Moosbrugger. Ovvero: della imputabilità dei casi di mezzo. Austria, Italia.

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3 giugno, 2023 - 16:17
[Ulrich] sapeva benissimo che cosa pensare di lui, considerando obiettivamente il caso,

e quali misure i potevano tentare con quegli uomini

che non sono adatti né alla prigione né alla libertà, e per i quali anche i manicomi sono insufficienti (Musil, pag. 275)

 

Come sempre in simili casi

le perizie mediche sul suo stato mentale barcollavano sotto la pressione

del soprastante mondo concettuale giuridico (Musil, pag. 78)

 

 

Prefazione

Scrivere di questi argomenti senza l’onere di dover decidere delle leggi e delle loro applicazioni, da una parte, e senza l’onere e la responsabilità dell’organizzazione dei servizi (giudiziari e sanitari), dall’altra, può risultare un esercizio presuntuoso e poco rispettoso di chi se ne occupa in prima linea.

Cessa di esserlo se la volontà è quella di stimolare e diffondere riflessioni su questioni importanti che ci riguardano in prima battuta come cittadini e, poi, come operatori della salute mentale.

Chi scrive, in questo momento ha un incarico transitorio di direzione di un SPDC che è vocato anche a ricoveri di pazienti internati in Rems: la mia esperienza e conoscenza pratica si limitano al lavoro clinico attuale e pregresso in campo clinico e nei Servizi Pubblici di Salute Mentale.

Sulla scia di eventi di cronaca, che ci hanno riguardati come vittime (bersaglio di violenza) ma anche come oggetto di provvedimenti giudiziari (attribuzione di responsabilità per reati compiuti da persone in cura o comunque afferiti ai Servizi), ho letto molte riflessioni, molte più improntate al carattere della reazione emotiva al pensiero ponderato.

Si parla di riforme, revisioni: non è chiaro sulla base di quali condivisioni sui temi e su quali confronti tra esperti; la speranza è che il Tavolo Tecnico della Salute Mentale, da poco formato al Ministero della Salute, si faccia promotore di questo processo.

Il tema su cui mi soffermerò è quello sui limiti della responsabilità individuale rispetto ai reati, il tema della imputabilità.

Gli antefatti della letteratura. Vienna tra fine secolo e fine Impero.

Nella Vienna di fine impero si incrociano destini e ingegni come raramente accaduto e difficilmente accadrà di nuovo, in altri luoghi e in altre epoche. A casa Zuckerkandl, Berta moglie di Emil, luminare della medicina, gestisce il salotto più importante della città dove intellettuali noti, o che lo diventeranno, si confrontano e contagiano le loro idee. Kandel ci ha raccontato come gli sfondi sontuosi dei quadri di Klimt celino le suggestioni dei preparati istologici che Emil proiettava, come diapositive, nei loro incontri.

Ma non si tratta di solo intelletto. La libido aveva le sue muse e Alma Mahler fu amante di molti degli uomini di genio con cui attraversò quegli anni, oltre che moglie dell’amato musicista (sì: era sinceramente interessata a lui e sono toccanti le pagine in cui descrive, nel silenzio della notte, i rumori di una valvola irrigidita del cuore malato del marito e la preoccupazione per la sua salute): Gustav, dal tratto libertino della moglie (considerata la donna di Vienna più bella di quei tempi), ne derivò una nevrosi attuale che lo costrinse a rivolgersi nel 1910 a “uno bravo”, un certo Freud, che di queste cose se ne occupava e che, evidentemente, per teorizzare sulla matrice libidica di ogni moto dell’animo umano non dovette fare grandi sforzi di fantasia, ma prendere appunti dalla vita che vedeva e che veniva raccontata nel suo studio. Non fu però la gelosia a uccidere Gustav, ma il cuore malato, appunto.

Ho tratteggiato - a modo mio - il contesto perché è da qui che prende le mosse in “una bella giornata d’agosto del 1913” il romanzo “L’uomo senza qualità.”

Vorrei proporre alcune riflessioni condividendo, in prima battuta, quelle che Musil presentò con il caso Moosbrugger, descritto ne “L’uomo senza qualità”.

