pensavo di poter trarre maggior profitto scientifico dall’analisi delle contraddizioni e dai tentativi di falsificazione di ciò che mi circondava seguendo la lezione di Popper.
 
E se invece le cose stessero diversamente perché come più volte aveva insistito Ninì Vizioli si trattava di scienze umane? Ma in effetti, non è che la compagnia fosse abbondante. Come vi accennavo, tutto il mio gruppo si riduceva a Tonino Marasca, l’Aiuto, Alfredo Ancora, uno specialista SUMAI, tre quattro infermieri un paio di assistenti sociali e alcune “Animatrici/ori”, una strana figura di collaboratori con qualche competenza di psicologia o soltanto provvisti di molta buona volontà, assunti al volo dalla Regione Lazio con un’idea veramente geniale: dare una mano a tutti e riempire in qualche modo le enormi carenze di organico. Vale la pena di sottolineare che tutti erano volontari.
 
 
3. 2 ■ Eh bien! Dansez maintenant.
 
Ci fu un tempo, di quando tutto era assolutamente nuovo nel “territorio” e tutto da inventare, ma soprattutto da trovare, che mi venne in mente La Fontaine. Se qualche paziente e benevolo lettore ha la compiacenza di dare un’occhiata (qualche volta e distrattamente) a questa mia centottanta di quarantenni, narrata sul filo del ricordo, può darsi  rammenti che per la lingua francese, mi era capitata un’insegnante piemontese con una erre spagnola. Bene, costei, ad ogni buon conto, era molto appassionata dello scrittore e favoliere Jean de La Fontaine (1621-1695), della brevità e dell’efficacia didattica delle sue storielle, massime per la morale palese racchiusa in ciascuna di esse, facile, comprensibile, ma anche spietata, se non crudele. Entrambe: la morale e l’insegnante. Quando ti ordinava di mandare a memoria una di queste favole, non l’avresti più dimenticata. Bene, al tempo in cui cercavo di “esplorare il territorio”, avevo un tarlo che mi ronzava per la testa: «La Cigale, ayant chanté / Tout l'Été, / Se trouva fort dépourvue / Quand la bise fut venue...». È vero che il vento dell’inverno non era ancora sopraggiunto, e non era da sottovalutare poiché eravamo sistemati per i primi 2/3 anni in una grande palestra con enormi vetrate e dei pannelli separatori per ricavarne le stanze, ma ricevevo molti amici che guardavano il mio ufficio on po’ stupefatti. «Eh! Caldo d’estate, freddo d’inverno», era il commento più benevolo.
 
Un giorno però arrivò un Collega che infilò il dito dritto nella piaga fino a scoprire quella che poi divenne un tema da trattare: “L’identità dello psichiatra”. Non è che disse cose trascendentali, ma pose semplicemente il seguente quesito guardandomi fisso negli occhi: «Io capisco tutto, anche la Riforma Sanitaria, ma tu mi devi spiegare perché, fra tutti i colleghi dell’area medica/ospedaliera, siamo gli unici che dobbiamo venire qui all’angolo di Torre Spaccata ad aprire tutti i santi giorni il nostro “suk” [2] socio sanitario al pubblico di ogni genere e senza invio specifico».
 
