LA VOCE DELL'INDICIBILE
I suggerimenti della rêverie degli Artisti
di Sabino Nanni

Il difficile rapporto col “fanciullino” interiore. Il piccolo Berto di Saba

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6 marzo, 2022 - 08:59
di Sabino Nanni
      Indipendentemente dall’età cronologica, sopravvive in ciascuno di noi il “fanciullino” di Pascoli, fonte degli aspetti peggiori e di quelli migliori della nostra vita affettiva. Il difficile rapporto con questo bambino interiore è alla base di numerosi problemi clinici che lo psichiatra deve affrontare nel suo paziente e in sé stesso. Essi si presentano quando la parte adulta di noi (parte evoluta, razionale, aderente alla realtà esterna) non riesce a padroneggiare ed a proteggere il fanciullino interiore, e viene travolta dalle sue angosce. –  Qualcosa di simile può capitare anche nel rapporto con i bambini che abbiamo messo al mondo. – Riaffiorano emozioni arcaiche, non più dominate dalla razionalità e dall’esame di realtà: vissuti di persecuzione, angosce di separazione e di perdita, impulsi non governabili di tipo aggressivo e autolesionista, fantasie che spaventano, ecc. Si tratta di stati emotivi che la mente non riesce a contenere ed elaborare, e che spesso sconfinano nel panico.

        Un’altra situazione patologica, apparentemente di segno opposto, si verifica quando l’individuo, sentendosi incapace di padroneggiare i suoi aspetti infantili, li vive come nocivi ed erige, nei loro confronti, una barriera di rimozione e disconoscimento. Ne può derivare una personalità rigida, iper-realista ed arida perché privata degli apporti vitali che solo il bambino che c’è in noi può offrirci: una personalità priva di vivacità, curiosità, giocosità, immaginazione, capacità intuitive. L'individuo, inoltre, avendo tagliato le sue radici, non sa più esattamente che cosa davvero vuole nella vita. Le rigide difese (spesso di tipo ossessivo), oltre una certa soglia, non reggono all’impatto d’intense sollecitazioni esterne; l’individuo crolla, si scompensa, e possono manifestarsi le patologie più gravi.
        Il Poeta, nei momenti di grazia in cui prevale in lui l’ispirazione, ci offre un modello d’equilibrio e capacità di ripristinare l’armonia interiore. Non nega a sé stesso (ed a chi lo legge) il contatto con le proprie esperienze infantili ma, nello stesso tempo, le pone sotto il dominio della sua Arte e della Bellezza; le rende accettabili, pensabili e feconde. Un esempio di tale capacità ci è offerto da “Il piccolo Berto”, tratto da “Il Canzoniere”, in cui Umberto Saba ritrova in sé stesso il fanciullino che fu un tempo, che sopravvive in lui, e con cui riesce a dialogare. Ne riporto, qui sotto, alcune poesie, accompagnate da miei commenti sui più importanti suggerimenti che il Poeta offre al Clinico, e che possono aiutarlo nel difficile compito di confrontarsi con quest’aspetto dell’animo umano. Per inciso, i numeri di pagina accanto a ciascun titolo si riferiscono all’edizione Einaudi del Canzoniere; le mie annotazioni sono riportate in corsivo.
 
Tre poesie alla mia balia - I – pag. 387
Mia figlia
mi tiene il braccio intorno al collo, ignudo;
ed io alla sua carezza m’addormento.
 
Divento
legno in mare caduto che sull’onda
galleggia. E dove alla vicina sponda
anelo, il flutto mi porta lontano.
Oh, come sento che lottare è vano!
Oh, come in petto per dolcezza il cuore
Vien meno!
 
Al seno
Approdo di colei che Berto ancora
Mi chiama, al primo, all’amoroso seno,
ai verdi paradisi dell’infanzia.

 
L’addormentarsi è qui metaforicamente rappresentato da un legno trascinato, suo malgrado, alla deriva; eppure è un venir meno per dolcezza, è come un venir dolcemente travolto dalle soavi cure di colei che, per prima, gli offrì il suo seno. È il momento in cui, nella mente e nell’animo del Poeta, riaffiora il bambino che egli fu un tempo. Viene da pensare a tutti i disturbi del sonno, di cui soffrono alcuni pazienti, che dipendono dalla difficoltà a ritrovare le stesse antiche esperienze di serenità e dolcezza.
 
