Recensione: LUCI E OMBRE Protagonisti (noti e meno noti) della storia della psicoanalisi

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3 gennaio, 2019 - 10:06
Autore: Giuseppe Zanda
Editore: Edizioni ETS
Anno: 2018
Pagine: 358
Costo: €30.00
È uno dei paradossi tipici della nostra contemporaneità moltiplicare le memorie artificiali su supporti elettronici sempre più potenti – passati ormai dai megabyte ai terabyte - mentre sembrano venir meno il gusto e l’attenzione per i percorsi e le vicende che ci stanno alle spalle. L’attualizzazione ossessiva di ogni aspetto del vivere, su cui il futuro irrompe incontrollabile come una cascata, finisce molte volte per rendere il passato “una terra straniera”, secondo una felice espressione letteraria. Non stupisce dunque che in molti campi l’approccio storico passi in secondo piano, o venga addirittura negletto. 
È questo il caso pure della psicoanalisi, dove sempre più spesso la conoscenza delle figure di pionieri e fondatori si riduce alla ricezione acritica di poche nozioni stereotipate, talvolta manipolate. Ciò costituisce un grave pregiudizio, perché anche le teorie più rivoluzionarie non maturano in un siderale spazio iperuranio, ma sono espressione indissolubile di pensieri e azioni di persone in carne e ossa, a loro volta legate ai tempi in cui vissero. Si pone senz’altro in contrasto con questa tendenza il recentissimo volume di Giuseppe Zanda, psichiatra e psicoterapeuta analitico di origine cagliaritana che vive a Lucca, di lunga esperienza professionale e scientifica.
Il titolo è significativo e sgombra subito il campo da tonalità agiografiche: Luci e ombre. Protagonisti (noti e meno noti) della storia della psicoanalisi. Altrettanto significativa la citazione di Paul Valéry in exergo alla prefazione dello psichiatra Massimo Cuzzolaro: «L’avenir est comme le reste: il n’est plus ce qu’il étatit» (L’avvenire è come il resto: non è più quello che era).
Il libro – «interessante e curioso», come introduce Cuzzolaro - raccoglie otto saggi, «frammenti di storia della psicanalisi nei primi decenni del ventesimo secolo, tra Europa e Nordamerica», già pubblicati da Zanda nell’arco di dieci anni (dal 2008 al 2017) nella rivista Psicoanalisi e metodo. Ciascuno di essi è dedicato alla rievocazione di altrettanti personaggi attivi nei primi decenni della stagione psicoanalitica, tutti accomunati da itinerari eccentrici, talvolta “eretici”, tutti accantonati, rimossi o semplicemente dimenticati dalla vulgata ufficiale, freudiana o junghiana che sia.
Un caso emblematico - che apre la rassegna - è stato quello di Otto Gross, il primo psicoanalista a essere espulso dalla cerchia di Freud (nel 1909) e di certo «il più dimenticato», se non nel ricordo aneddotico del morfinomane «che diventò schizofrenico». Ma non fu l’unico analista ad essere epurato negli anni iniziali della disciplina psicoanalitica: il medico viennese Fritz Wittels nel 1907 entrò nella Società Psicologica del Mercoledì, che quello stesso anno fu rinominata Società Psicoanalitica Viennese, e già nel 1910 ne fu cacciato, per esserne riammesso diversi anni dopo, al prezzo di ripudiare il suo sodalizio con Wilhelm Stekel, un altro medico dissidente, che aveva partecipato alla creazione della Società viennese, ma che si allontanò nel 1912 dal gruppo in seguito a feroci e insanabili dissidi con il Maestro. Altrettanto tormentata fu l’adesione del medico londinese David Eder al movimento freudiano: interessato ai problemi sociali e al sionismo, lavorò in Sudafrica, Colombia e nei quartieri poveri ed emarginati di Londra; nel 1912 ebbe un’analisi personale e didattica con Ernest Jones e si appassionò alla psicoanalisi, riservando un’attenzione speciale al pensiero junghiano, per cui fu aspramente criticato dalla comunità freudiana britannica, che lo riaccolse appena negli anni Venti, dopo essersi sottoposto a una tranche analitica “riparativa” con Ferenczi. Una serie di bandi derivati da un approccio alla storia della psicoanalisi che, per Erich Fromm, «si potrebbe definire “stalinista”» (1). Infatti, secondo Zanda, «molta della storiografia psicoanalitica a nostra disposizione ha minimizzato, alterato e, perfino, omesso il racconto di certi fatti pieni di “ombre” occorsi ai primi psicoanalisti, principalmente con lo scopo di difendere e sostenere in senso generale il valore positivo – le “luci” – della dottrina nata dalla mente di Sigmund Freud».
La storia della psicoanalisi si è invero ben presto liberata del ricordo del geniale medico e psicoanalista Otto Gross, al quale è stata riservata una sorte inclemente se non crudele: le spesse ombre che hanno avvolto la sua biografia hanno precocemente oscurato ogni fiammella del suo grande ingegno, che sedusse non solo Freud, ma anche Jones e lo stesso Jung (2). Di lui rimane la lapidaria descrizione di Jones, che suona come una damnatio memoriae: «Otto Gross, […] diventò purtroppo schizofrenico, […] Nel 1908 fu ricoverato presso la Clinica Psichiatrica Burghölzli di Zurigo, dove Jung, dopo averlo svezzato dalla morfina, vagheggiò l’ambizione di essere il primo a guarire un caso di schizofrenia» (3).