Certamente Torre Spaccata non era accogliente e, oltretutto, per andarsi a prendere un caffé bisognava risalire tutto il muro di cinta esterno del Collegio ex-ENAOLI, il perimetro esterno di un campo di calcio regolare, verso Cinecittà, ma il “rospo”, come si suol dire, era stato “sputato”. Difficile dire chi, fra tanto entusiasmo, fosse sicuro che questa disparità (tra Colleghi dell’area medica/ospedaliera) fosse all’origine del malessere, ma il disagio c’era. Nessuno di noi sapeva bene in che direzione guardare, anche perché nessuno sapeva veramente in che cosa dovesse consistere codesta psichiatria riformata. Non erano le pratiche forti e i saperi deboli, come si diceva allora, ad essere ripugnanti. Era semmai quello che non ci aveva insegnato la preponderante neurologia o avevamo dimenticato di studiare e d’imparare perché genericamente bollato come “non scientifico”. Nondimeno nella clinica di Gozzano una prima grossa scrematura si era prodotta. Al rez-de-chaussée, tanto per dire, a destra di chi sale c’era la “psichiatria donne” di Gian Carlo Reda, dove spesso erano invitati ospiti illustri italiani e stranieri a tenere conferenze (ne ricordo una di Franco Basaglia, prima che andasse a Gorizia). Teneva la sezione psichiatrica della scuola di specializzazione, quando ancora si chiamava Clinica delle malattie nervose e mentali. Ricordo che, a fine anni ’50, tra gli specializzandi di Reda, c’era già una fucina di ricercatori e sperimentatori, molti dei quali sarebbero diventati famosi continuando con la psichiatria, la psicoanalisi, la psicoterapia di gruppo, le comunità terapeutiche, le attività e le terapie psicosociali, l’antropofenomenologia, la politica sanitaria e via dicendo.
 
Altri famosi lo erano già, perché giunti a Roma con Mario Gozzano. Luigi Flavio Frighi (1922-2004), Isidoro Isacco Tolentino (1922+1967), Gianfranco Tedeschi (1924+2003), Mario Moreno (1928-1983). Invece alla sinistra di chi saliva il predetto rez-de-chaussée, c’era la “psichiatria uomini”, dove insieme ad alcuni ex-allievi di Ugo Cerletti, c’era Bruno Callieri (1923-2012) che faceva la sua sensazionale scoperta descrivendo per la prima volta l’esperienza delirante di fine del mondo (Weltuntergangserlebnis). Uno studioso cui la cultura psichiatrica europea e mondiale deve molto. E non era tutto. Nel seminterrato, il vercellese di Cigliano Giovanni Bollea (1913-1911) aveva inventato e rodato – prima di trasferirsi in Via dei Sabelli – una Neuropsichiatria Infantile nuova di zecca per quei tempi in Italia. Si può dire che non si era verificato nulla di simile dai tempi di Sante De Sanctis (1862-1935) da Parrano (TR) e di Maria Montessori (1870-1972) da Chiaravalle (AN), morta in Olanda.
Ecco non è che di psichiatria fossimo propriamente digiuni noi che giungevamo sul territorio dal manicomio di Santa Maria della Pietà. Ma che qualcosa non andasse per il giusto verso e alcuni si sentissero di dover contare solo sulle proprie forze era evidente.
Intanto bisognava far tesoro di un avvertimento: non chiedere nulla a chicchessia, men che meno alle formiche. Tanto la risposta la sapevamo. «Que faisiez-vous au temps chaud ? / Dit-elle à cette emprunteuse. / — Nuit et jour à tout venant / Je chantais, ne vous déplaise. / — Vous chantiez ? j'en suis fort aise. / Eh bien !dansez maintenant». E, se ci pensate, la risposta della formica era terribilmente identica a «malato tuo» «malato mio» dei “Piccoli Primari di Medicina” del San Giovanni.
 
 
4. 2 ■ Il ”ruolo” dello psichiatra
 
Oggi, a distanza di 40 anni, mi sono andato a rivedere un po’ di letteratura sul “ruolo” dello psichiatra. Ecco se c’è una cosa che mi mette di cattivo umore è tutto quanto concerne il “ruolo”, il “disciplinare”, la “normativa” l’“obbligo” il “mansionario”, “ciò che mi compete”, “questo non mi spetta“, spesso storpiato in “mi aspetta” e via parlando, con questo linguaggio approssimativamente sindacaleggiante.
In effetti ho trovato che il tema è stato affrontato da colleghi illustri, perché il passaggio degli operatori, diciamo così, in termini molto generici, da un luogo conosciuto e vituperato come il manicomio, prima della “180”, al “territorio”, dopo il 13 maggio 1978, poteva presentare delle serie complicazioni. E ne causò più d’una, perché c’erano molti posti da visitare e da conoscere, ma non si sapeva bene quali fossero, né come si facesse a selezionarli. Forse c’era da fare delle “presentazioni ufficiali” tra quelli della salute mentale, i nuovi arrivati, e i rappresentanti del territorio, ossia i padroni di casa. Ma forse non bastava la presentazione. Occorreva anche spiegare bene il nostro specifico ovvero in cosa consisteva la “psichiatria” e “l’agire psichiatrico”. Mi è sembrato che il modo più efficace e attuale di affrontare il tema in discorso fosse quello di presentare una breve panoramica di opinioni di colleghi convocati al Convegno SOPSI 2012 e registrati in rete su Psychiatry on line Italia Video per tracciare l’identità dello psichiatra [3].
 
