CUORE DI TENEBRA
Viaggio al termine della psichiatria
di Gilberto Di Petta

STABAT MATER

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7 gennaio, 2022 - 11:51
di Gilberto Di Petta

Cosa ci fa una donna, in una notte d’inverno, da sola, in mezzo al mare, stringendo al seno il suo bambino?
Cosa c’è di più potente di una madre e di un figlio abbracciati?
Quale fine del mondo può rompere la forza di questo legame?
Non sono forse essi stessi fatti della stessa materia del cosmo?
Mentre ella avanza così, non vista da nessuno, i rumori della costa si allontanano, sostituiti dalla voce delle onde. Le luci della città si affievoliscono, e il buio si fa più denso. Il bimbo, forse, piange. E’ continuamente sommerso e scoperto dall’acqua. Ma lei non lo sente piangere. Non ricorderà che il bimbo piangeva. Né, che ad un certo punto, ha smesso di piangere. Ricorderà solo che lei lo stringeva. E che era serena. Più avanzava nel mare, e più si sentiva libera. E più avanzava nel mare e più stringeva a sé il bambino. Più la vita lo lasciava, e più lei lo stringeva a sé. Non lo sa perché mai, quella sera, era entrata nell’acqua. Era uscita nel tardo pomeriggio col bambino solo per una passeggiata. Poi, dopo le giostrine, sulla riva, è successo qualcosa. Un’attrazione irresistibile, un’atmosfera magnetica l’avevano stregata. Come accade nell’ultima scena del film “Melancholia”, di Lars von Trier, quando Justine, tenendo per mano il bambino, si rifugia nella grotta magica attendendo, serena, l’apocalisse. Non era lei. Doveva fare così, Non c’era scelta. Aveva proceduto come un’automa. Non sa neppure quanto tempo fosse passato così, mentre lei avanzava semisommersa dalle onde. Ricorda che, ad un certo punto, si era trovata davanti una scogliera frangiflutti, e vi era salita. Aveva sempre, mentre si inerpicava, il suo bambino in braccio, stretto stretto al seno. E finalmente, su quello scoglio, si era sentita libera. Finalmente libera. Lo scirocco le asciugava i capelli bagnati, e i vestiti attaccati addosso. Era giunta fino al punto zero del mondo. Lei, il suo bambino, il mare, la notte. Una madre, un figlio e il cosmo. Ma ad un tratto il mondo intorno, sospeso come d’incanto, era riemerso. In fondo era una sera di inizio anno. Il clima era ancora quello delle festività natalizie. La città che si affaccia sul golfo è grande. Ad un tratto alcuni ragazzi che si trovavano sul lungomare, vengono colpiti da questa immagine singolare, quasi irreale, che balugina, tra la spuma bianca delle onde e le luci della costa: una donna sola con un fagotto in braccio, protesa sulla scogliera. E’ un attimo. Si immergono. Li raggiungono. Li separano. Il corpo del bambino è già freddo. La donna è in catalessi. A riva i tentativi di rianimarlo sono vani. Le ore che seguono sono convulse. Quando viene condotta in SPDC, io non sono in reparto. Coordino le operazioni da casa. Il sonno, dopo, mi va via. Penso a lei per le ore successive.  Mi alzo prestissimo, mi faccio il caffè, accendo il fuoco per asciugarmi e vestirmi, e parto. Arrivo in ospedale che l’alba è ancora lontana.  Non guardo proprio ad oriente. Non è una notte che merita l’alba, questa. E’ una notte che non può finire. Nella stanza del medico di guardia la luce è rimasta accesa. Neanche la collega di turno ha trovato riposo. La trovo che mi aspetta con ansia E’ lei che l’ha accolta. E’ sconvolta. Ci facciamo un altro caffè sul fornelletto elettrico e aspettiamo la collega di turno del mattino. Non parliamo. “Posso assistere al colloquio?” E’ l’unica cosa che mi dice. Penso che anche per lei questo turno non finirà mai. Adesso ho chiaro a me stesso che ho timore ad entrare in quella stanza. Di cosa ho timore? Solo dell’attimo in cui incrocerò i suoi occhi. Lo so che al primo sguardo vedrò il bagliore della follia. E’ per questo che indugio. “Questa notte quante vite ti sei presa?” e’ la domanda che pongo, nel mio dialogo interno con l’insensato. Ma la domanda cade. La follia non mi risponde. La vedo che ride, beffarda.  