Ora il romanzo è noto così come una vicenda, che sviluppa un tema, in esso contenuto: la storia dell’omicida Moosbrugger. Consapevole di non svelare scoperta alcuna, visto che il romanzo è conosciuto come un capolavoro assoluto del novecento (e dunque il mio è uno stimolo a rileggerlo o, per chi non lo avesse fatto, a leggerlo), credo non sia inutile riproporne alcune parti per le considerazioni in esse contenute in merito al rapporto psichiatria e giurisprudenza, malattia mentale e responsabilità dei propri atti: considerazione che hanno uno spessore che sentirei necessario ascoltare anche negli interventi di psichiatri, giornalisti, politici e di chiunque altro sembra essersi, ad oggi, attribuita la capacità di trovare la soluzione per l’interpretazione della aggressività e della violenza e per le soluzioni “giuridiche” da adottare. Il contesto, il nostro, è quello dei fatti di cronaca che vedono in qualità di vittime sia operatori della salute mentale che cittadini (spesso familiari) e come carnefici persone che non riusciamo pienamente a collocare in una categoria: malati o no? Da condannare o curare? Chi se ne deve occupare?

Il caso letterario Moosbrugger è proprio un caso che mette in difficoltà, un caso di mezzo. “Moosbrugger era uno di quei casi-limite che fuori della giurisprudenza e della medicina legale sono noti anche al profano come casi di diminuita capacità di intendere e di volere (pag. 272)”.

Il protagonista è un uomo dall’aspetto bonario, un falegname, propenso alla violenza verso le donne e che, per delitti di questa natura, in più occasioni è stato internato in manicomio non essendogli stata riconosciuta la piena facoltà delle proprie azioni. Ma per l’ultimo omicidio, quello di una prostituta, particolarmente efferato sia per la ferocia con cui la ha uccisa con un coltello, ma anche per le mutilazioni effettuate sul cadavere, gli è stata attribuita la responsabilità e con la pena della condanna a morte (per una descrizione completa cap. 18. Moosbrugger, pag. 73 e segg.).

Vediamo come Musil ci propone, anche attraverso lo sguardo curioso e indagatore del protagonista del romanzo (Ulrich), il “dilemma Moosbrugger”. Tre capitoli centrali, credo, possano essere sufficienti per una analisi compiuta.

Moosbrugger medita (ovvero il mostro visto da dentro). Moosbrugger ha accettato la sua condanna a morte perché non sente attinente alla sua persona essere definito malato di mente, sbeffeggia chi ha il compito di valutarlo perché convinto di poter orientare, bluffando, il giudizio. Dal suo punto di vista, conquistare il carcere è anche la morte è dignitoso (si dichiara soddisfatto alla lettura della perizia e della sentenza che lo condanna) ma, allo stesso tempo, dice al giudice: “sono soddisfatto, anche se debbo confessare che avete condannato un pazzo!”.

Il paradosso, che Musil finemente tratteggia, è che il mondo interno del mostro non collima con i sistemi di riferimento esterni atti a giudicarlo (come dirà più avanti: gli psichiatri avrebbero gli strumenti, ma rinunciano ad usarli): Moosbrugger non “negava i suoi misfatti, voleva che fossero interpretati come incidenti sfortunati di una grande concezione della vita”. Che era sua e soltanto sua. Di fatto, gli era mancata l’educazione o l’occasione di diventare un “angelo sterminatore, un incendiario, un grande anarchico”.

Di poter dare una struttura a quella concezione.

Come si fa a spiegare che le donne, tutte, complottavano contro di lui, si irridevano dei suoi ragionamenti e si sottraevano al suo desiderio di incontrarle, poi divenuto frustrante? Se ne teneva alla larga per non “farsi provocare”, ma non era sempre possibile. E poi, dietro queste donne sbeffeggianti, c’è il mondo dei loro uomini che vogliono, da sempre, prendersi gioco di lui.

