CUORE DI TENEBRA
Viaggio al termine della psichiatria
di Gilberto Di Petta

ANEIDOS: IL “CANONE INVERSO” DELLA FENOMENOLOGIA CLINICA

Share this
8 aprile, 2022 - 21:12
di Gilberto Di Petta
Recensione al libro di Giovanni Stanghellini  Divina presenza: la porta mistica, erotica, estetica all’esperienza dell’informe” Quodlibet, Macerata, 2022, pag. 135, euro 14,50. 

 

   

Io sono nata impastata al male 

Maria Teresa 

 

Ci sono pochi libri dopo aver letto i quali non possiamo più essere “gli stessi”. Nell’ambito culturale che più mi appartiene, quello della Psicopatologia Fenomenologica, dovendo limitare la scelta solo a quattro volumi, io ci metterei, nell’ordine: 1) la “Psicopatologia Generale” di Jaspers, del 1913, che mi ha aperto al fatto che gli esseri umani “provano” (Erleben) qualcosa a cui possiamo dare un nome;  2) “Il senso dei sensi” di Straus, del 1935, che mi ha tolto l’idea che la partita si gioca tra la coscienza e le sue immagini del mondo; 3) “Melancolia” di Tellenbach, del 1968, che mi ha fatto ritrovare nell’ Endon il Kosmos; 4) “La perdita dell’evidenza naturale” di Blankenburg, del 1971, che mi ha indicato, lontano dal clamore, la follia nel silenzio. Da oggi, mio malgrado, ed anche a costo di sembrare adulatore (se non altro perché l’Autore è l’unico vivente) ci metterei, a comporre la cinquina, l’ultimo libro di Giovanni Stanghellini, primo di una annunciata trilogia dal titolo “la clinica dell’informe”. E’ questa, mi rendo conto, un’affermazione forte. Ma è pari alla forza di questo libro, che cattura dalle prime alle ultime righe, con un crescendo stilistico dolce, ritmico, quasi magnetico, capace di annullare, nel prevenuto e colto lettore, le stratificate secolari resistenze del “logos” greco e della “raison” illuministica. Dapprima il lettore si sentirà lambire i piedi, e poi scivolare, con le gambe, nel declivio senza appigli della penombra e, finalmente,  immergere, in un’atmosfera subaquea punteggiata di lampi, dove il “tutto” viene, insieme, prima e dopo del “resto”. E il “resto”, come la paura di perdersi, lascia, sulla soglia del un cupio dissolvi, il tempo che trova. E’, questo di Stanghellini, un percorso aspramente in contromano rispetto a cento anni di fenomenologia clinica “intenzionati” all’ossessiva ricerca della “forme” della vita (Grundformen, cioè Forme fondamentali è il titolo della maggiore opera di Binswanger, del 1942). l’Autore, alla stregua di un paziente anancastico da contaminazione che agisce la sua “formazione reattiva”, gira le spalle alla coazione della forma, e si dispone, senza più timore e tremore, di fronte all’informe (aneidos).  Ne “La nascita della tragedia” (1872) Nietzsche riporta l’antica leggenda secondo la quale il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno. Cosa voleva il Re che tutto possedeva dal selvatico satiro? Quando finalmente lo ebbe tra le mani il re Mida gli chiese, a bruciapelo, quale fosse mai la cosa migliore, la più desiderabile  per l’uomo. E il saggio Sileno rispose che la cosa più desiderabile, per l’uomo, era quella per lui più irraggiungibile: cioè non essere mai nato. “A questo punto”, continuò il Satiro “la cosa migliore che resta, per l’uomo, è solo desiderare di morire al più presto”. Traccio questi sconnessi appunti in un mattino di aprile, dopo un incontro a Firenze con Giovanni Stanghellini. Eravamo sul Lungarno, nel punto giusto prima che il fiume spartisse il cuore della città, accarezzati dal libeccio. “Parlo della bellezza/non ci si mette a discutere su un vento di aprile. Quando lo si incontra, ci si sente rianimati” (scriveva Ezra Pound). Ci sentivamo così, rianimati, quando sottraemmo due sedie di plastica al tendone che le aveva tenute asciutte dalla pioggia