Alcune considerazioni sul rapporto tra politica e psicoanalisi

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30 ottobre, 2018 - 09:28
 
Testo dell’intervento presentato al Convegno
Saperci fare con il reale: la filosofia, la psicoanalisi, la politica.
26-27 settembre 2018
Padova
 
 
La cura psicoanalitica è un atto politico. Un atto politico – e non solo terapeutico, dunque – in un’accezione del termine politico che, probabilmente, potrà risultare non troppo rigorosa o condivisibile e che, pertanto, necessita di un’immediata contestualizzazione. Politico, innanzitutto, per almeno due ragioni. La prima: perché agisce sull’economia di godimento del soggetto analizzante e provoca un nuovo equilibrio libidico. La cura psicoanalitica è un dispositivo simbolico che ha effetti sul reale. In questo, la sua azione è analoga a quella della politica, il cui compito essenziale è l’emanazione di leggi in grado, in funzione della visione ideologica che le orienta, di normare il godimento del singolo e includerlo in un contesto di convivenza comunitaria. La cura psicoanalitica interviene sulle modalità di godimento dell’analizzante, non certamente in base ad una legge dello Stato, ma, pur sempre, al fine di favorire una nuova organizzazione psichica capace di regolare la disfunzionalità libidica del sintomo. Ma non è questo l’aspetto che mi interessa qui approfondire. Vado, dunque, al secondo aspetto: è un atto politico perché riconfigura il rapporto tra l’individuo e la collettività, tra il soggetto e il suo altro, tra il cittadino e la Polis. La cura psicoanalitica è un atto politico, dunque, perché ridefinisce il rapporto che il singolo elemento – l’analizzante – occupa nella struttura che lo ha determinato. È un atto politico – ancora – perché si occupa della relazione che il soggetto instaura e sviluppa con il sistema nel quale è nato e che gli ha attribuito uno specifico posto. Si potrebbe aggiungere che, qualunque sia la prospettiva teorica dalla quale osserverà e giudicherà questa relazione, in ogni caso, è su di essa che la psicoanalisi – come ogni forma di psicoterapia, del resto – lavora. Ed in effetti, è nelle altre forme di psicoterapia (sistemico-relazionale e familiare, in particolare, ma anche, aggiungerei, cognitivo comportamentale o gestaltica) che il versante politico della cura si rivela in maniera esplicita. L’ambizione di queste terapie è chiara: lavorare sulla realtà, sui rapporti del soggetto con i suoi interlocutori in carne ed ossa, con i familiari, con il suo prossimo: modificare le sue abitudini, le sue condotte, il suo modo di stare al mondo, tutto questo al fine di normalizzare, di conformare, di ridurre il conflitto, di evitare tensioni, di ‘addomesticare’ e piegare il ‘soggettivo’ al ‘collettivo’. Bisogna essere onesti su questo punto, anche se una tale critica ha degli effetti sconfortanti: l’idea di fondo che il sintomo sia una disfunzione disadattiva e che l’armonizzazione del singolo alle esigenze della comunità ristabilisca il suo benessere è il presupposto ideologico – spesso camuffato o rimosso – che orienta queste pratiche ben al di là delle finalità ritenute ‘politicamente corrette’. Occorre riparare il soggetto, riportarlo ad una presunta norma, supposta essere lo stato di salute psichica. La dimensione politica dell’atto psicoterapeutico la si può agevolmente misurare entrando in un reparto di psichiatria o in un ambulatorio dei Servizi di Diagnosi e Cura: lo psichiatra è chiamato ad un’operazione di riequilibrio e di accordo tra le istanze individuali e quelle della comunità, nella quale è sin troppo evidente che saranno le prime a doversi sintonizzare sulle seconde.