Anche l’omicidio per cui è condannato, nei fatti, segue il copione: un tentativo insistente da parte di una prostituta di adescarlo, il suo maldestro allontanarsi; escogita anche lo stratagemma di fingere di addormentarsi in un cantuccio buio, “con uno sforzo immane sulla sua morale” che lo avrebbe già spinto ad aggredire quella donna apparentemente umile, ma ora “sfrontata e sicura”. Ma è inutile.

Nel processo, Moosbrugger sembra voler far diventare il processo politico e “dava l’impressione di non lottare per sé ma per quella sua costruzione giuridica”, la privatissima concezione della vita di cui abbiamo accennato. Questo atteggiamento, che il giudice interpreta come tentativo di discolparsi, dà seguito alla tipica pressione inquisitoria sui fatti atta a dimostrare la intenzionalità e le responsabilità (che l’omicida non nega!): “perché si è lavato le mani sporche?”, “perché poi è andato a divertirsi?”. Domande che nelle intenzioni di chi giudica vogliono correlare fatti e dare una coerenza interna alla biografia del mostro (anche attingendo da episodi della vita precedente: vagabondaggio, atti violenti e bizzarri): Moosbrugger però, e qui a sua discolpa, lamenta la sua insufficiente istruzione, e non ha la capacità di corrispondere a questa lettura, di concepire cioè come correlati nel significato i fatti anomali che gli vengono attribuiti; ciascun fatto, per lui, è determinato da una causa contingente fuori dalla sua persona, messa – la causa – lì nel mondo. Così come, di contro, l’incontro di tante donne, apparentemente casuale, occorsa per la strada in una giornata di vagabondaggio, assumeva il significato di una processione che, proprio per questo, qualche significato, a lui inerente, doveva pur avere!

Moosbrugger, nei tanti processi, ha imparato a mutuare da giudici e periti un linguaggio adatto a descriversi in modo aulico, anche sorprendente per chi lo ascolta e che non sa come, invece, nella vita reale la parola non gli è facile e i pensieri, spesso, gli arrivano belli e fatti dall’esterno: eppure piccole inezie eccitanti rendevano immediatamente fluido il suo pensiero senza parole e a lui pienamente comprensibile la sua concezione del mondo.

Escursioni nel regno logico-formale (ovvero: il cuore del ragionamento). Qui Musil, partendo dalla condizione “intermedia” di Moosbrugger – non essere né de tutto malato né del tutto sano – e riconducendo questa condizione alla gradualità della natura in contrasto alla intransigenza della giurisprudenza (“o l’uomo è capace di agire illegalmente o non lo è”), svela il fondamento logico-morale della giurisprudenza e dell’argomentare dei giudici: poiché l’uomo si distingue dalla bestia perché, in virtù delle sue capacità morali e intellettuali, è capace di agire contro la legge (scegliere il male, diremmo), ne consegue che la punibilità è la qualità che ne fa un uomo morale. Si possono escludere da questa condizione, seguo l’autore che interpreta la giurispudenza, soltanto quegli “infelicissimi che tirano fuori la lingua quando si chiede loro quanto fa sette più sette”. Per il resto si tratta, anche per i malati di mente, di mantenerli pienamente nel regno morale facendo leva sul loro possibile (quindi doveroso) impegno di frenarsi e di inibirsi dal compiere delitti. Gli psichiatri, che l’autore ritiene unici competenti ad opporsi a un simile approccio della giurisprudenza, sono però “timorosi”. Riporto per intero il brano:

Essi (gli psichiatri legali, ndr) dichiarano veramente malate solo le persone che non sanno guarire, il che è una modesta esagerazione perché non sanno guarire neanche le altre. Essi fanno distinzione tra malattie mentali inguaribili, altre che con l’aiuto di Dio dopo qualche tempo migliorano da sé, e altre ancora che il medico non può guarire ma che il paziente potrebbe evitare, posto che per una sorte provvidenziale agissero su di lui al momento giusto opportuni influssi e considerazioni”.

Ancora più penetrante la seconda parte delle considerazioni, che aprono alla riflessione sullo sguardo diplopico dello psichiatra quando teorizza e cura per fini clinici e quando, invece, si presta al forense:

Il secondo e il terzo gruppo comprende quei malati che di qualità inferiore che l’angelo della medicina tratta come infermi se si presentano a lui come clienti privati, ma che abbandona pavidamente all’angelo della giustizia se gli capitano nella pratica giudiziaria”.