della notte, e ci sedemmo. Sotto di noi il flusso scorreva, quel fiume eracliteo nel quale siamo e non siamo, nel quale il tempo nasce nell’istante in cui muore. “Della domanda sul perché ci sia l’essere e non il nulla, ciò che mi angoscia non è il nulla, ma l’essere”. Così soggiunse Giovanni. “Del nulla di prima e del nulla di dopo non mi do conto. Ma quest’essere, cos’è?” E, a proposito di questo, mi raccontò di uno stato di angoscia provato, improvvisamente, il giorno prima. “Ieri, di fronte ad un paziente, ho pensato un pensiero. Mi sono accorto, ad un tratto, che quel pensiero non era il mio. Io stavo pensando un pensiero, certo, ma che veniva da chi? Da dove? Per chi? Per dove?” Quante volte noi clinici durante un incontro abbiamo pensato questo? Questo “esso”? questo “es”, questo “it”, che non è l’inconscio psicoanalitico (strutturato come un linguaggio o strutturato come il negativo della coscienza). La vecchia città di Napoli, dissi a Giovanni, ha una copia negativa di se stessa sotto il pelo della strada. Ma è strutturata, la sua parte buia, molto più di quella alla luce. Perché è morta. E nulla è più strutturato della morte. E così pure lo Strutturalismo, nel suo movimento di de-soggettivazione, ha soggettivato questo “esso”, rinvenendovi, di fatto, una struttura. Mentre discutevamo un passero solitario si poggiò sul dorso di una sedia accanto. Giovanni lo vide per primo e lo salutò. Aveva il piumaggio marcato. Se lo scuoteva. Forse aveva freddo, o il vento gli inarcava le piume. Forse aspettava una briciola. Volevo estrarre lo smartphone per fotografarlo. Ma non feci in tempo a fare il gesto, che scomparve con un frullo. Il mio desiderio di catturarlo in un’immagine (in una forma) venne punito con il suo dileguamento. “Qual è, allora, secondo te, il nucleo essenziale di questo libro?”, mi chiese Giovanni, poiché gli avevo detto che non era scontato coglierne l’essenza.  “La cosa essenziale di questo testo è che l’informe, per le scienze oggettive, esatte, di base, non esiste”. Gli stracci di madame Edwarda, la piega di carne informe del Golem, la nebbia colloidale e vischiosa del pianeta Solaris (alcune tra le icastiche figure dell’informe in cui ci si imbatte per le vie di questo testo), se venissero analizzate e scomposte dagli strumenti fisico/chimico/matematici della scienza, rivelerebbero o svelerebbero tutte la loro perfetta struttura molecolare, o la loro ultrastruttura atomica. E’ solo il piano del soggettivo che coglie, grazie alla perdita, ad un certo punto, della discriminazione percettiva, il loro potere di captazione, il loro divenire informe, il loro movimento centrifugo che divora e dissolve le forme con cui viene in contatto, ma, al tempo stesso, le fonda. Dunque, la rottura epistemica di questo testo sta nell’aver decretato, allo stesso tempo, da una parte la pusillanimità del soggettivo, ridotto ad un’escara galleggiante sul maelstrom dell’informe. Dall’altro, però, nell’aver conferito, a questa stessa soggettività, un potere assoluto, ovvero quello di cogliere, anche per un istante, il magma dell’informe, al confine di contatto con la forma, che tale è solo grazie all’informe. “Tu hai capito”. Si è fatta l’ora, lasciamo con uno sguardo nostalgico il fiume sotto di noi (la logica del flusso […] emblematica dell’informe, p.97) , per affrontare una giornata di “formazione”. Giovanni parla per primo, il titolo della sua relazione è “Soglie”. Conclude leggendo un lettera stupenda, di un paziente “anancastico” che con parole traboccanti di desiderio e di angoscia, impressiona il pullulare contaminante della vita tra i vicoli e i bassi napoletani. Napoli, l’irredimibile, l’ultima capitale orientale dislocata in Occidente, “colerosa” per antonomasia, ancora una volta si presta come “metafora viva” (un titolo di Paul Ricoeur) di quel fenomeno che è non tanto l’essere, quanto, piuttosto il divenire mescolante, che balugina, continuamente ma per un istante, tra il nulla e il tutto. Così l’informe si irride della geometria euclidea dell’anancastico che si difende dall’avanzare della morte ritagliando il tempo a pezzetti. Perché è necessario, allora, per chi vuole prendersi cura degli esseri umani questo testo? Perché è imprescindibile?  