La psicoanalisi si proclama su questo punto meno ingenua e forse, almeno in linea di principio, meno accomodante al versante di potere implicito nel discorso della cura: l’oggetto elettivo della sua attenzione è, infatti, la realtà psichica. Fondamentale risulta, a questo proposito, la distinzione che l’elaborazione freudiana ha reso possibile tra realtà comunemente intesa e realtà psichica, la realtà fantasmatica, l’unica realtà con la quale l’essere umano ha a che fare: la realtà – in termini lacaniani – filtrata dal significante, mediata dalle parole, la realtà delle parole, la realtà che non si riferisce ai fatti in sé ma al modo in cui essi si scrivono come rappresentazioni. Tale postura di fondo protegge (per lo meno, dovrebbe proteggere) la psicoanalisi da derive di tipo conformativo e adattativo: tale attitudine, del resto, costituisce il suo DNA, il suo strutturale porsi come ‘peste’, come fattore sovversivo rispetto alle richieste della Civiltà. Ma, anche su questo punto, bisogna essere onesti: tale postura etica non è una garanzia sufficiente ad esorcizzare il rischio nel quale cadono le più affermate psicoterapie. Il fatto che Freud abbia delimitato chiaramente l’ambito di lavoro al rapporto che l’analizzante instaura con la realtà psichica (dunque con le rappresentazioni dell’Altro e con le implicazioni libidiche che ad esse si associano) non significa che l’analizzante non continui a vivere – fuori dalla seduta – nella sua realtà quotidiana (familiare, lavorativa, sociale, ecc.) e che con questa anche lo psicoanalista debba – volente o nolente – fare i conti. Le richieste più o meno esplicite dei familiari, le loro aspettative di normalizzazione, gli eventi che si verificano nel corso della cura (la perdita del lavoro, la morte di un caro, la nascita di un figlio, la fine di una storia d’amore, il riaccendersi di un conflitto familiare, il prodursi di atti autolesivi, ecc.), tutto questo rappresenta un materiale del quale lo psicoanalista non può non tenere conto pensando che il setting analitico sia al riparo da incursioni del genere. La questione, allora, potrebbe essere posta nei seguenti termini: se da un lato, la psicoanalisi lavora sulla struttura psichica del soggetto (e dunque sul posto che occupa rispetto al significante, al desiderio dell’Altro e al suo godimento), dall’altro, non può ignorare il fatto che questa struttura psichica è il frutto dell’azione della struttura sociale, politica, economica nella quale il soggetto è ‘a mollo’. Come ci si può illudere, in altri termini, che sia possibile delimitare la propria azione alla sola struttura psichica senza prendere in considerazione che quest’ultima è determinata da una macrostruttura della quale è, in un certa misura, l’effetto? E che, contemporaneamente, la sua riconfigurazione riconfigurerà, a sua volta, la struttura nella quale si trova, il posto che vi occupa e la funzione che vi svolge? Per quanto la cura psicoanalitica si realizzi nell’intimità di una stanza chiusa e di una relazione riparata e protetta, essa provoca ripercussioni sul piano dell’esistenza concreta (familiare, amicale, lavorativa, sentimentale, economica, lavorativa) e da essa è continuamente provocata. Dunque, in questa prima accezione, essa è un atto politico di cui lo psicoanalista può anche essere ignaro ma che, certamente, non è senza effetti.
Ma c’è un terzo aspetto della dimensione politica della cura psicoanalitica, che riguarda quella che potremmo definire l’interpretazione del sintomo: nel momento in cui la psicoanalisi legge il sintomo come ‘invenzione’ del soggetto attraverso il quale egli riesce, in una maniera o nell’altra, a fare i conti con il suo reale, ne afferma implicitamente una sorta di legittimità, una sua giustificabilità, un diritto di esistenza che, tuttavia, può entrare in conflitto con le esigenze della comunità. È un fatto: lo psicoanalista interpreta il sintomo come espressione di un conflitto intrapsichico (dunque come un problema) che, però, ha una funzione di sostegno per il soggetto (dunque di risoluzione di un problema a monte). Un problema che risolve un problema: questa è, in sostanza, la teoria del sintomo in psicoanalisi. Un riparo – per quanto grossolano, antieconomico e disfunzionale – dall’irruenza perturbante del reale, una risposta ad esso, un modo per ‘cavarsela’. Il fatto che questa invenzione del soggetto possa provocare un attrito con i suoi vari interlocutori rappresenta un ulteriore problema di fronte al quale, però, l’analista ha le idee chiare. Egli non ha dubbi su quale parte prendere: facciamo un esempio, forse il più chiarificante.
