BROTHERHOOD (Fratellanza), di N. Donato (Danimarca, 2009)

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2 ottobre, 2012 - 12:40

"E' inconcepibile un amore fuori dal profondo, lontano, oscuro fondamento sadomasochistico"
(P.P.Pasolini, Interviste corsare, 1972)

poli

Quando Lars viene allontanato dall'esercito, giovane e brillante militare in carriera di cui viene scoperta l'omosessualità, inizia la sua reazione, il suo percorso di odio. Possiamo seguirne lo sguardo, i pensieri persino, lungo tutta la durata del film: la macchina da presa non lo lascia mai.

In cerca comunque di un gruppo maschile di appartenenza, viene notato per la sua intelligenza e capacità di esprimersi con coraggio, dal capo di un'organizzazione neonazista, gruppo ferocemente xenofobo, omofobo e rigidamente organizzato al suo interno come una setta. Se sulle prime Lars si sottrae, figlio di una borghesia progressista che lo rende, da un lato, irrimediabilmente diverso dagli altri membri del gruppo ma al tempo stesso anche in rottura con i valori della famiglia, subito dopo entra a farne parte, diventando in breve tempo uno dei membri più apprezzati e per il quale i "grandi capi" (inquietanti figure tra il massonico e il Terzo Reich) hanno in mente un fulgido avvenire.

Ma lo sguardo inquieto di Lars, dentro ad un gruppo a cui è visibilmente estraneo se non per la forza dell'odio che lo ha spinto lì, incontra presto un altro sguardo, un altro corpo scultoreo su cui posare il desiderio, Jimmy. Ombroso, cupo, di poche parole, Jimmy convive con il grande dolore di avere un fratello tossicomane e disperatamente dipendente da lui, Patrick, figura debole e vinta che nel gruppo porta il volto scavato e perso di chi è condannato ad una marginalità povera e rabbiosa, che non lo vedrà mai protagonista - da subito invidia Lars, infatti - nè oggetto d'amore per il fratello.

La passione amorosa che si accende tra Lars e Jimmy, sincera e violenta e tenerissima (come sembra che ormai la filmografia sappia rappresentare così bene solo negli amori omosessuali) avrà un esito inevitabile: venire scoperta, proprio dal dolente Patrick, denunciata, duramente osteggiata fino al rischio di morte per Jimmy, che avrà sempre l'amato Lars al suo fianco.

Un film d'amore, dunque?

Un 'Brokeback Mountain' scandinavo?

No, non proprio, non solo. Ho brevemente introdotto e riassunto la vicenda amorosa perchè essa fa certamente da perno poetico al film, ne costituisce l'ossatura narrativa e ci regala bellissime immagini (i due ragazzi al mare, la loro gioiosa solitudine mentre riparano la casetta che il capo ha ordinato per il gruppo, i silenzi carichi di parole mai dette...), ma l'anima più interessante, originale e dissacrante di questa opera prima dell'italo-danese Nicolo Donato, intensa e a suo modo perfetta, a me è parsa da ricercarsi altrove.

Se è vero che vi è un universale nella storia di Lars e Jimmy - l'universale della forza dell'amore nella diversità e della sua capacità di rottura con l'esistente, con le difese e il pregiudizio - vi è qui uno specifico nel quale siamo da subito catapultati. L'universo inquietante dei neonati gruppi naziskin, forse soprattutto nel nord Europa, è qui raccontato in tutta la sua tragica verità e nel suo potenziale pericolo. La verità di costituire puri ricettacoli di odio e frustrazione, marginalità e devianza (sfigati!, urlerà Lars quando alla fine ritrova sè, e prende le distanze), dove individui allo sbando, inconsapevoli delle pulsioni che li abitano non hanno altro scampo, altra possibilità di fuga se non nella formazione reattiva, da cui l'omofobia, e nella proiezione nell'Altro di tutto il male, di tutto l'orrendo non accettato in sè.