Il brano è meritorio di una lettura completa, ne ho riportato l’essenziale e ne trascrivo la chiosa, famosa, che fa la sintesi sulle diverse – ma ahinoi non sempre diversificate – istanze della giurisprudenza e della medicina:

È un fenomeno noto che l’angelo della medicina, dopo aver ascoltato per un po’ le dissertazioni dei giuristi, dimentichi molto spesso la propria missione. Egli ripiega allora le ali fruscianti, e si comporta nelle aule dei tribunali come un angelo di complemento della giurisprudenza”.

L’utopia della vita esatta (ovvero: la semplificazione del pensiero come soluzione). Continua Musil riconoscendo che, di contro alla complessità di situazioni come questa la cui analisi rimane “incompiuta” in fondo – nel sentire comune, anche di chi si dibatteva nell’intimo per trovare una soluzione interpretativa che fosse accettabile - la condanna (a morte, in questo caso) era la soluzione migliore perché la cosa “più chiara, più sicura e più a buon mercato”. È l’idea che si può rinunciare a visioni articolate e complesse (che sono la vera sfida della conoscenza e dell’agire umano) riducendo la ricerca sulle domande più difficili a risposte espresse su snelli trattatelli compiuti, incentrati su questioni parziali e dunque facilmente circoscrivibili (lo definisce, ironicamente, “l’ideale dei tre trattati”): è l’ideale della vita esatta che trova compimento in domande e risposte su orizzonti semplici. Una forma di utopia (nel senso che abbiamo descritto) che Musil trova realizzata anche nel caso Moosbrugger laddove “l’esattezza, ad esempio, con cui lo spirito bizzarro di Moosbrugger veniva immesso in un sistema di concetti giuridici bimillenari somigliava agli sforzi pedanteschi di un pazzo che vuole infilzare con uno spillo un uccello in libero volo nell’aria, ma non si curava minimamente dei fatti bensì del concetto fantastico del giure (pag. 278)”. Come si presta l’angelo della medicina a questa esattezza? Nel caso in questione, la precisione degli psichiatri sul grande quesito se si potesse condannare o no, si risolveva nell’azzerare il rischio di qualsiasi asserzione problematica, accontentandosi di affermare che “il suo quadro clinico non coincideva con nessun caso clinico osservato sinora, e rimetteva ogni decisione nelle mani dei giuristi”.

Conclude Musil che in realtà in merito ai quesiti complessi convivono due conformazioni mentali che raramente si contrastano ma che normalmente giacciono l’una a fianco all’altra: quella dell’utopia dell’esattezza, che risolve il piccolo ignorando le questioni di fondo, e quella che “guarda sempre all’insieme e deriva le sue conoscenze dalle verità cosiddette grandi ed eterne”. La prima serve per risolvere, la seconda per avere una dignità. Peccato che confliggano. Ma la risoluzione, furba e dunque misera, e di tenerle vicine, considerarle entrambe “utili e opportune, ciascuna al posto suo”, adattare l’una e l’altra su campi di applicazione ora vicini (il caso specifico da risolvere senza troppo perdere tempo) e ora lontani (le grandi questioni astratte: la libertà, la giustizia, il libero arbitrio).

 

Vienna 1913, Italia 2023

La pressione oggettiva che chi si occupa di Salute Mentale sta subendo in questo periodo si esplicita su due questioni principali: 1. la cura di persone con tratti di aggressività, sia libere che vincolate da provvedimenti che conseguono, a reato valutato, la non imputabilità e 2. la difesa della salute e della integrità fisica (e psichica) degli operatori dalle aggressioni messe in atto dagli stessi pazienti che dovrebbero beneficiare delle loro cure.

Ci concentriamo qui sul primo punto, dove maggiore è la spinta riformatrice e la diffusione del dibattito (tutti hanno competenza e forniscono ricette. Mi accodo).