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Berto – pag. 391
… a lungo
ci guardammo in silenzio; oh, così a lungo
che il tempo, come in una fiaba, a noi
non esisteva…

Incontro immaginario con sé stesso bambino; incontro nel quale, essendo possibile tornare magicamente nel passato, il trascorrere inesorabile del tempo non esiste più. C’è, però, un altro motivo per cui è possibile, al Poeta, entrare in una dimensione atemporale: come succede al piccolo che, completamente assorbito dal racconto di una fiaba, dimentica il tempo cronologico scandito dagli avvenimenti della realtà, così accade in questo momento di estrema intimità. È quel che si verifica nello “emotional refueling” (M. Mahler) sulle ginocchia della mamma, così come in tutte le esperienze che assorbono completamente l’attenzione; esperienze in cui “il tempo vola” perché ci si è momentaneamente dimenticati della precarietà delle cose e, quando ci si “risveglia”, ci si accorge di colpo che l’orologio è andato avanti.

“... Ho tante cose,
bambino, che vorrei chiedere a te”
Quasi atterrito si ritrasse, e in sé 
stesso di rientrar desideroso

Notiamo, qui, la ritrosia infantile di fronte alle domande sulla vita interiore: ancora incerti sono i suoi processi di rimozione, come pure è fragile il suo rapporto col mondo esterno, che può affrontare solo nelle aree transizionali illustrate da Winnicott (aree di confine che non appartengono più al Sé, ma non ancora al mondo esterno; aree in cui al piccolo, con il suo gioco, è possibile “scoprire” e, al tempo stesso “inventare” gli oggetti del suo divertimento). Il bimbo, infatti, si rianima nei versi seguenti, quando il Poeta gli propone una sorta di giocattolo:

“… il solo orologio che mi piace
ha colonnine d’alabastro, in cima
genietti che giocan con l’alloro;
è fermo a un’ora per sempre”. Egli volse
a quello la gentil testina, e rise;
poi la sua mano nella mia rimise…

Tuttavia, il piccolo Berto diviene scuro in volto, quando il Poeta lo pone di fronte alla precarietà delle cose e delle persone: alla vecchiaia, preludio della fine, che rende gli esseri umani irriconoscibili, e non risparmia neppure la sua balia, la persona che più ama.

… È viva ancora,
io te lo giuro, ma mutata è molto,
molto mutata d’allora... Perché,
Berto in volto t'oscuri? Parla” – “Io sono 
- rispose - un morto. Non toccarmi più”

È qui evidente l’impossibilità infantile di tollerare il lutto e quella di conservare, da adulto, le tracce di un'esperienza di perdita precoce che sia pensabile: dopo che il Poeta ha detto all'immaginario Berto che l'amata balia non è più quella di allora (che è destinata a non esserci più), il bambino, sopraffatto dalla sensazione di una perdita intollerabile, è come morto. E come morto, non più raggiungibile, rimarrà nel ricordo dell’adulto.

 
Ninna-nanna – pag. 394, 395
Fa’ la nanna, bambin. Nell’altra stanza
Veglia tua madre, e il cuore le si spezza,
sola. E una lieta ti annuncio certezza:
più non ritorna il tuo cattivo padre.
 
Oggi tuo padre
Son io. Mi assumo, e m’è lieve, il tuo affanno.
I tuoi dolori e le tue gioie vanno
Pei cieli azzurri come squille d’oro.

Il Poeta assume, qui, la funzione del padre di lui stesso bambino, un piccolo cresciuto senza questo genitore. Si tratta di chi, da un punto di vista diverso da quello del bambino e delle figure femminili cui è legato, può cogliere la situazione complessiva del piccolo, che vive nell’alternarsi dei dolori causati da una delle due donne, e delle gioie suscitate dall’altra. Berto ha come due madri: la balia (Peppa) lieta di averlo, giocosa, amorevole, capace di offrire la “promessa narcisistica” che renderà più luminoso il suo avvenire e rafforzerà la fiducia in sé stesso:

Se v’è un tesoro
nel mondo sarà tuo - e lo senti - un giorno
……………………………………………
Del tuo viaggio,
che lungo io penso e quasi occulto, un'orma
dietro ti lascerai, profonda

L'altra madre, quella naturale, cupa, pessimista, è, par di capire, la fonte prima di vissuti persecutori che irrompono, sconvolgendola, nella serenità del bambino:

La paurosa
notte è nemica ai pargoli mal desti.
Possono indizi scoprirvi funesti,
veder cosa che impetra al muto orrore.