Lo psicoanalista sa che il delirio dello psicotico rappresenta l’unica costruzione di senso in grado di tenere coesa la sua fragile costruzione psichica. Sa che va ‘difeso’, non contraddetto, non combattuto perché la sua eventuale destrutturazione – in assenza di riferimenti simbolico immaginari sostitutivi – significherebbe la frantumazione del soggetto, il suo andare in pezzi. Allo stesso tempo, tuttavia, il delirio – così prezioso per il soggetto – è un ostacolo evidente alla vita sociale, infastidisce i suoi partner, irrita il suo prossimo, è vissuto come insopportabile, pericoloso, minaccioso. Nello schierarsi dalla parte del soggetto (sostenendo il suo sforzo di ‘consistere’, seppure in un modo così stravagante) l’analista compie a tutti gli effetti un atto politico: l’individuo prima del gruppo, il soggetto prima del suo Altro. La difesa dell’uno rispetto al ‘tutti’: è forse questo il motivo per il quale la psicoanalisi non è mai stata tollerata nei regimi totalitari, regimi nei quali all’individuo è richiesto di sottomettersi obbligatoriamente all’ideologia dominante. Le radici storico-culturali della psicoanalisi affiorano in tale attitudine alla difesa delle istanze dell’individuo rispetto alle ingerenze della società: è dall’affermazione dello spirito borghese (calvinista e protestante) dell’Europa di fine ottocento che essa, infatti, deriva, ed è da questo anelito all’emancipazione del singolo che eredita il suo recalcitrare di fronte ad ogni tentativo di assimilazione della differenza.
Ma è in un altro ambito della clinica – certamente più problematico per noi lacaniani – che possiamo verificare un’ulteriore dimensione politica della cura psicoanalitica: mi riferisco al rapporto del soggetto con il desiderio. Sappiamo che Lacan affronta la questione dell’etica psicoanalitica studiando la vicenda di Antigone e del suo desiderio che – come noto – si compie all’interno di un registro politico, di confronto-scontro con la Polis e le sue leggi. Il desiderio di Antigone di dare degna sepoltura al cadavere del fratello entra in contrasto con le leggi della città. La scelta di Antigone è drastica: sfida la città. Ebbene, la vicenda di Antigone (che Lacan propone come paradigma di un conflitto fondamentale) è la vicenda di un desiderio (o meglio, della forza di una spinta irrefrenabile) che si contrappone – con le conseguenze che conosciamo – alla convenzione sociale. Si ripropone, in altri termini, la questione già affrontata, il dissidio tra l’individuale e il collettivo, tra il soggetto e il suo Altro. La posizione di Lacan è chiara: la scelta di Antigone è la scelta coraggiosa ed esemplare di chi non accetta alcun compromesso rispetto alla decisione del proprio desiderio, di chi ‘non cede’, di chi non si tira indietro, di chi porta fino alle estreme conseguenze l’atto orientato da una volontà insopprimibile. La potenza del desiderio giustifica, in altri termini, la denuncia dell’inconsistenza del sembiante e la sua rottura: l’affermazione della verità del soggetto può esigere, in altri termini, l’atto trasgressivo e antisociale. È chiaro che l’analista ispirato da tale visione non potrà non lasciare un’impronta decisiva nella cura che conduce: il suo intervento, anche il più impercettibile e inavvertito da egli stesso, non potrà – suo malgrado – non entrare in risonanza con determinate parole dell’analizzante, in virtù dell’esitazione, della titubanza, dell’incertezza che può cogliere quest’ultimo in determinati passaggi della sua esistenza, quando, per essere più chiari, la questione della scelta si fa pressante. Bisogna essere onesti: la teoria alla quale l’analista aderisce non può non influenzare il suo atto (che diventa, di conseguenza, un atto politico). La neutralità dell’analista è, per dirla in un altro modo, una postura impraticabile. Il suo ascolto non può essere mai del tutto disinteressato. Del resto, gli effetti nelle cure sono evidenti: e se, anziché trovare in Antigone il riferimento del proprio stile (esistenziale e professionale), egli lo reperirà nell’ultimo insegnamento di Lacan, la prospettiva della cura cambierà radicalmente: in effetti, è nello stesso Lacan che è possibile rintracciare un’oscillazione nel modo in cui egli considera il rapporto del soggetto con il desiderio e della dimensione politica che in essa si realizza. La riabilitazione del sembiante che, nella fase finale del suo insegnamento, lo porterà ad affermare che se ne può si fare a meno, ma a condizione di servirsene, rappresenta una sorta di inversione del modo in cui egli considera il rapporto del soggetto con il desiderio: il concetto di sinthomo condenserà in se una profonda revisione per la quale il ‘saperci fare’ con i resti sintomatici di un analisi diventerà il nuovo modo di tener conto del fatto che tutto è sembiante e che con esso ciascuno è chiamato a trovare un accordo, certamente nuovo, non più fondato sulla ripetizione nevrotica, ma pur sempre necessario. Un patto con il sembiante, dunque, e non più la sua distruzione: un cambiamento di prospettiva radicale che si ripercuote sul modo di intendere la fine di un analisi e, più in generale, l’etica di una cura.
