Gli spazi abitativi ai tempi del Covid-19

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2 ottobre, 2020 - 18:45

Freud scriveva che la casa è una sostituzione del ventre materno, della prima dimora, a cui con ogni probabilità l'uomo non cessa di anelare, giacché in essa egli si sentiva al sicuro e a proprio agio. 

   La nostra casa, il nostro appartamento possono rappresentare in una straordinaria sintesi l’essenza del modo in cui percepiamo noi stessi, compreso il nostro corpo e le nostre relazioni con le altre persone. La casa sognata può essere nuova o vecchia, ricca o povera, elegante o fatiscente, caldamente accogliente o freddamente inospitale, colorata o grigia. Una casa può essere sognata in rovina, abbandonata, sul punto di crollare o di essere demolita, o  allagata, o incendiata, o distrutta da un terremoto. Ognuna di queste diverse immagini oniriche può testimoniare il timore di un crollo psichico, di una fase di instabilità emotiva. Al contrario il cantiere di una casa in costruzione può rappresentare il desiderio di cambiamento, di elaborazione di nuove possibilità relazionali, così come il restauro di una casa diroccata ha a che vedere con gli aspetti riparativi insiti nella relazione psicoanalitica. Sognare di essere chiusi fuori di casa e di avere perso le chiavi della serratura può rappresentare le resistenze del paziente ad entrare nell’angosciosa complessità del proprio mondo interno. La casa dell’infanzia, lo spazio domestico e felice delle memorie infantili, può essere in relazione con il riconoscimento di parti infantili di sé in oscillazione ai sogni in cui la casa è ignota e misteriosa.  

   Le restrizioni imposte dalla pandemia, il divieto degli assembramenti, l’uso della mascherina, hanno favorito un incremento del tempo vissuto all’interno delle abitazioni, che  frequentemente sono state adibite ad uffici virtuali per via del lavoro a distanza, modificando, talvolta in modo impressionante, l’utilizzo degli spazi abitativi. Le lezioni a distanza per i ragazzi che solo in parte possono frequentare le lezioni in presenza, necessitano di uno spazio protetto da ingombranti altre presenze, da voci disturbanti. Lo stesso problema si pone per il così detto smart working, che implica l’occupazione di spazi protetti da intrusioni acustiche e visive anche per gran parte della giornata e che al tempo stesso riduce o addirittura inibisce la quotidiana routinaria comunicazione familiare spesso disordinata e allegramente rumorosa. Luoghi dell’abitazione che erano dedicati alla comunicazione intima, alle relazioni private, come la camera da letto, piuttosto che la cucina, vengono invasi da fredde immagini al computer, piuttosto che da sonorità estranee e deformate dal mezzo tecnico e si trasformano in aule o uffici virtuali, dove non c’è spazio per l’immediatezza delle comunicazioni e dei linguaggi spontanei e informali. In più, la trasformazione che negli ultimi decenni ha investito la partizione degli spazi negli appartamenti borghesi ha favorito una dilatazione degli spazi comuni a spese tanto degli spazi di transizione, deputati contemporaneamente a connettere e a separare, quanto di quelli più strettamente preposti alla protezione dell’intimità. L’open space, costituito da un unico grande ambiente, appena la porta di casa si apre, ha preso il posto di spazi differenziati e delimitati dalle soglie, quali l’ingresso, la cucina, la sala da pranzo, il salotto, il corridoio e talvolta il ripostiglio. Questa suddivisione degli spazi ha reso ancora più conflittuale la separazione tra pubblico e privato, tra esteriore ed intimo in tempi di pandemia.  

Bisogna riconoscere nel contesto architettonico il valore e il senso dell’intervallo, di quello spazio che divide il fuori dal dentro,  ovvero la grande spazialità esterna del pubblico, delle masse, dallo spazio della famiglia, del focolare domestico. Il recupero del valore delle pause che danno significato ai termini fuori e dentro, delle soglie, dei luoghi pensati contemporaneamente per separare e connettere spazi adibiti a funzioni differenti, si rende necessario anche in rapporto a un utilizzo dell’abitazione diventato di necessità più eclettico, multitasking.  

   La riduzione, o addirittura l’assenza di luoghi di transizione, di spazi interstiziali che favoriscano la protezione dell’intimità e la scansione di funzioni psichiche differenti può condurre a vissuti spaziali impersonali e amorfi e provocare una sorta di indistinzione sensoria con seri intralci ai vissuti di benessere psicofisico, di confusione comunicativa, di tensione relazionale. 

   È sempre più evidente l’affievolimento fino alla scomparsa degli stati di transizione, di indugio, dei luoghi intermedi tra condizioni e fasi esistenziali differenti, che permettano i fisiologici passaggi di stato sanciti dalla comunità di appartenenza. Fasi transitorie con ritmi e modalità adeguati alle esigenze umane veicolate da quei riti di passaggio che danno valore alla liminalità, al margine, alla sospensione che consenta fasi di ambiguità e indeterminatezza. La riduzione fino all’assenza dei riti di passaggio che segnano le fasi di transizione nell’esistenza dell’uomo, sembra volere cancellare il tempo del dubbio e dell’attesa, il tempo del necessario ri-conoscersi per trasformarsi. 