È fonte, anche, della tristezza che avvolgerà la vita del poeta:
Nell'altra stanza
veglia una donna e il cuore le si spezza,
sola. Ti viene di là la tristezza
che avvolge la tua vita a poco a poco.

 
Preghiera all’angelo custode – pag. 396

Recupero di una fantasia ingenua, puerile che tuttavia riflette un'importante realtà interiore: l'angelo custode è la personificazione postuma di una primitiva ed invisibile “environmental mother” (Winnicott, Ogden) vissuta, ora, come alter ego o prolungamento di sé:

… In sogno
t'ho veduto una volta: un fanciulletto
di me più grande ma non molto...

Tale presenza originaria, costantemente vigilante, protettiva, interiorizzata, continua ad “avvolgere” il Poeta, accompagnandolo in tutte le tappe della sua esistenza:

… Sostanza
eri d'amore, eri l'amore intorno
alla mia vita vigilante…

Il ritorno di tale presenza costituisce, per il Poeta, un aspetto del “mondo nuovo” che egli sta conquistando:

… io prego
solo una cosa: che fra crolli tanti,
sopra tanta rovina, a lungo io possa 
e il mio compenso ritrovare, e un poco
del mondo nuovo con esso, in fra questi
puerili adorabili pensieri.

Ogni progresso rappresenta, per la vita interiore, un parziale recupero di qualcosa di originario e vivo, fra tanti crolli.

 
Lo specchio – pag. 397
Guardo un piccolo specchio incorniciato
di nero,
già quasi antico, semplice e severo
a un tempo.
                   Una fanciulla
 – nude l’esili braccia – gli è seduta
di contro. Ed un ricordo
d’altri tempi mi viene…
……………………………………….
… E il ricordo
narro a mia figlia per diletto:
                                              “Un giorno
fu, che tornavo di scuola. Il maestro
ci aveva fatta ad alta voce, e come
allora usava, la lettura. Immagina
un bambino che va solo in America,
solo a trovare sua madre. E la trova
sì, ma morente…
……………………………………
… Io non ti dico
come a casa giungessi. E quando, vinto
dai repressi singhiozzi, apro la porta
e volo incontro a mia madre, lei vedo
al tuo specchio seduta, nello specchio
il primo suo capello bianco…  

Nel ricordo evocato dallo specchio, il vedere la madre viva, “in carne ed ossa”, non riesce a lenire del tutto l'angoscia di poterla perdere del piccolo Berto; angoscia risvegliata dalla lettura di “Dagli Appennini alle Ande” di De Amicis. C'è il capello bianco, che preannuncia il declino della vecchiaia e la morte. Lo specchio, il luogo della vanità femminile, ora riflette una realtà ineludibile: "vanitas vanitatum et omnia vanitas", come recita l'Ecclesiaste. Si tratta di una realtà che solo la vivacità e il brio giovanili della figlia - le sue pulsioni di vita - riescono a neutralizzare e a far dimenticare:

… Ed ecco
Tu ridi adesso, e anch’io ne rido, o quasi,
ma non quel giorno o quelli poi”
                                                    “Non rido,
babbo, di te – mi risponde – ma tanto
s’era a quei tempi, o eri tu solo tanto
stupido?”
               E getta
Le braccia intorno al mio collo, e mi bacia,
e dallo specchio e da me s’allontana.
 
Il carretto del gelato
– pag. 398
Una tragedia infantile adorabile
mi si va disegnando.
 
Ecco il cortile: nel cortile in bianco
dipinto e in rosso un carretto. Bambini
gli fanno ressa d’intorno…

Al ricordo di quest’immagine, al Poeta torna alla mente un suicidio fantasticato come atto di feroce vendetta verso la madre, colpevole di non avergli concesso lo svago del gelato e della compagnia degli altri bambini:

… “Vedi
- mi dice - se tu fossi oggi restato,
non dico molto (due ore) a studiare,
beata adesso io ti direi: va’ e prenditi
come gli altri uno svago”. Io non rispondo;
né pur le dico: Ma è vacanza….

La fantasia del suicidio ha quasi l’intensità e l'estesia sensoriale dell'allucinazione:

                  … Sento
che a capo in giù cado dalla finestra,
giù lungo il muro della casa…

D’altro canto, la vendetta inflitta alla madre ha già il carattere più attenuato dell’immaginazione e del pensiero:

… E penso,
così precipitando: Oh che dolore
avrà mia madre! Quando sarò giunto
al basso, e morto sarò là trovato!
Quanto per me dovrà piangere!