Inizia Filippo Maria Ferro facendo osservare che, a differenza delle altre discipline mediche, quali ad esempio la cardiologia «La psichiatria s’incontra con delle realtà psicologiche, delle realtà psicosociali che sono degli specchi… delle varie culture in senso geografico, ma anche in senso cronologico, [e] l’avvicendarsi delle generazioni, per cui l’oggetto della psichiatria, l’unico aspetto della psichiatria invariante, è quello di confrontarsi con delle visioni del mondo e di stabilire se queste visioni del mondo, in qualche maniera sono qualcosa di condiviso o meno in quel contesto… [dunque] l’oggetto dell’osservazione, che in realtà è un soggetto di una visione del mondo, è estremamente variabile ed altrettanto variabile è la visione del mondo di chi l’avvicina… quindi c’è una situazione di interazione e di relazione estremamente complessa che sposta continuamente il punto di osservazione…».  
«… lo psichiatra che opera in senso professionale e lo psichiatra che opera a livello territoriale… che si confronta … quotidianamente … con dei pazienti, ha una necessità fondamentale che è quella di educarsi sostanzialmente alla relazione»
 
Per Luigi Ferrannini, la psichiatria, originandosi da una “storia debole” per molti motivi, ha necessità di «rifondarsi perché il paradigma stesso della malattia mentale e quindi il paradigma delle discipline di cui si occupano i suoi professionisti è in continuo movimento, che non è fatto soltanto di elementi connessi al corpo e al funzionamento del corpo, ma [anche] fatti da elementi che sono collocati fra l’intreccio del corpo e il funzionamento della persona ed entrano nella vita dì quella persona». Più avanti si dice preoccupato se i problemi « poi diventano un modo per parlarsi addosso e per non procedere … guardando il futuro e costruendo il futuro»
 
Claudio Mencacci, sottolinea il fatto che siano stati trascurati i giovani psichiatri in formazione, i quali hanno ricevuto più dubbi che certezze. A suo avviso il difetto è antico, perché «… il nostro dibattito mente cervello, corpo mente, … si è svolto spesso in maniera lacerante … con una capacità di creare sempre fronti contrapposti». Mentre i colleghi delle altre discipline mediche non hanno mai avuto problemi né a fare diagnosi né e prescrivere terapie, «… gli psichiatri… [hanno esitato nel dire chiaramente che] hanno scoperto che esiste un cervello emotivo… [dunque] prendiamo questo come nostro vero contributo alla medicina… piuttosto che sentirci un po’ come specialisti a mezzo servizio, non si capisce se [per] la cura o .. anche [per] le aspettative della società. Io credo… che qui dentro ci sia la nostra identità, per il nostro futuro e dare … ai nostri giovani la consapevolezza che abbiamo delle basi altrettanto solide rispetto alle altre specialità». I colleghi, insiste Mencacci non si pongono i problemi che ci poniamo noi, dunque non si stupisce se a loro venga chiesta «la sopravvivenza al cardiologo [altrettanto che al] diabetologo … [mentre a] noi viene chiesta più la sorveglianza … più l’anticipazione delle anomalie comportamentali e questo ci porta un po’ fuori da quella che è l’area della specialità medica che a nostra volta noi non abbiamo mai voluto bene definire come tale perché questo ci avrebbe messo in una posizione di garanzia, meno insicura di quanto invece oggi ci ritroviamo a dover sostenere».
 