Omofobia, odio per lo straniero, ignoranza, nostalgiche riletture del Mein Kampf si mescolano al bisogno disperato di appartenenza, di identità, di conferma narcisistica validante, di regole chiare e certe, di quei riti di iniziazione che la modernità ha abolito, lasciando gli adolescenti e i più fragili in generale alle prese con un compito evolutivo sentito come impossibile, troppo faticoso.

Gruppi che vivono e si nutrono sotto l'impero della scissione (buono e cattivo irrimediabilmente separati, e il Buono sta tutto in me) e della negazione, per cui non sono io ad avere dentro di me questa pulsione, ma sei tu: l'omosessuale, l'ebreo, l'arabo, il musulmano, gli handicappati. Il diverso da me. L'alterità. Potentissimi meccanismi difensivi che quando vengono allo scoperto rivelano parti del sè non più integrabili, destinate a produrre morte e annientamento per evitare il crollo del soggetto (viene ricordato Hitler, nel film, quando fece fuori tutti i gerarchi delle SA, a lui carissimi, perchè omosessuali). "L'indicibile sofferenza provocata dalla vita pulsionale - scrive Bollas, in La struttura del male (1995) - può creare oggetti di desiderio e situare il Sè in un tale apporto con il mondo che non solo rende possibile la frustrazione, ma le pulsioni, che sono alla base di precisi gesti e bisogni, spingono il soggetto a fare direttamente del male all'altro. (...) la pulsione è vissuta come una forza distruttiva" (corsivo mio). Il serial-killer citato da Bollas "ha ucciso quegli uomini perchè voleva uccidere la fonte del suo desiderio omosessuale"(ib.)

Benchè la psicoanalisi riconosca da tempo questi meccanismi (l'indicibile sofferenza provocata dalle pulsioni), come ricorda Bollas, siamo in grado di arginarli, di porvi rimedio? O il Male, "considerato come struttura", è di per sè ineliminabile, irriducibile in quanto "corrisponde ad una complessa riorganizzazione del trauma, in cui il soggetto ricorda la perdita dell'amore e la nascita dell'odio, mettendo gli altri nella situazione inconscia di vedere ucciso il proprio Sè"(ib, corsivo mio).

La "complessa riorganizzazione del trauma" di cui parla Bollas, è ben rintracciabile in questo film. La vediamo nei volti, nei gesti violenti e disperati dei ragazzi del gruppo, nel loro bisogno di affiliazione e dipendenza, intuiamo una deprivazione precoce e insanabile, in tutti (e di cui il drogarsi di Patrick è l'evidente specchio), che li congela nell'obbligo alla proiezione, impoverendo così il proprio Sè sempre di più, in una sorta di mortale circolo vizioso.

Lars, è vero, è portatore di un elemento di diversità, di consapevolezza; il suo traumatismo è meno radicale, la sua provenienza più benestante e culturalmente meno deprivata, la sua rabbia più edipica, scagliata contro un padre debole all'ombra di una madre fallica. Lars, infatti, sconvolgerà l'assetto paranoide del gruppo, pagando un prezzo personale, ma riservandosi, forse, un finale aperto.

Bisogna riconoscere agli autori scandinavi, in questo momento culturale, il coraggio di far emergere attraverso la filmografia e la letteratura, le crepe di un sistema che credevamo, e certamente è, tra i più evoluti e democratici del mondo. Come nella Svezia del fortunato Millenium di Stieg Laarson, nelle parabole di Lars Von Tiers, qui l'omosessualità è anche, a me pare, metafora potente di come ciò che viene scisso ed escluso, dalla mente individuale come dal tessuto sociale, possieda inevitabilmente una forza che lo fa tornare, impondendosi, per altre vie. Il ricacciato dalla porta, il rimosso o meglio il rigettato, torna inevitabilmente dalla finestra, con tutta la forza che possiedono le pulsioni negate, spinte come da una forza oscura a venire alla luce. Se l'omosessualità è metafora, il sesso, dimensione sempre così presente nella narrazione omosessuale, diventa "un simbolo" in cui "si concentra tutta l'alterità di una vita dominata dalla classe dominante - scriveva Pasolini nella bellissima critica al Maurice di Forster (1972) - che ne è sgominata e dissacrata fino alla dissoluzione".