L’impianto giuridico del Codice Rocco è noto: pur nella arcaicità terminologica del concetto ombrello su cui si impernia il ragionamento sull’attribuzione di responsabilità (l”infermità” di mente), ha fin qui fornito uno schema concettuale di riferimento: nei casi dubbi sulla imputabilità naturale, chiede di valutare la piena disponibilità del reo – al momento in cui ha compiuto il reato - di due facoltà (capacità di intendere e volere) per poter procedere alla imputabilità o, viceversa, – in assenza completa o parziale anche soltanto di una – di transitare, data la non imputabilità, al giudizio di pericolosità sociale (rischio di reiterare comportamenti violenti) da cui ne conseguono o la piena libertà (assenza di pericolosità) o l’obbligo alle cure che, dalla legge 81 in poi, si articola su vari gradi dall’affidamento ai Servizi Psichiatrici territoriali al massimo grado di intervento con l’internamento in Rems.

Le questioni su cui più acceso il dibattito sono due:

1. Le sentenze con cui si esclude dalla imputabilità persone che compiono reati su condizionamento da sintomatologia considerata di minore gravità - all’interno di quadri di Disturbo di personalità – (che per caratteristiche di base sono comunque eleggibili a curabilità), sentenze considerate ideologiche e forzate, sul piano delle scelte peritali e di giudizio, per la mancata attribuzione di responsabilità (si ritiene, cioè, che il condizionamento del Disturbo di base – anche in caso di esacerbazione sintomatica in relazione agli eventi in giudizio - non comprometta la capacità di rispondere del reato);

2. L’esclusione della imputabilità, di alcuni individui peritati come non imputabili/pericolosi in base a una diagnosi i cui sintomi vengono correlati al reato – soprattutto gravi disturbi antisociali, psicopatici - ma di cui è scientificamente accertata la non curabilità, con gli strumenti attuali a disposizione della psichiatria, oppure l’inclusione nella mission cura (conseguente alla attribuzione della semimputabilità o la non imputabilità) di individui con caratteristiche di delinquenza comune (reati, anche gravi, non ascrivibili a profili di disturbo di personalità). Per alcuni, il Disturbo di Personalità Antisociale e la Psicopatia non vanno considerati Disturbi Psichiatrici, ma profili personologici che corrispondono al concetto di delinquente.

Le due questioni sono in parte derivate dell’applicazione in senso “allargato” della normativa conseguente alla cosiddetta sentenza Raso, in parte sono attribuiti a incapacità peritale o, in certi casi, a strumentale uso, a vantaggio del reo, della normativa sulla non imputabilità.

Una terza questione urgente - l’incongruità tra il numero di richieste di trattamenti dei soggetti non imputabili/pericolosi e le risorse dei DSM, includendo i posti in Rems: in questo caso il problema si complica con la non eseguibilità della pena e l’attesa delle cure, del paziente pericoloso, o a casa (!), o in SPDC (!) o in carcere (!) - e che è al cuore del recente pronunciamento della Corte Costituzionale ed evidentemente correlata alle precedenti sul piano delle “risorse di cura”, resterà fuori dalla mia analisi perché non centrale rispetto al tema che sto trattando.

Quali le soluzioni possibili prospettate.

Tralasciamo di ripercorrere, già ampiamente fatto da altri, lo sviluppo della giurisprudenza dopo la sentenza Raso e l’iter ideale ma anche ideologico della legge 81, con le numerose e non risolte aporie logiche e operative di cui, quella appena segnalata sul rapporto tra richieste di internamento e posti letto disponibili, è soltanto la più eclatante e importante (il tema è sempre il rapporto tra il mondo giuridico – che emana la sentenza e la sua disposizione esecutiva – e quello sanitario, delegato alla cura e alle verifiche sempre sotto l’egida della autorità giudiziaria).

Il dibattito e le proposte di risoluzioni sono numerose.