Sono illustrate, qui, le tappe attraverso la quali l'impulso suicida/omicida viene elaborato e successivamente superato in virtù del feed back che solo l'immaginazione, a differenza dell'azione impulsiva, consente:

… E lieto
non fui per me, ma per lei, come in piedi
rinvenni, a un tratto, alla finestra…

La fantasia suicida/omicida viene sottoposta al giudizio dell’istanza morale:
… Un buono
tra i buoni? Un figlio generoso verso
la sua colpevole madre? O tra i piccoli
mostri, un mostro crudele? La vendetta
in sé trovare, così atroce ed abile!

Che il Poeta non trovi la risposta a quanto si chiede significa che riconosce l’ambivalenza infantile: un’ambivalenza primitiva, le cui due componenti sono ancora chiaramente riconoscibili. Riconosce anche che, a salvarlo, sono state la sua già sviluppata attività immaginativa (capace di neutralizzare l’impulsività), e la prevalenza, sull’ostilità, dell’affetto per la madre: se “in sé” (nel rapporto con l’identificazione con la genitrice) trova la vendetta, ossia l’aggressività vendicativa che si rivolge contro sé stesso nel suicidio, tuttavia trova anche l’amore verso chi l’ha messo al mondo e, attraverso l’identificazione, verso sé. È quanto rende “adorabile” questa (mancata) tragedia. 

Vacanze – pag. 400
Emilio è a Grado, ai suoi amati bagni
di mare.
Ma piove un giorno e un altro ancora. Fare
che può un bambino in casa chiuso?...
……………………………………….
… Dar noia agli altri
quanta egli stesso ne prova?

Il caso del piccolo Emilio, in vacanza al mare ma costretto a stare a casa dalla pioggia, colpisce l’immaginazione del poeta. Ciò gli permette di capire quel che avviene nel mondo interno del bambino: costretto in casa, avverte una sensazione di fastidio e noia, che cerca di comunicare ai familiari facendola provare anche a loro. Tutto questo gli riporta alla mente una situazione analoga della sua infanzia:

        Ritorno
a lui pensando, fanciullo in vacanza,
in un giorno di pioggia. Come Emilio,
e più, mi annoio. E strane cose invento
onde alcuno di me s’occupi. Invano.
Da sé mia madre mi vuole lontano;
se la carezza ne cerco mi accusa
più fastidioso di una mosca. Fingo
di rompere un oggetto, né un castigo
pur ne ricevo; è molto se a una smorfia
son fatto segno di dispregio. E sento,
come mi passo sul viso una mano,
che devo agli altri apparire, che sono
io veramente diventato brutto.
 
Mi butto
sulla mia bella cugina materna
……………………………….
… Se al seno,
solo un momento mi stringesse! O almeno,
di me tediata, mi picchiasse! Invece
la bella mano mi scosta, poi dice
ella a mia madre: “Hai educato molto
male tuo figlio”. E sull’altero volto
la mia condanna per sempre d’incide.
………………………………………     
  

C’è qui la vana ricerca di una conferma della sua esistenza da parte del bambino annoiato, ossia privato del contatto con sé stesso, mancandogli l'esperienza transizionale del gioco sulla spiaggia ed il contatto vivificante col mare. Alle sue richieste di attenzione ed alle provocazioni cerca una risposta, non importa se di amore o di rabbia (il riconoscimento dell’importanza, positiva o negativa, della sua esistenza), ed invece riceve rifiuto, fastidio e disprezzo. Si sente “brutto”, ossia incapace di suscitare quell’ammirazione (quell’appagamento delle istanze narcisistico-esibizionistiche) che rafforzerebbe il sentimento della propria esistenza e del proprio valore.

 
Eroica – pag. 404
Nella mia prima infanzia militare
schioppi e tamburi erano i miei giocattoli,
come gli altri una fiaba, io la canzone
amavo udire dei coscritti… 

L’aggressività militaresca, che trova modo di esprimersi nel gioco e nella fantasia, è una difesa dell'integrità del Sé: il piccolo Berto, la cui integrità interiore è già stata scossa dall’essere stato strappato dalla madre naturale, attraverso l’immaginazione lotta contro chi vorrebbe attentarvi.