Siamo introdotti da subito in una cupa atmosfera omofila: corpi tatuati, frasi violente, machismo, inno alla forza e alla virilità, assenza di presenze femminili nel film (con l'eccezione, già menzionata, della madre di Lars, donna in carriera dominante e maschile), ambienti militari e poi settari, cameratismo e amicizia. Fratellanza. Quale è il confine tra l'amicizia virile e l'attrazione omosessuale? Tra la brotherhood e il gruppo gregario che agisce in assetto di attacco e fuga bioniano? Cosa fa oltrepassare quel confine? E ancora, se ampliamo il discorso e lo attualizziamo, come credo il film intenda proporre, le nostre democrazie sono davvero in pericolo?

Dobbiamo guardare con preoccupazione al successo delle destre anche in Paesi tradizionalmente accoglienti e tolleranti come la Danimarca, dove oggi si infiltrano vene xenofobe, e quindi anche omofobe, quando non francamente razziste, e inquietanti atmosfere di nostalgia e revenche rispetto alle pretese identitarie, alla paura che lo straniero ci impoverisca e perciò vada perseguitato e scacciato, fino a venire ucciso o deportato?

Intervistato da Albert Jacquard sulle moderne forme di intolleranza, anche Pontalis si espresse con grande acutezza "....mettere fuori ciò che non voglio e non posso ammettere in me, ciò che percepisco come cattivo, colpevole, pericoloso. E' proprio questo che si osserva nelle reazioni razziste. (..). Ciò che pensavo confusamente come 'cattivo' in me, come possibile eccesso di sessualità e aggressività, lo attribuisco all'altro che diventa 'l'oggetto cattivo'. Si vede il "vantaggio" dell'operazione." E aggiunge " Ma ho omesso di precisare questo: per espellere fuori di sè occorre avere prima ingerito. Non si vomita che quanto si è mangiato. Non esiste corpo estraneo che nel proprio corpo. Ritroviamo nell'individuale la stessa convinzione constatata nel collettivo: "il nemico è in loco". (.....) Il paradosso è che si può trovare la propria identità a se stessi soltanto nel non essere identici agli altri. Il razzismo come fenomeno di massa scomparirà solo con la risoluzione di questo paradosso, cosa che implica identità multiple, eterogenee, mobili, e non il trinfo dell'Uno, necessariamente distruttore" (1988, corsivo mio).

Lasciamo Lars e Jimmy in un letto di ospedale; non sappiamo se Jimmy sopravviverà all'agguato ricevuto, se prevarrà la pulsione di vita su quell'Unonecessariamente distruttore di cui parla Pontalis. Lasciamo anche Patrick, fratello povero e maledetto, col peso della colpa di avere 'fatto la spia', divorato dalla gelosia di non essere lui, ma Lars, l'oggetto d'amore del fratello; non sappiamo come e se riuscirà a trasformare, ad elaborare dentro di sè una qualche forma di riparazione, a tollerare infine quella fisiologica esclusione dalla fratria, brotherhood, senza la quale è condannato a restare drogato e bambino per sempre.....

(pubblicato anche su http://www.spiweb.it)

- Bollas C. (1995): "Cracking up", Cortina ed, Milano, p164

- Pasolini P.P. (1972): "Edward Morgan Forster, Maurice" in 'Descrizioni di descrizioni', Garzanti, Milano, 1996, p26

- Pontalis J.B. (1988): "Perdere di vista", Borla, Milano, p79 e seg

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