Quando entro in stanza lei è seduta sul letto, semicoperta fino ai fianchi. Una donna  ancora giovane, di una sua dolente bellezza. Ha i capelli castani raccolti all’indietro. Le sopracciglia sottili, l’ovale del volto disteso, un incarnato bruno ma pallido. Non si sorprende  a vedermi.  Ci salutiamo con gentilezza. Il suo distacco, a poco a poco, mi allenta la paura. “Il terribile è già accaduto.  Nulla più di peggio di quanto è accaduto può accadere. La morte non è nulla. Il tempo è fermo per sempre. Rien ne va plus-“ Questo dico alla follia quando la incontro nei suoi occhi. “Neanche tu, adesso, puoi fare nulla di più di ciò che hai fatto”. Distolgo lo sguardo. Chiedo alle due valchirie bionde che la sorvegliano in borghese, con le armi d’ordinanza occultate, come avevo chiesto, se possono lasciarci da soli. Nell’incrociare i loro occhi risento, di colpo, salire la vita, per contrasto. Sono passato in un attimo, solo con un cambio di sguardo, da un paesaggio lunare di polvere, sassi, silenzio e distanza all’afrore di sabbie tropicali. Mi raggiungono le mie due colleghe. Sono entrambe madri di figli piccoli. Avvertiamo, tutti e tre, la gravità dell’incontro. Ho dato disposizioni agli infermieri di non turbarci, per nessun motivo al mondo. Ci sediamo intorno al suo letto. Lei troneggia, come una regina, al tempo stesso patiens e triunphans, è la regina del tempo. E’ lei la madre, grande madre, regina della notte. Il passato non c’è più. Il futuro non c’è più. Il mondo non c’è più. Quella notte, la sua notte, e quanto accaduto hanno consegnato  lei e il suo bambino ad un’eternità senza nome. I giorni a venire, per lei, da adesso, saranno tutti uguali tra di loro. Ma lei appare, paradossalmente, sollevata. Quello che doveva essere fatto è stato fatto. E distaccata. Quasi come se fosse viva, dentro di lei, la memoria dello stato crepuscolare che ha vissuto inerpicata su quello scoglio. Di fronte all’infinito. Mentre il nostro colloquio avanza, una strana parola tedesca mi rimbalza nella mente : Umnachtung. Significa “essere avvolti dalla tenebra”. Io stesso, adesso, per un lungo istante, sono fermo con lei, su quello scoglio. Non vado avanti. E’ un fermo immagine. Una madre che stringe al seno un bambino, sospesa tra la terra, il cielo e il mare. Faccio, con lei,  esperienza del sublime. In quel momento c’è tutta la sua vita di prima, la vita di dopo: la vita del bambino che ha messo al mondo, l’immensità del mare che la circonda che si confonde con il buio della notte, la sospensione del mondo umano, del resto del mondo, il ritorno a Dio, o alla Natura che creano e che distruggono, da cui si nasce e si ritorna. E tutto questo è più della follia. E’ più della giustizia. E’ più del senso comune. C’è qualcosa di primigenio o primordiale in tutto questo. Di dionisiaco e al tempo stesso di apollineo, di tragico e di assolutamente tenero e innocente. “A te, da cui tutto nasce, morendo ritorno”. Ora mi sento che anche io, con lei, ho oltrepassato la follia. Posso continuare ad ascoltarla e a farle domande. Tengo stretto tra le mani questo frammento di assoluto, che è una sintesi della totalità, un particolare che riflette il tutto. Ho gettato lo sguardo, attraverso i suoi occhi, in un precipizio irresistibile, che ingoia tutto quel che è dissonante, le zone d’ombra, le fratture, i vuoti, i silenzi, l’inesprimibile. E’ questo il “numinoso”, il momento di stupefazione in cui l’infinito sembra potersi rivelare, l’apofania che trionfa sull’apocalissi. E’ l’assurda prossimità dell’amore e alla morte, ascesa e caduta vertiginosa, la massima chiarezza che precede il buio più fitto. Dalle persiane, improvvisamente, filtra l’alba. La luce del sole ci ferisce gli occhi.  All’orizzonte l’isola di Capri si staglia, non più avvolta dal buio. Adesso lei e il suo bambino sono quel gabbiano che grida, dalle grandi ali aperte, finalmente libero, che balena tra il vento e il mare.   

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