PSICHIATRIA E RAZZISMI
Storie e documenti
di Luigi Benevelli

Le vicende di Ota Benga e gli zoo umani: una risposta a Ernesto Galli della Loggia

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1 giugno, 2019 - 09:07
di Luigi Benevelli

 

Una premessa:
Sul “Corriere della sera” di domenica 26 maggio scorso, Ernesto Galli della Loggia nella  recensione del libro di Raffaele Simone L’ospite e il nemico  (Garzanti, 2019) ha denunciato la “cultura del pentimento e della discolpa diffusa in Occidente, costruita nell’idea di un debito che si dovrebbe giustamente pagare, a espiazione delle sue passate malefatte verso i popoli del Sud del mondo”. Ritengo che la sua affermazione, tanto perentoria quanto “negazionista” dei crimini del colonialismo, non possa essere passata sotto silenzio e meriti una risposta. Per questo propongo quanto documentato e ricostruito da Ngimbi Kalumvueziko, congolese, economista, specialista e studioso di relazioni internazionali, che nell’anno in corso ha riedito nella  collana Etudes Africaines della casa editrice “L’Harmattan” di Parigi il suo Le Pygmée congolais exposé dans un zoo américain – sur le traces d’Ota Benga; quanto segue è per larga parte tratto da tale libro.
 
