COVID-19: GLI PSICHIATRI PER I MEDICI IN PRIMA LINEA

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19 marzo, 2020 - 15:11

Oggi è necessario capire quali sono i nostri meccanismi di difesa individuali e comunitari, per meglio attrezzarci nei confronti dell’epidemia da coronavirus. Non possiamo parlare di un immaginario individuale senza considerare quello collettivo, perché sono in un rapporto di codeterminazione reciproca. E non possiamo attestarci sull'immagine di un ambiente che sia solo un fuori sganciato dalla sua rappresentazione al nostro interno.

Bisogna capire come mai, di fronte all'evidenza di un danno, di cui non è chiaro quali siano la grandezza e la pericolosità, molti cittadini stentino a rendersi conto di quello che è successo, di quello che sta avvenendo e di quello che ancora può succedere. Oscillano tra il panico, che impedisce di ragionare e di difendersi adeguatamente e l’indifferenza irresponsabile e narcisista. Dovremmo guardare agli eventi attuali con occhi limpidamente allarmati, con uno sguardo un po’ triste e preoccupato, certo, ma non superficialmente minimizzante, né distruttivamente catastrofista.

Banalizzare o rimuovere le difficoltà, cercando di tamponare, ma anche nascondere, l’angoscia per un pericolo non immediatamente arginabile, rischia di togliere valore ad ogni azione, sia preventiva che riparativa, e mette in discussione i principi dell’etica della convivenza.

È il momento di riscoprire il piacere della responsabilità personale, del prendersi cura della propria e dell’altrui condizione come antidoto sia alla paura che all’indifferenza.

In rapporto a un quadro che si presenta nuovo, complesso e incerto, va evidenziata l’assoluta necessità di un confronto continuo tra i tra i differenti linguaggi scientifici che, in un’ottica di generosa collaborazione, possono offrire risorse, strumenti e processi per affrontare costruttivamente le sfide che l’epidemia in atto ci propone.

Albert Einstein ha detto:

Non tutto quello che può essere contato conta e non tutto quello che conta può essere contato”, dando valore agli aspetti emotivi soggettivi che entrano in gioco anche nelle scienze sperimentali.

Del suo ammonimento dovrebbero tenere conto tanti scienziati ed epidemiologi che, in televisione, offrendo soltanto una descrizione drammatizzata e talvolta spettacolarizzata della situazione, non tengono conto della potenza delle difese psichiche a livello individuale e gruppale, che vengono a minare la consapevolezza dell’oggettività del danno subito, ma anche di quello che potenzialmente possiamo provocare. Ne sanno qualcosa i medici e gli infermieri in prima linea nei Pronto Soccorso, nei reparti di malattie infettive e in quelli di terapia intensiva, che rischiano una condizione di burn out, perché devono far fronte non solo alla stanchezza fisica derivante da turni sempre più massacranti, ma anche, e forse ancora di più, all’incertezza che pervade anche loro circa l’intensità, la durata e gli esiti dell’epidemia, al dolore per la morte dei pazienti e all’ammalarsi di molti colleghi, alla difficoltà a dare risposte esaurienti ai pazienti e ai loro familiari, sempre più angosciati e sofferenti.

Come fare fronte alla contraddizione tra le immagini del progresso, dell’inesauribile, dello sviluppo illimitato che finora ci hanno accompagnato e le immagini delle zone rosse sempre più ampie, le restrizioni fino alle interruzioni delle relazioni sociali, la riduzione fino all’abbandono delle confortevoli abitudini, le apocalittiche previsioni economiche e le informazioni sul progressivo aumento delle vittime che quotidianamente ci piovono addosso?

Di colpo si produce uno iato tra l’esigenza di azione connessa all’urgenza della situazione da una parte, e il rischio di paralisi del nostro funzionamento psichico dall’altra.

Ecco alcune considerazioni di Freud del 1915 a proposito della guerra, che sembrano calzare a pennello con i nostri vissuti all’epoca del coronavirus:

Presi nel vortice di questo tempo di guerra, noi stessi non riusciamo a renderci conto del vero significato delle impressioni che urgono su di noi, e del valore dei giudizi che siamo indotti a pronunciare.

Freud, inoltre, mette in evidenza come, in presenza degli eventi bellici, i disturbi di ordine nevrotico sembrano decisamente ridursi. Questa osservazione è confermata dai dati che emergono dai pazienti nelle zone di isolamento sanitario, in cui i disturbi ipocondriaci sembrano diminuire, lasciando spazio talvolta alla sana e matura preoccupazione, ma talaltra, purtroppo, a un acutizzarsi di una incontenibile sintomatologia panica.

Gli psicoanalisti dovrebbero contribuire a ravvivare la capacità di pensare e sognare un futuro migliore e di impegnarsi nel contribuire alla valorizzazione del senso della misura e della sobrietà, reagendo ai sentimenti di catastrofe, contemplando con integrità e sincerità anche gli aspetti spiacevoli dell’esistenza, ma favorendo la possibilità di viverli con una maggiore coscienza riflessiva. Sarebbe utile che gli psicoanalisti dessero la loro disponibilità agli Ordini dei Medici, alle ASL e agli Ospedali per la creazione di luoghi di ascolto online del personale sanitario sottoposto a intenso stress emotivo, quali sportelli di ascolto o gruppi di condivisione delle esperienze di contatto col dolore e la morte, in cui gli operatori della salute possano trovare una possibilità di espressione del disagio e talvolta della disperazione e proporre possibili risposte condivise.

 

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