 
5. 2 ■ La psicopatologia e la questione della complessità.
 
Quattro anni più tardi, del Convegno sopra riferito, Filippo Maria Ferro [4], tenta di approfondire se non l’identità dello psichiatra, almeno la natura del campo dell’agire psichiatrico, interrogandosi, in un altro Convegno SOPSI, sulla Neurobiologia dell’inconscio, un tema apparentemente impossibile. Il suo ragionamento, cha parte dalla psicopatologia, la nostra disciplina di base, e dalla questione della complessità, è di una chiarezza esemplare. Entrambe le tematiche non possono ignorare, tutta la messe di  novità, nozioni, apporti e scoperte, che vengono fornite dal complesso delle ricerche dell’area neuro-psico-fisio-biologica del sistema nervoso, nel corso del progredire della ricerca. Naturalmente, ciascuna di codeste novità, andrà di volta in volta opportunamente valutata, soppesata e verificata, ma innanzitutto cercate di essere comprese, nei limiti delle nostre specialità e delle nostre curiosità. Solo da questo tipo di collaborazione ci si potrà attendere un avanzamento di saperi nell’area del funzionamento mentale e quale sia la migliore pratica per tutelarne la salute.
 
La psicopatologia dice Ferro «non è una scienza fissa, non è una disciplina fissa in ordine alle cose nuove». Il contrario, invece, a suo avviso, rivela spesso «un tentativo riduzionistico di spiegazione che elimina la questione della complessità». Tutta la sua relazione è affascinante fin da quando, in una prospettiva storica, confronta un «positivismo felice»  menzionando «gli studi sui neuroni della fine dell’ottocento, Cajal, Golgi […] la fisiologia di Meynert [le quali] hanno portato … conoscenze assolutamente nuove che hanno dettato a Freud l’idea che si potesse concepire una psicologia scientifica e […] indotto Bleuler a modificare il concetto kraepeliniano»[5]. Specialmente se contrapposto a quello che lui richiama come «positivismo lombrosiano per citare il caso più famoso … scienza infelice nel senso che spiega con … dati, … scientifici, tra virgolette, dei fenomeni complessi».
 
Più oltre Ferro, come tentativo di dialogo tra eidos e bios senza eludere la questione della complessità, afferma – e mi pare di rilevante interesse – che «… la verità della scoperta psicoanalitica […] è quella di pensare che l’Io non sia un qualcosa di granitico ma sia una relazione complessa … perché [e qui l’oratore s’interrompe un attimo e il tono della voce si fa grave] badate che nel Freud non c’è questa nozione di inconscio come di una sede della psiche, ma c’è la nozione d’inconscio come … anche proprio nella trilogia … l’io si oppone all’es, che è l’impersonale, è come una voce di un concerto di cui può perdersi la regìa. Questa è una visione molto complessa di complessità, non è riducibile a un modello topologico semplice». Il passaggio non è facile ma vale la pena di soffermarsi e rileggerlo (o guardare il fermo immagine) più volte. Sempre Filippo Ferro in un altro passo successivo, ancora in tema di complessità, ammette: «Non c’è dubbio che la cosa – la “cosa” lo dico in senso freudiano – […] con cui la psicopatologia si confronta è ancora, e oggi più che mai, il dominio, anzi i vari domini delle neuroscienze. Del “neurobiologico”, perché io ritengo che, invece, tutto quello che è il confronto della psicopatologia con aspetti comportamentistici, con problemi psicosociali ecc. sia molto accessorio». E concludendo ribadisce: «… io credo che le interrogazioni vere, vengano su questa correlazione di complessità, tra lo psichico e quello che noi sappiamo essere la complessità del funzionamento biologico del sistema nervoso. Questo è il problema, gli altri problemi sono problemi accessori».
 