Così diverse altre figure rivivono nella prosa documentatissima e accattivante di Giuseppe Zanda: due donne (l’olandese Loë Kann e l’americana Elizabeth Severn) e sei uomini di varia nazionalità; due austriaci (uno è Otto Gross e l’altro Fritz Wittels), un polacco (Wilhelm Stekel), tre inglesi (David Eder, William H.R. Rivers e John W. Layard). La maggior parte di loro era medico e praticò come analista, spesso in contrasto con l’ortodossia freudiana e le associazioni ufficiali; anche due “non medici” seguirono pazienti in analisi. Costoro sono descritti nella loro «umanità vera, fragile, vulnerabile», fatta anche di criticità, debolezze, complessità, il che li fa sentire più vicini e, «in molti casi, più simpatici». L’Autore è infatti convinto che «nel campo delle scienze psicologiche, psicopatologiche e psicoterapeutiche, la formulazione di teorie diverse e, soprattutto, l’adozione di pratiche di uno o di un altro tipo siano strettamente correlate alla tipologia della personalità dei singoli addetti ai lavori e, per quanto riguarda la psicoanalisi, spesso a prescindere dal fatto che abbiano o non abbiano fatto con successo una propria analisi personale». Fedele a quest’idea, la meticolosa ricerca condotta da Zanda sul caso di Otto Gross, sfiora anche la figura di Sigmund Freud, indagandone con inusuale profondità la controversa questione del rapporto con le droghe, non solo per la cocaina ma anche in relazione all’uso e abuso (?) di tabacco e alcol, come sembra emergere da una lettera del padre della psicoanalisi all’amico Wilhelm Fliess: «di giorno non riesco a lasciar passare più di due ore senza chiamare in soccorso l’amico marsala, che per magia mi fa apparire il mondo non così desolato come sembra a chi è serio» (4).
Altre e più singolari vite sono ricostruite nelle pagine di Luci e ombre. Il nome di Ernest Jones, il medico gallese biografo ufficiale di Freud è noto a tutti, ma pochi rammentano la giovane e affascinante olandese Louise (Loë) Dorothea Kann, figlia di un ricco ebreo sefardita proprietario di una banca in Olanda. Nell’estate del 1906 Loë conobbe a Londra Jones, da poco accostatosi alla psicoanalisi, e ne divenne la compagna, ospitandolo nella sua sontuosa dimora e sostenendolo economicamente nei suoi studi e nei numerosi viaggi di formazione - che diversamente non avrebbe potuto permettersi – e sopportandone i «molti difetti personali noti […] la licenziosità sessuale, la trasgressività, l’arroganza e\l’autocrazia», per riprendere le parole di Maddox (5). Loë fu anche paziente di Freud dal 1912 al 1914 (per disturbi “misti” e morfinomania), che colmò di regali e aiutò materialmente negli anni difficili della Prima Guerra Mondiale. Quest’ultima fu un’analisi assai poco “ortodossa”, ma la finalità del saggio di Zanda non è certamente quello di «mettere Freud sotto accusa», bensì di esaminare con coraggio e onestà le complesse trame relazionali che si trovarono a ricamare i pionieri della disciplina psicoanalitica, sotto la pressione delle istanze transferali e ancora incapaci di dominare il potente strumento interpretativo rappresentato dal controtransfert. L’intricata storia sentimentale fra Jones e Loë durò sette anni ma, come osserva Zanda, «fu ben presto rovinata da contrasti, egoismi, tradimenti e differenti prospettive di vita».
Assai diverso e più originale è il percorso di un’altra donna eclissata nelle narrazioni storiche mainstream, l’americana Elizabeth Severn, nata a Milwaukee nel 1879. Sofferente da giovane di “crisi nervose” decise di diventare “guaritrice metafisica itinerante”, dopo una “psicoterapia a orientamento teosofico” da autodidatta. Iniziò a viaggiare per gli States curando in stanze d’albergo patologie fisiche e psichiche, con parole e “tocchi risanatori”, pubblicando libri e tenendo conferenze. Severn fu tra le prime americane che attraversarono l’oceano per apprendere la psicoanalisi. Nel 1924 questa singolare donna, rappresentante di una nuova e rivoluzionaria figura del femminile, andò a Budapest ed entrò in analisi con Sándor Ferenczi, uno dei primi e più acuti seguaci freudiani, e «portò sul lettino […] non solo la sua grave sofferenza, ma anche la mentalità americana dei suoi tempi». Nel suo celeberrimo Diario clinico (6), Ferenczi lasciò testimonianza di questa straordinaria analisi, dove applicò diverse innovazioni alle norme della psicoanalisi classica, sino a sperimentare l’insidiosa tecnica dell’analisi reciproca. Negli anni Trenta, dopo una serie di travagliate vicende private, la Severn iniziò a lavorare come psicoanalista, prima a Londra e, allo scoppio del secondo conflitto mondiale, a New York, dove morì di leucemia nel 1959, all’età di settantanove anni.
Anche fra le figure maschili tratteggiate da Giuseppe Zanda non mancano percorsi “eccentrici”, come quello di John W. Layard (1891-1974), un londinese laureato in lingue moderne, seguìto da vari terapeuti, fra cui Stekel e Jung. Un’esistenza all’insegna dell’anticonformismo più spinto: alla fine degli anni Venti conobbe a Berlino il giovane poeta Wystan Auden, con il quale instaurò un rapporto amoroso. Auden presentò a Layard lo scrittore Christopher Isherwood, suo ex amante, e tutti e tre per un certo periodo frequentarono il gruppo bohemien e omosessuale che Isherwood immortalò come il disinibito “luna park della carne” nel romanzo autobiografico Lions and Shadow. Nella seconda parte della sua vita, a partire dagli anni Trenta, Layard divenne analista junghiano a Oxford e fu fecondo saggista in ambito psicoanalitico e memorialista dei suoi lontani trascorsi di antropologo “eretico” in Melanesia. Ancora nel 1965, ormai anziano, lavorò e visse per qualche tempo a Kingsley Hall, la comunità terapeutica antipsichiatrica fondata a Londra da Ronald Laing.
L’inglese William Rivers - ingegno multiforme che spaziava dalla clinica medica alla neurologia e alla psichiatria, dalla psicologia sperimentale alla ricerca antropologica nelle regioni più sperdute del mondo – fu uno dei massimi studiosi delle psiconevrosi belliche (shell-shock, o trauma da granata), che lo sensibilizzò alla psicoanalisi. Nel 1919 Ernest Jones lo invitò a far parte della British Psychoanalitycal Society, seppure non avesse alcuna formazione specifica. L’atteggiamento di Jones nei suoi riguardi fu sempre assai ambivalente e, nonostante avesse favorito il suo accesso nel consesso psicoanalitico, criticò assai aspramente i suoi scritti in materia, valutandoli poco conformi dalle coordinate teoriche del pensiero freudiano.
 