Dell’informe, certo, non si può dire. E questo fallimento del dire, scrive l’Autore, è l’impresa più riuscita. L’informe non è un concetto e non è concettualizzabile. Non è neanche recuperabile. Ma all’informe si può adire attraverso tre porte, spalancate da un colpo di vento, quella mistica, quella erotica, quella estetica, che per un attimo, per un attimo solo, ti consentono di guardare l’abisso, prima che esso guardi dentro di te. Tutto il resto, il resto che ci concerne, come le nostre psicologie, le nostre filosofie, le nostre non-cose digitali (alla Chul Han), i nostri DSM-5, è un castello di sabbia sulla riva del mare agitato, a tratti, un origami di stuzzicadenti dispersi dal vento. La follia? La perversione? Il Silenzio? L’amore? La guerra? L’epidemia? Sono tutte pliche a rilievo sulla crosta del magma incandescente. Allora, non servono le forme? Domandate a chi naufraga nell’informe, a cosa servono le forme. Domandate a chi è prigioniero, cos’è la libertà, Domandate a chi ha fame, cos’è il pane. Domandate ai folli cos’è la ragione. Se non portiamo la nostra percezione sulla soglia dell’informe, possiamo dimenticarci della forma. Credo che questa sia la dritta straordinaria che viene da questo testo. Proprio come quando attingiamo un bersaglio con un’ottica da puntamento, o fochettiamo un vetrino con un microscopio, o esploriamo un paesaggio con un binocolo. Come si mette a fuoco la visione? Come si misura la vista? E’ semplice, in un solo modo: sfuocandola. La messa a fuoco perfetta non è che il primo fotogramma nitido al confine di contatto con la nebbia. Oltre la forma, un solo click della ghiera, prima e dopo la forma, e c’è di nuovo la nebbia. La pretesa (ossessiva?) della fenomenologia husserliana di cogliere a tutti i costi l’eidos, qui si reincrocia con l’espansione dell’inconoscibile noumenicità kantiana. Solo dall’indistinzione di soggetto e di oggetto, di io e di mondo, di io e di tu si stagliano dialetticamente, nello spazio di un mattino, le polarità soggettive. E’ solo, dunque, dissolvendola nell’informe che si realizza, paradossalmente, la più compiuta delle fenomenologie. Quella delle piume del passero arruffate, teneramente, dal vento di aprile, venuto da chissà dove ed andato chissà dove, come le acque dell’Arno che hanno portato vie i nostri (?) pensieri, o le soglie “zero” dei bassi napoletani. E’ certa solo quella soggettività che, toccando il limite dissolvente della vita, risorge, come parte del tutto, fondata, questa volta, non più sui propri apriori, né tantomeno sul nulla, bensì sull’orlo della sua stessa informe dissolvenza, in quanto segno della sua appartenenza al mondo. Qui, su questo mare in tempesta, tragico e spietato, lirico e ludico, estetico, erotico e mistico, si gioca per noi, adesso, l’ultima sfida. Si gioca per noi la vita. Grazie, Giovanni Stanghellini, di averci così lucidamente avvertito. Di aver rotto la nostra illusione di possedere la formula che mondi possa aprirci. Nulla, più di questo tuo libro, ci invita a scrivere, a non smettere di scrivere il nostro nome sull’acqua, come recita perentorio, nel cimitero acattolico di Roma, l’epitaffio che John Keats ha dettato per la sua eternità. 

 

  

> Lascia un commento



Totale visualizzazioni: 1928