 
6. 2 ■ La psichiatria di frontiera di Gilberto Di Petta
 
Fra le tante mutazioni assistenziali prodotte dalla “180” e dalle tante strade aperte da un certo modo d’intendere la “libertà di comportamento”, non si può fare a meno di citare il fenomeno della “tossicodipendenza”, dei “SERT”, della “doppia diagnosi” e della “schiavitù” al mercato criminale dello spaccio di sostanze di abuso.
Gilberto Di Petta [6] lo abbiamo citato per ultimo, dopo molti interrogativi sul nuovo ruolo dell’operatore della salute mentale nella psichiatria riformata, perché parla dell’identità dello psichiatra dopo una durissima esperienza territoriale maturata in un SERT, agli inizi degli anni 90, quando ancora si somministrava il metadone. A sentirlo viene in mente Dante in un girone infernale senza Virgilio. Questa sua scelta intenzionale, per volersi mettere alla prova, un tentativo radicale, lo ha portato come lui stesso ammette a rischiare di “confondersi coi tossicodipendenti”.  
 
«Fui attratto – dice – da una folla di tossicodipendenti che alle 8 della mattina aspettavano il metadone. Allora non si affidava il metadone. […] iniziai a lavorare in un  SERT. I primi anni – ammette – sono stati piuttosto drammatici ho sentito innanzitutto la necessità di depsichiatrizzarmi e iniziare un lavoro corpo a corpo con queste persone. Arrivavano la mattina non si sa dove avevano dormito, dove avevano passato la notte alitavano alcol e benzodiazepine erano stracciati, diversi anche AIDS conclamata».
 
La sua descrizione è coinvolgente e quando lo ascolti raccontare, con passione, la sua esperienza ti par proprio di vederla. «Mi sembravano una folla di mendicanti di oppio. Io ero un dispensatore di oppio di Stato […] feci una scelta, di uscire dal vetro. Scavalcai quello del front office, dove c’erano gli infermieri, e mi mettevo ad aspettarli fuori a tentare di entrare in contatto con loro, a fumare una sigaretta, a volte un caffé, a farmi raccontare qualcosa e a vedere, ove mai ci fosse uno spazio per poter intervenire. Questo mi ha consentito in molti casi di cominciare a creare un campo di relazione con queste persone». Ma non ci fu verso di andare oltre. Bisognava prendere una iniziativa forte, perché dire che fossero indisciplinati era un eufemismo. Non avevano regole di alcun tipo e – qui sta la trovata geniale di Gilberto – intuì che l’inizio di una vera terapia fosse quella di stabilire proprio delle regole condivise, dei ruoli precisi: chi cura da un lato, chi è curato dall’altro.
Semplicissimo, in apparenza, ma per prima cosa bisognava pensarci, nella baraonda e nella pressione emotiva, per seconda bisognava avere il coraggio di fare qualcosa di simbolicamente evidente ed essere determinati. C’era poco da scherzare con quella popolazione di afflitti sconfortati, perdenti e ricattati dalla criminalità dello spaccio. «Prendevano quello che volevano, ogni giorno cambiavano dosaggio. Nonostante il metadone, si andavano a “fare”, non facevano esami tossicologici. […] il personale in molti casi si guardava bene dall’interferire perché erano pazienti aggressivi tendenzialmente violenti, quindi si cercava di evitare problemi».
 
Ed ecco il Gilberto per come io lo conosco e lo stimo, per come io ne sono rimasto sempre entusiasta, dopo averlo conosciuto da Bruno Callieri. «Lì ho fatto un’azione di forza, nel senso che ho ristabilito un minimo di regole. Ricordo che tirai una linea bianca a terra, come nelle banche, per isolare i pazienti l’uno dall’altro. […] cominciai a chiedere gli esami tossicologici delle urine, in base alle quali decidere io il dosaggio di metadone. Operazione non facile. Ricordo che ci sono stati disordini, tafferugli, alcune mattine ho fatto la somministrazione di metadone con il battaglione di carabinieri […] per dare inizio ad una terapia controllata ».
 