A partire dall’epoca delle grandi esplorazioni, i pigmei, popolo di cacciatori e raccoglitori, veri signori della foresta equatoriale,  hanno suscitato la curiosità e l’interesse degli antropologi che non erano certi se classificarli fra le scimmie e gli umani propriamente detti, o se fossero l’anello di congiunzione a dimostrare la verità della teoria dell’evoluzione. Porto ad esempio, Giorgio Rota Giovanni Miani, medico italiano, che portò nel 1873 in Italia due pigmei di nome Tebo e Charellah che, avendo imparato a leggere e scrivere, furono da lui stesso riconosciuti esseri umani.
In Europa e Nord America, nel corso della seconda metà del  XIX°  e agli inizi del XX° secolo in particolare, ebbero grande successo le esibizioni di donne e uomini reclutati in Africa, Sud e Nord America, Oceania, fra i Sami e gli Esquimesi, in zoo umani, freak shows, esibizione di mostri di della natura, “esposizioni etnologiche” nelle Fiere e negli spettacoli[1]. Fra gli imprenditori, in questo business si distinsero il tedesco Carl Hagenbeck e Phineas Taylor Barnum negli USA.
Gli zoo umani offrivano:
  •  ai governanti europei e nord americani l’opportunità di mostrare dal vivo la natura selvaggia dei” popoli inferiori” anche a legittimazione delle imprese coloniali presentate come occasione di “civilizzazione” dei “primitivi”;
  • agli antropologi di condurre osservazioni in diretta senza affrontare i rischi di viaggi pericolosi;
  • al pubblico di soddisfare la sua curiosità e confermare il privilegio e la superiorità della propria appartenenza “razziale”.
In 60 anni, a partire dal 1874, centinaia di migliaia e migliaia di europei e americani bianchi hanno potuto vedere di persona selvaggi seminudi o vestiti  secondo i propri costumi, costretti a esibirsi in combattimenti, a danzare, cantare, mimare scene di caccia. Alla loro morte, spesso di freddo, malattie, maltrattamenti, i corpi di questi “ primitivi” erano sezionati, studiati, analizzati. Molti di questi corpi sono ancora conservati nelle teche dei musei europei e nord-americani.
Ota Benga, maschio pigmeo Mbuti della provincia del Kasai, attuale Repubblica Democratica del Congo,  23 anni, alto 1 metro e 25,  fu una delle maggiori attrazioni dell’EXPO di St. Louis del 1904. Faceva  parte di un gruppo di 5 pigmei portati in quell’anno negli Stati Uniti da Samuel Phillips Verner,  missionario evangelico che operava come agente della Compagnia per L’Esposizione Universale di St. Louis. Verner lo aveva riscattato dalla schiavitù e per questo Ota lo seguì negli Stati Uniti  e gli rimase sempre riconoscente.
Quella di St Louis fu una edizione gigante, con 62 paesi espositori e 29 milioni di visitatori.
Verner raggiunge St. Louis nel giugno 1904, a Expo già iniziata, portando con sé Ota e altri 4 pigmei che suscitano da subito grande interesse. In particolare, Ota Benga aveva i denti limati a punta (v. foto), un attributo di bellezza nella sua tribù, che veniva interpretato dagli spettatori americani come prova del suo “cannibalismo”. Tutti dovevano esibirsi nei loro canti accompagnati dai loro strumenti primitivi, arrampicarsi sugli alberi, ricevendo in cambio monetine e cibo.
I pigmei furono messi insieme a giganti della Patagonia, Ainu giapponesi, Zulu, Esquimesi, Igorot delle Filippine a disposizione di antropologi, biologi, medici che potevano ricercare fra le altre cose come e in quanto tempo i “primitivi” reagissero al dolore, quale fosse il loro livello di intelligenza rispetto ai bianchi caucasici mentalmente ritardati.
Chiusa l’Expo, agli inizi del 1905 i pigmei, accompagnati da Verner, rientrarono in Africa, dopo aver fatto scalo a La Habana. Verner, seguito da Ota Benga, che gli fungeva da interprete, percorse tutta la regione fino alla frontiera con l’Angola, comprando avorio e tutto quello che poteva interessare alle raccolte dei Musei americani.
Ota si risposò ma la moglie morì morsa da un serpente velenoso; l’evento fu interpretato dagli abitanti del villaggio come segno di stregoneria negativa da attribuirsi allo stesso Ota, che in grande disagio, lasciò la sua gente e riaccompagnò Verner negli Stati Uniti. Sbarcò a New York agli inizi dell’agosto 1906. Verner, che non sapeva dove sistemarlo, “appoggiò” Ota al Museo di storia naturale della città, un grande spazio dove poteva circolare liberamente, ma non uscirne né farsi vedere dai visitatori. Ota non resse la situazione, reagì con comportamenti aggressivi e il direttore del Museo lo inviò al Bronx Zoological Gardens dove il direttore William Temple Hornaday lo mise in una gabbia comunicante con quelle delle scimmie in modo da favorire il contatto e la confidenza in particolare con Dohong, un orango indonesiano. A Ota Benga fu fatto indossare un costume di lino bianco, ma mai scarpe. Ota e Dohong divennero una attrazione di grande successo.
La condizione in cui versava Ota attivò le proteste della Comunità afroamericana e Hornaday decise di liberarsene inviandolo nel settembre 1906 all’Orfanatrofio per bambini neri di New York diretto da James Gordon. Qui Ota ricevette istruzione e il battesimo cristiano, ma finì coll’essere allontanato a causa dei suoi comportamenti sessuali: Ota non accettava più di essere trattato come un bambino. Di trasferimento in trasferimento da un orfanatrofio per neri a orfanatrofio per neri, finì nel 1910 ospite del Seminario battista della Comunità nera di Lynchburgh (Virginia) dove prese a vestire all’occidentale, gli ricoprirono i denti, aveva vicino una foresta lussureggiante da frequentare liberamente. Il Seminario, presieduto dal dr. Gregory Hayes era nato per la formazione tecnologica, industriale e religiosa, ma era anche un centro del movimento panafricano. Vi operava anche la poetessa Anne Spencer, prima donna nera le cui opere furono pubblicate nelle antologie della poesia americana.
Ma Ota Benga non riuscì a integrarsi nella società americana, sognava di tornare al suo villaggio in Kasai, cosa che era diventata difficile perché era iniziata la prima guerra mondiale con i conseguenti ostacoli alla navigazione marittima: Ota Benga non riescì a partire. Disperato, si uccise il 20 marzo 2016.
Il suo corpo fu interrato nel Cimitero pubblico della città, poi disattivato nel 1925. I resti di Gregory Hayes e di Ota sono stati di nuovo sepolti nel cimitero di White Rock a Lynchburg.
“Per essere Pigmeo e nero, Ota Benga fu vittima del razzismo nelle sue forme più violente e brutali. Ha portato su di sé il peso di tutti gli stereotipi negativi sulla razza nera. […] Per un po’ più di un secolo il suo nome è  stato simbolo del degrado della razza nera.  La sua storia è stata di volta in volta riproposta sulla stampa per poi essere di nuovo oscurata come se ci si dovesse vergognare a parlarne”[2].
Il 16 aprile 2010 il Municipio gli ha dedicato una targa nel perimetro della Virginia University di Lynchburg.
 
[1] Ho parlato della storia di una di queste donne, Saartie Baartman, la “Venere ottentotta” di etnia Xhosa  (Sud Africa), morta nel 1815, riabilitata e onorata da Nelson Mandela  in “Gli ottentotti e le ottentotte” in questa stessa rubrica, il 9 settembre 2013.
[2] Pp. 10-11
 
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