Mi permetto di tralasciare, perché da considerata non seria, e dunque non percorribile, la proposta di annullamento dei dispositivi della non Imputabilità proposta da alcune frange del mondo della Salute Mentale e di cui, in parte, ho già scritto qui:

http://www.psychiatryonline.it/node/9205

Sintesi delle soluzioni (non necessariamente alternative) prospettate per le questioni:

A valle: accordi e aggiustamenti

  • mantenimento della attuale legislazione con richiesta di maggior rigore in sede peritale nel dichiarare la non imputabilità, con l’impegno ad applicarla ai casi in cui la sintomatologia ha inficiato con severità la capacità di intendere o volere nel compimento del reato. Non prevede riforme, ma un clima culturale di condivisione del problema tra giudici, periti, operatori dei DSM in una logica di protocolli – anche istituzionali, come i documenti della Conferenza Stato – Regioni - tra gentiluomini consapevoli e informati.

  • Rems di diversa tipologia, con diversa gradazione tra funzione di cura e funzione di custodia, sia come definizione di mission che di tipologia di personale impiegato.

A monte: riforma legislative

  • Annullamento degli articoli 88 e 89 che definiscono le caratteristiche per la infermità e la seminfermità; la strategia è di lasciare il decisore con il solo articolo che definisce la non imputabile per chi infermo di mente (art. 85), nella ipotesi che – venendo meno la esplicitazione delle due articolazioni di vizio totale e vizio parziale di mente - si restringa il perimetro di applicazione della non imputabilità ai soli casi gravi; correlata implementazione di trattamenti di cura per gli imputabili con problemi psichici, dove indicati, in una cornice penale (qualsiasi essa sia: carcere, arresti domiciliari ecc.).

  • Sostituzione della infermità di mente nell’art. 88 con concetti più clinici (ad es. con psicosi, come in una recente proposta di legge di un deputato)

  • Considerare sempre i reati compiuti da pazienti con Disturbi di personalità di tipo antisociale come meritori di trattamenti ancillari ma in contesto carcerario, in sezioni speciali di restrizione della libertà.

Analisi e alcune modeste proposte.

La premessa al mio ragionamento è questa: ogni riflessione e conseguente riforma che riguarda temi come: responsabilità, delitto, libero arbitrio, pena, cura, recupero del cittadino, libertà, sicurezza dovrebbero conseguire ad attente riflessioni e una piena presa di consapevolezza di quello che sappiamo su questi temi (conoscenze sociologiche, psicologiche, neuroscientifiche) e come si possono articolare con il sistema valoriale della civiltà che li fa propri e che li incasella in azioni normative, che siano legislative o applicative non fa la differenza.

Per rimanere al nostro ambito, uno sforzo culturale di questa portata (immaginerei almeno un anno di convegni dedicati e un gruppo di lavoro capace di rendere una sintesi) non è stato fatto per la legge 180, non è stato fatto per la chiusura degli OPG (legge 81): si è preferito procedere con buone idee, con semplificazioni ideologiche (la cui reale portata si rende sempre manifesta a posteriori) per poi inseguire infiniti processi di correzione dei problemi, sempre e tutti considerati conseguenti a mancate applicazioni (il famigerato tradimento della 180!) e MAI a conseguenti a possibili premesse errate.

Il rischio è che accadrà così ancora, anche per questa fase di pseudoriforma sui temi su cui sto ragionando.

Allora la proposta è modesta, ma non troppo (quanto meno immodesta la mia posizione!).

  1. Salvaguardare l’idea, di alto valore giuridico e operativo, che un cittadino che compie un gesto riconosciuto come reato in condizioni mentali alterate debba essere tutelato, valorizzando la sua minore o nulla responsabilità rispetto al gesto e alle conseguenti attribuzioni di pena; curare i malati sempre e nei contesti di cura, anche se il sintomo ha valenza di reato.

  2. Salvaguardare l’impianto del Codice Rocco, prevedendo il mantenimento di concetti ombrello (infermità e incapacità di intendere e volere) che “sanno tenere il tempo” se interpretati alla luce di conoscenze e approcci attuali; le proposte che creano “buchi” nell’impostazione di legge (come quelle dell’abolizione degli artt. 88 e 89) sono forieri di ulteriori approcci interpretativi in fase di produzione di sentenze, non governabili e, a mio avviso, non tutelanti il cittadino;