A questo punto Gilberto ha rischiato in proprio: «ho avuto minacce di morte, sono stato aggredito e anche ricoverato per trauma cranico». «Sono andato al lavoro armato». Infatti la prefettura gli aveva dato il porto d’armi per difesa personale.
Dunque, Gilberto Di Petta, professionista dell’area psicoterapeutica, uomo pacifico, istruito, amante delle questioni profonde e filosofiche, era armato « … pronto a vendere cara la pelle per stabilire un principio, il principio […] del diritto alla cura ma anche quello del diritto del terapeuta ad erogare una cura che rispondesse a dei principi di ragione e non a dei principi di stupefazione». Non per difesa personale, tengo a sottolinearlo, ma per stabilire un principio terapeutico, di cura, di presa in carico. Niente affatto impaurito, Gilberto ha tirato dritto, perché era convinto di ciò che faceva. Nessuna altra decisione sarebbe stata né sensata, né terapeutica. La sua sensibilità, la sua generosità sono state determinanti, ma sono certo che la sua formazione e Bruno Callieri, per non citare che il più importante dei suoi maestri, hanno compiuto il resto. Intuire sempre in qualunque tipo di esperienza lavorativa, magari ricorrendo all’epica, alla letteratura, alla cinematografia, al riferimento culturale, quale fosse il giusto ruolo, etico, professionale e terapeutico affidato a qualcuno che avesse titolo per definirsi “psichiatra” o comunque fosse stato inviato in quel luogo, con quel titolo, da qualcuno che ne avesse l’autorità per disporlo.
Poi tutto è cambiato perché la perseveranza ha pagato. Sono cambiati i pazienti, che sono andati a cercare il loro terapeuta, ma erano cambiate anche le droghe e lo spaccio («erano diventati tutti cocainomani») ed allora – dice Di Petta – «è ritornata in scena la psichiatria».
 
A quel punto, però, il passo avanti nell’esperienza di Gilberto è avvenuto calcando il piede sul pedale del pathos e su quello dell’anarchia controllata, se così posso dire.
«… ho lavorato molto – dice di Petta – la psicopatologia mi ha aiutato molto a sviluppare questo approccio […] ad alzo zero… questo lavorare sul vissuto incandescente, sull’emozione, mettere le persone in condizione di emozionarsi toccandosi per le mani guardandosi negli occhi, farle piangere, […] ho … sospeso tutte le regole del setting. […] per agganciare questi sbandati, questi vagabondi, ho dovuto fare epochè di tutte le regole del setting e ho dovuto dire loro io sono qua venite quando volete e fate quello che volete. Questo posto vi appartiene».
 
Dopo una lunga orbita che sembrava non avere conclusione, talvolta sfuggire per la tangente o precipitare per gravità, alla fine tutto è tornato dove inconsapevolmente ma intuitivamente l’artefice di un progetto impossibile oltre che incredibile aveva sperato di approdare. Queste, le conclusioni stesse di Gilberto Di Petta. « Mi sono fatto carico dei casi impossibili, sicuramente anche con una dose di onnipotenza, però anche con una voglia immensa di vedere se quello che io avevo dentro, la medicina, la neurologia, la psichiatria, la psicopatologia, il lavoro degli ultimi 20 anni con Bruno Callieri, la fenomenologia, significassero realmente qualcosa quando venivano portate alla prova della realtà cioè laddove la carne incontra il piombo, dove la temperatura si alza e quindi c’è il punto di fusione della materia …».  
 
È bruttissimo, oltre che maleducato, togliere la parola a Di Petta mentre è bellissimo oltre che istruttivo, continuare ad ascoltarlo. Cosa che ciascun lettore di questa rivista on line di Francesco Bollorino può farlo seguendo il link SPECIALE SOPSI 2012: Gilberto Di Petta - Psichiatria di frontiera PSYCHIATRY ON LINE ITALIA VIDEOCHANNEL You Tube.
 