Un ultimo punto che è implicato nella dimensione politica della psicoanalisi ha a che fare con un interrogativo fondamentale: è spendibile il sapere dello psicoanalista nel campo della politica? È utile alla comunità che egli metta a disposizione il suo sapere – di analista – per la vita della città? Può essere, il suo sapere, uno strumento adatto a garantire il benessere della Polis? Per rispondere a questa domanda, è bene innanzitutto chiarire quale sia lo ‘specifico’ del sapere dell’analista, in cosa esso, in altri termini, si differenzi dagli altri saperi.
Il sapere dell’analista è esclusivamente il sapere sull’inconscio: o meglio, sul funzionamento dell’inconscio. I suoi studi, la sua formazione, e, soprattutto, l’ascolto quotidiano dei suoi pazienti lo rendono sensibile alla manifestazione di quelle che Lacan chiamava formazioni dell’inconscio. Egli – aggiunge addirittura Lacan – è parte integrante del concetto di inconscio: il che sottolinea in maniera irrefutabile il campo specifico del suo sapere. Lo psicoanalista, allora, è colui che sa che il sintomo che assedia il suo analizzante è una specie di Giano bifronte, significante di un significato rimosso, per un verso (e, dunque, vettore di un messaggio indirizzato all’Altro), nucleo irriducibile di un godimento che si oppone alla sua risoluzione, per l’altro: egli sa, cioè, che il sintomo fa soffrire ma, contemporaneamente, assicura una soddisfazione irrinunciabile: egli sa che l’essere umano può trovare soddisfazione in ciò che lo insoddisfa: sa che la struttura del soggetto è determinata dall’Altro e che, di conseguenza, il soggetto è parlato, agito e goduto: sa anche che è con la forza costante della pulsione che l’analizzante deve fare i conti e che il suo conflitto non risiede semplicisticamente nell’attrito tra le proprie esigenze e quelle della civiltà, ma, ben più drammaticamente, tra due forme di desiderio che albergano in lui: il desiderio di essere amato e riconosciuto (desiderio che lo porta a piegarsi alle richieste dell’Altro) e il desiderio di affermarsi come separato, il desiderio di essere, il desiderio rimosso e inconscio. Sa anche che – come affermava Freud – la psicologia del soggetto è di per se sociale, che il campo psichico contiene tanto l’individuale quanto il collettivo, tanto il soggettivo quanto il comunitario: e che solo il soggetto della parola può costruire un discorso capace di istituire uno spazio di comunità. Sa, in sostanza, che non si può fare comunità senza tener conto della domanda e del desiderio di ognuno.
Ma il sociale – che lo psicoanalista conosce e studia – non è il politico: i due ambiti non sono in alcun modo sovrapponibili e, pertanto, vanno distinti. L’analisi che l’analista può eventualmente riservare ai fenomeni sociali è fatta da un’angolazione particolare: si potrebbe dire che egli guarda il mondo dalla finestra del proprio studio, dentro il quale (e solo dentro il quale) opera in quanto analista. Il fatto che possa avere dimestichezza con una sorta di sociologia antropologica che gli deriva dall’ascolto delle persone che si rivolgono a lui non lo autorizza certamente a pensarsi nella funzione di governare l’umano. Un conto, infatti, è l’analisi del fenomeno sociale (sul quale può evidenziare anche un certo talento), un conto è l’individuazione e la proposta di soluzioni da applicare alla vita della città, ovvero, l’esercizio del potere che a questa funzione inevitabilmente si associa. L’analista è tale – potremmo aggiungere – solo dentro il suo studio. Fuori, il suo sapere non è operativo: l’analista non ha il sapere per ‘curare’ la Polis. Se si mette a farlo – il che è, sia chiaro, assolutamente legittimo – lo può fare solo utilizzando altri saperi (la storia, la filosofia, l’economia, la geopolitica, ecc.). Dunque, non in quanto analista. La consapevolezza che non possa essere il proprio sapere ad orientarlo nella definizione del suo eventuale progetto politico deve caratterizzare il suo operato, allorché intende interessarsi della Polis. Non è l’impegno politico dello psicoanalista a costituire un problema: il problema si presenta allorché il suo specifico sapere – che è, lo ripeto, il sapere sull’inconscio – viene utilizzato per mettere in atto quello stratagemma che qualunque lettore di Freud conosce bene: la suggestione del transfert. Freud descrive il potere di fascinazione attraverso cui il leader attrae le masse, tanto più quando, in periodi storici di trasformazioni e riconfigurazioni economico-culturali, la domanda di sicurezza, di certezze e di sapere in grado di colmare il vuoto angosciante di uno smarrimento esistenziale incontra un’offerta di senso che attribuisce al discorso di chi lo tiene il carattere di ‘pastorale’, dei cui rischi Lacan ci avverte nel Seminario VII, quando mette in guardia i suoi ascoltatori dalla tentazione di offrirsi come rimedio al disagio della Civiltà. L’offerta di senso, infatti, è sempre religiosa, afferma lo stesso Lacan: dunque, è altra cosa rispetto alla psicoanalisi.