… Quando
con sé mia madre poi mi volle, accanto
mi pose, a guardia, il timore. Vestito
più non mi vide da soldato, in visita
da noi venendo, la mia balia. Assidui
moniti udivo da mia madre; i casi
della sua vita, dolorosi e mesti.
 
E fu il bambino dalle calze celesti,
dagli occhi pieni di un muto rimprovero,
buono a sua madre e affettuoso…

Il piccolo Berto aveva trovato, nella balia, un sostituto materno che gli aveva restituito la gioia di vivere. Sottratto, per la seconda volta, a chi si prendeva cura di lui, la sua vitalità sembra spegnersi. In conseguenza degli assillanti moniti materni sui “casi dolorosi e mesti” dell'esistenza, diviene il bambino “dalle calze celesti” (ossia non incline a giochi movimentati che le avrebbero sporcate) ed apparentemente privo di ogni tendenza alla ribellione ed all'affermazione di sé: “buono a sua madre e affettuoso”, ma “dagli occhi pieni di un muto rimprovero”. Mancandogli un valido sostegno materno, privato di una conferma dell’importanza della sua esistenza, non si sente più in grado di difenderla: la sua combattività, apparentemente, viene meno. Tuttavia, nel fondo del suo animo, resistono, e riemergeranno in seguito, l'amore per la battaglia e le fantasie di guerra:

… Schioppi
più non ebbi e tamburi. Ma nel cuore
io li celai; ma nel profondo cuore
furono un giorno i versi militari…

I suoi sentimenti “bellicosi” superstiti alimentano la sua ispirazione poetica. Svolgono, inoltre, una funzione ancora più importante:

oggi sono altra cosa: il bel pensiero,
forse, onde resto in tanto strazio vivo.

Il “bel pensiero”, ossia la capacità della sua mente d’affrontare in modo combattivo la vita, preserva la sua esistenza soggettiva, la rende resistente a “tanto strazio” che, in mancanza di questa risorsa interiore, l’avrebbe travolta.

 

Appunti – pag. 405
Un tiro di cannone ed una fuga
di colombi nell’aria.
                                 Mezzogiorno
annuncia ai cittadini il lieto sparo
che i volanti impaura.
                                   Ad un vicino
tavolo un uomo con cura gelosa
regola al polso l’orologio; a leggere
riprende, grave, il suo giornale. Io l’odio;
l’odia in me il piccolo Berto. E ad un tempo
di non assomigliargli mi fa onta,
d’essere solo e diverso.
                                      I colombi
si sono in pace rimessi; il becchime
cercano nella piazza al sol deserta.

 

Come Leonardo coglieva al volo, sulla strada, immagini che avevano colpito la sua immaginazione e le traduceva rapidamente in un abbozzo di disegno, così sembra fare Saba che, da “appunti” presi su di una scena della vita quotidiana, crea questa poesia. Qui il colpo di cannone di mezzogiorno spaventa i colombi; ne risente anche il Poeta, che non ha mai perso il contatto col “piccolo Berto” che sopravvive in lui: il bambino sensibile, incline alla paura, che fa parte del suo mondo interno. In contrasto, un uomo, suo vicino di tavolo a un bar, non è neppure sfiorato da sensazioni d’allarme: regola il suo orologio sulle 12 e riprende, grave, a leggere il suo giornale. Il Poeta, “condannato” in quanto tale, a non perdere il contatto con la sua vita interiore, odia quest'uomo imperturbabile, completamente immerso nella realtà esterna e nella vita adulta. Ignorando che qui si tratta probabilmente di un essere insensibile e ottuso, si vergogna di non essere come lui. Eppure, non è del tutto ingiustificato questo sentimento di mortificazione per sentirsi “solo e diverso” rispetto alla maggior parte degli adulti. Questi ultimi hanno rimosso efficacemente le tracce di antichi conflitti e carenze, ossia delle inevitabili imperfezioni che, in misura diversa da individuo a individuo, caratterizzano la crescita di ciascuno di noi. Il Poeta, al contrario, non può distrarsi da tali fonti di sofferenza: vuoi per la loro gravità, vuoi per un’innata tendenza all’introspezione, egli è destinato a porle al centro della propria vita. Pur accomunato in questo al paziente psichiatrico, egli riesce a fare, della sua imperfezione interiore, un uso creativo. Come già sostenuto da Thomas Mann, alla base del talento artistico c’è una disgrazia. Come sostenuto da Bela Grünberger, una situazione del tutto simile è quella dello psichiatra-analista.

 

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