Avviandomi a concludere, come abbia potuto risolversi positivamente questa esperienza di lavoro e di passione, questa straordinaria e meritoria impresa di Gilberto, da un luogo ad un altro, vale a dire in «una struttura non connotata [che] non è più un SERT e non è ancora un Dipartimento di Salute Mentale» come egli precisa, vorrei sottolineare alcune tematizzazioni e passaggi che ritengo importanti, se non essenziali, per qualunque tentativo di trasformazione istituzionale della salute mentale sia stato effettuato dopo la Centottanta.
 
1) La poesia. «Ho scritto sulle pareti del centro una frase di Nietzsche che dice “Noi senza patria” – testualmente Gilberto – Su un’altra parete ho scritto una frase, a caratteri cubitali, della poetessa Elizabeth Barrett Browning – frase che ha ispirato molto Binswanger – “Tu sei il solo luogo dove io possa esistere”. Su un’altra […] un verso di Ungaretti “Non sono mai stato tanto attaccato alla vita”».
 
2) La concretezza. « È una struttura che in 10 anni ha contattato 700 persone, una struttura dove gli operatori lavorano, si sforzano di lavorare, in contatto fisico ed emotivo continuo con gli utenti, dove ci si da del tu, ci si saluta la mattina affettuosamente, dove ci si accoglie e dove, però poi, si porta avanti un programma di terapia, non solo psicologica e riabilitativa, e farmacologica […] basata su criteri razionali».
 
3) La prospettiva di libertà e la capacità di liberare la fantasia.  « … per me la Frontiera […] ha significato la libertà. Ricordo una frase che mi colpì molto nel film Balla coi lupi dove Kevin Costner nella parte di questo ufficiale destinato ad un avamposto sperduto lungo la frontiera indiana dice, quando gli viene chiesto perché te ne vai li, […] risponde “Vado a vedere la frontiera prima che sparisca”. Ecco, per me questi anni, questa esperienza ha significato questo. La frontiera ha rappresentato la possibilità della libertà».
 
Non occorreva Freud per dirci che i sogni sono importanti. Forse qualcosa lo avevamo sentito dal Bardo di Stratford. Non occorreva la neurofisiologia per dirci che senza il sonno REM prima s’impazzisce poi si muore. Gli antichi greci che lo avevano poi trasmesso ai romani antichi, ci avevano già ammoniti che Quos vult Iupiter perdere dementat prius [7]. Bravo Gilberto Di Petta! Senza sogni non si va da nessuna parte!
 
 
Note
1. Karl Popper, Congetture e confutazioni vol. I, p. 66, Il Mulino, 1985.
2, Il Sabatini Coletti, Dizionario della Lingua Italiana. Suk Tipico mercato arabo, perlopiù all'aperto; il quartiere in cui ha sede; mercato caotico e vociante.
3. Ferro, Ferrannini, Mencacci: Sull'identità dello psichiatra....SPECIALE SOPSI 2012: PSYCHIATRY ON LINE ITALIA VIDEO. CHANNEL You Tube (la trascrizione è mia, come pure la punteggiatura, i corsivi e i grassetti).
4. Filippo Maria Ferro, neurobiologia dell'Inconscio? SPECIALE SOPSI 2016: PSYCHIATRY ON LINE ITALIA VIDEO. CHANNEL You Tube (la trascrizione e mia come pure la punteggiatura, i corsivi e i grassetti).
5. Introducendo la nozione di spaltung. Ferro. Neurobiologia dell’inconscio? Cit.
6. Gilberto Di Petta - Psichiatria di frontiera. Noi senza Patria... SPECIALE SOPSI 2012: PSYCHIATRY ON LINE ITALIA VIDEOCHANNEL You Tube (la trascrizione è mia come pure la punteggiatura, i corsivi e i grassetti).
7. Purtroppo ad impararlo più sveltamente di tutti sono stati i moderni torturatori – per qualsiasi scopo o a qualunque parte politica obbediscano – che hanno saccheggiato la venerabile “psicologia sperimentale” iniziata da  Wilhelm Wundt a Lipsia, giustamente ritenuto il suo padre fondatore.

 
 
 
 

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