Ed eccoci arrivati, allora, all’ultimo punto della questione: il transfert come strumento politico. È stato Freud ad indicarci come alla base del legame sociale – come sua condizione fondamentale e imprescindibile – ci siano le dinamiche di identificazione: in altre parole, il transfert. Il legame tra pari – ci ha insegnato lo stesso Freud – si sviluppa come effetto della condivisione del legame con il ‘capo’: condividere lo stesso oggetto d’amore stabilisce forti rapporti d’amore che, in una sorta di ripetizione circolare, rinforzano a loro volta il legame d’amore originario. Il transfert orizzontale deriva dalla condivisione dello stesso transfert verticale. In esso, infatti – tanto in quello che si sviluppa all’interno di un percorso di cura, quanto in quello che attraversa movimenti politici, sociali e culturali – la corrente libidica, erotica, emozionale, affettiva si indirizza verso colui che, immaginariamente, è supposto possedere un sapere capace di spiegare la complessità della condizione umana. In questo senso, il transfert è un imbroglio, un’impostura, scrive Lacan: questo sapere, infatti, è solo supposto. All’interno della cura psicoanalitica questa dimensione è ben conosciuta: l’analista che diventa il bersaglio di proiezioni transferali immaginarie sa che ciò che il suo paziente gli attribuisce – in termini di sapere sulla sua sofferenza – è semplicemente l’effetto di una suggestione iniziale: e, se da un lato, nelle prime fasi della cura, egli si presta a sostenere tale credenza (in quanto utile allo sviluppo di un’affezione alla cura stessa), dall’altro, sa che deve fare in modo che da tale posizione possa svincolarsi il prima possibile. Analogamente, è attraverso la forza fascinatoria di un sapere supposto in grado di risolvere i mali della società che il suo discorso può far presa sull’opinione pubblica (anche se, in quanto analista, egli, in realtà, non ne sa nulla). Il rischio che la sua postura ‘ispirata’ (legata all’eventuale utilizzo di concetti psicoanalitici applicati all’analisi del sociale) generi effetti di transfert collettivo va sempre attentamente calcolato. Il transfert immaginario, infatti, gonfiato dalle aspettative di masse disorientate, può diventare uno strumento di potere: dunque, politico.
Eppure – bisogna aggiungere per completezza di esposizione – lo sguardo dello psicoanalista (abituato a posarsi su dettagli della condizione umana che la vita pubblica esclude) potrebbe aiutare la politica ad ampliare il proprio campo di osservazione, indicandole e sensibilizzandola su panorami inesplorati. In questo senso, allora, il sapere sull’inconscio può diventare uno strumento di cui la Polis può avvalersi solo se controbilanciato dalla sua immediata rimozione, solo se depotenziato del potere ammaliante di cattura immaginaria che il suo uso può generare: solo se l’analista che se ne fa portatore si adopera per mettere in atto le necessarie contromisure all’offerta del proprio sapere, ovvero, i necessari contrappesi agli effetti di incantamento che la sua stessa offerta può generare: se, cioè, agisce per la liquidazione del transfert, per la propria abdicazione dal posto di ideale nel quale l’effetto di massa lo colloca, per presentificare egli stesso l’inesistenza dell’Altro e favorire, così, l’emancipazione del soggetto dalla ‘soggezione’ all’Altro. Perché – come sostiene Marie-Jean Sauret nel suo libro Psychanalyse et politique: huit questions de la psychanalyse au politique – il sapere analitico si realizza solo nella sua stessa destituzione.       

        
 

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