Qui si sono presentati in gran sintesi alcuni esempi, ma le vivaci pagine di Luci e ombre evocano tante altre persone poco o per nulla conosciute, che pure intrecciarono il loro destino con la grande avventura della psicoanalisi, talvolta in termini e situazioni sorprendenti e sconcertanti. Perché, come riflette l’Autore, «molti dei protagonisti di quella avventura avevano vissuto vicende umane esaltanti e creativamente molto ricche, ma molto più frequentemente di quanto avessi immaginato anche problematiche, contraddittorie, a volte meschine e spesso dolorose».
Accanto alle luci, davvero tante ombre.
 
NOTE BIBLIOGRAFICHE
 
 
  1. Citato in HEUER G. (2006). Jung’s Twin Brother. J. Analytical Psychol., 46, p. 657.
  2. CORSA R. (2006). Psicoanalisi confessionale: la tecnica dei “mandarini cinesi” al tempo dei pionieri. Le narrazioni intime di Sabina Spielrein e di Otto Gross al servizio della causa psicoanalitica. Studi Junghiani, 23, pp. 25-49.
  3. JONES E. (1953). Vita e opere di Freud.  Vol. 2. Il Saggiatore, Milano, 1962, pp. 50-51.
  4. Lettera di Sigmund Freud a Wilhelm Fliess dell’8 luglio 1899, in FREUD S. (1990). Lettere alla fidanzata e ad altri corrispondenti. Bollati Boringhieri, Torino, p. 397.
  5. MADDOX B. (2006). Freud’s Wizard. Ernest Jones and the Transformation of Psychoanalysis. John Murray, London, p.75.
  6. FERENCZI S. (1932). Diario clinico. Raffaello Cortina, Milano, 1988.

 
 

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