   Sarebbe necessario ricostituire anche nei nostri appartamenti i percorsi interstiziali, che siano sottratti a un linguaggio formalmente e fortemente codificato e, quindi, possano essere aperti a una comunicazione più informalmente libera,  dove possa depositarsi ciò che è latente di strutturazione e di senso, che resta informe, non formulato, in “transizione” nella psiche. È affascinante ri-pensare e, quindi ri-creare, percorsi che agevolino, accompagnino e proteggano la successione spaziale e psicologica dall’esterno all’interno e viceversa, e che si intreccino e si interconnettano con relativi luoghi di sosta o di attesa, o di semplice passaggio, spazi di transizione che abituino al nuovo paesaggio e che permettano il lutto del vecchio senza scarti, senza strappi.  

   Tra gli spazi architettonici emblematici della transizione vanno ricordati l’ingresso e il corridoio all’interno degli appartamenti borghesi, che le nuove idee, i nuovi progetti e le nuove tecniche sembrano non tenere sufficientemente in considerazione, mettendo in tal modo in secondo piano le esigenze basali dell’abitante.   

   L’ingresso permette una transizione protetta dall’esterno all’interno, dall’aperto al chiuso, dal linguaggio pubblico a quello privato. Il senso dell’ingresso è quello di costituirsi come luogo privilegiato di sosta e di attesa dopo l’entrata, di accoglimento, contenimento ed elaborazione dell’ignoto, ma anche di dilatazione del tempo di contatto per il commiato prima dell’uscita. L’ingresso è uno spazio che partecipa del domestico e del pubblico, attraverso una accettabile e ben equilibrata commistione di elementi formali e informali, esteriori ed intimi. 

   Il corridoio è per antonomasia il luogo dell’indistinto, della funzione non fortemente specificata. Lo psicoanalista francese J-B. Pontalis, in riferimento alla necessità e del valore dello spazio transizionale proposto da Winnicott per lo sviluppo psico-emotivo del bambino, proponeva una bella immagine domestica. Tra la camera dei genitori e la camera dei bambini non è male che vi sia un corridoio. E tutti sanno che i bambini adorano giocare nei corridoi proprio perché luoghi sufficientemente liberi, in cui le differenti identità possono incrociarsi, confrontarsi, confondersi. Il corridoio nel film “La famiglia” di Ettore Scola si costituisce come il luogo privilegiato per la messa in scena della memoria, diventando protagonista immutabile e muto della apparente ripetitiva rappresentazione dell’incrocio e delle transizioni fra tempo privato e tempo storico nel succedersi delle generazioni in una famiglia borghese.  

   L’architettura può essere intesa come una continua elaborazione delle zone che separano e congiungono i mondi interni e privati con la sfera sociale e che organizzano le entrate e le uscite da uno spazio all’altro. Sarebbe utile progettare abitazioni che diventino o ridiventino luoghi capaci di rispettare e consentire tempi e ritmi differenti della comunicazione senza ricorrere a soluzioni arbitrariamente cortocircuitanti e quindi oggettivamente limitanti, come è avvenuto con l’inflazione gli open space. Un ambiente sufficientemente buono, come direbbe Winnicott, dovrebbe prevedere spazi partecipi, ma non intrusivi, protettivi dell’intimità, ma non esclusivi ed escludenti, discretamente e duttilmente capaci di garantire la necessità di isolarsi senza dovere rinunciare alla possibilità di comunicazione con gli altri, quando questa venga avvertita come necessaria. L’incontro tra architetti e psicoanalisti potrebbe avere proprio lo scopo di pensare a luoghi che riunifichino, o perlomeno mantengano aperta la conversazione tra il soma e la psiche, l’individuale e il collettivo, l’interno e l’esterno, il passato e il presente, evitando nefaste e antieconomiche scissioni. Il mondo dell’architettura, generalmente definita come l’intenzionale considerazione dell’ambiente umano costruito, e il mondo della psicoanalisi, generalmente definita come lo studio della vita umana inconscia, possono intrecciarsi in quanto il modo in cui viviamo e rappresentiamo in noi l’ambiente che abitiamo riflette le forme inconsce del pensiero realizzate attraverso l’architettura. Renzo Piano ha dichiarato che ascoltare è il primo passo per fare architettura, nel senso di cogliere i sentimenti di una comunità e farli dimorare dentro di sé. Mi viene in mente che ironicamente, ma realisticamente, Cesare Musatti sosteneva che l’unica e vera malattia professionale dello psicoanalista sia la sordità, intesa come incapacità di ascolto, e non il mutismo.  

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