  3. Di conseguenza, rifiutare di vincolare la non imputabilità a ambiti clinico-diagnostici decisi per legge (come la non imputabilità solo per psicosi!), ma imporre un tavolo di gentlemen agreement tra professionisti per trovare una centratura condivisa sulle modalità di ragionare su questi temi, utilizzando casi esemplari reali o ipotetici;

  4. Accettare la sfida aperta dalla sentenza Raso di poter far accedere alla non imputabilità anche persone che hanno compiuto reati per aspetti centrali ma non eclatanti del loro disfunzionamento psichico e…

  5. in linea con quanto sopra, saper valorizzare e informare con contenuti moderni il significato di capacità di intendere e volere, riconoscendo come la volizione sottende, nel suo esercitarsi, aspetti emotivi e affettivi e non soltanto la facoltà di perseguire o inibire comportamenti; gli aspetti emotivi e affettivi non sono necessariamente sempre consapevoli e controllabili, anche in condizioni cliniche non apparentemente gravi; ne consegue la necessità…

  6. di trovare una via legislativa, questa sì, per dirimere in caso di non imputabilità e pericolosità sociale chi può beneficiare – stanti le attuali conoscenze scientifiche – di un percorso di cura e chi, pur riconosciuto malato, è al momento incurabile (ad es. grave antisocialità, psicopatia ecc.);

  7. Di conseguenza prevedere per “pericolosi attualmente non curabili” nuovi dispositivi/luoghi di cura: sezioni speciali del carcere o Rems ad alto profilo custodialistico con medicina in funzione ancillare?

  8. Prediligere, in sede di perizia, la decisione netta tra imputabilità e non imputabilità (la semimputabilità ha aporie applicative che andrebbero riformate, in particolare la prevista sequenza tra fase della pena e fase della cura che non hanno senso alcuno), avendo certezza di una possibilità di modulazione della risposta nella fase di definizione della pericolosità e del suo trattamento.

  9. In ambito penale, predisporre un albo di periti esclusivamente psichiatri e con comprovata esperienza clinica con pazienti complessi.

Considerazioni finali e consigli non richiesti

Se non si è in grado di apportare modifiche migliorative dell’impianto legislativo, nella direzione che ho tentato di tracciare, astenersi e difendere l’esistente normativa adoperandosi a ottimizzarne, a valle, l’applicazione caso per caso, sentenza per sentenza.

Evitare qualsiasi forma di modifica apodittica che elida la possibilità di graduare il giudizio di imputabilità (quindi non eliminare la semimputabilità), a meno che non si riesca a meglio articolare e graduare le valutazioni successive alla non imputabilità, poter graduare cioè la pericolosità e gli interventi che ne conseguono: questo approccio di modulazione degli interventi relativi alla pericolosità dovrebbe sottendere, in una visione moderna dell’uomo in cui le conoscenze della psichiatria, della psicologia e delle neuroscienze influenzano e non si piegano alla giurisprudenza, la possibilità di far afferire alla non imputabilità anche reati compiuti in condizioni di accertata difficile gestione della capacità di volere per discontrollo emotivo, come sotteso da molti disturbi di personalità.

Per fornire un esempio, e qui torniamo all’Angelo della Medicina da un altro punto di vista, sostenere teoricamente e clinicamente che un paziente con un Disturbo Borderline di personalità ha come problema centrale l’espressione sovradimensionata e il relativo controllo della rabbia e poi non tenerne conto invocando a priori la piena imputabilità in caso di un reato compiuto in relazione a questo aspetto, è discutibile: vuol dire piegare la medicina alla giurisprudenza.

Allo stesso tempo, far afferire un grave psicopatico omicida al normale iter di giudizio previsto per questi casi (omicidio), rischia di far perdere di vista la specificità della motivazione al reato e la conseguente possibile permanenza di aspetti di pericolosità sociale che vanno oltre i tempi della pena: il famoso caso dell’omicida del Circeo, tra i tanti, insegna che alcune persone non “imparano” dalla pena, ma utilizzano le stesse caratteristiche che li hanno condotti al reato a manipolare il contesto (fare i bravi carcerati, magari vessando i più deboli) per ricevere i benefici di legge, conservando la stessa potenzialità omicida negli anni. Ricordiamo che per ogni persona di questo tipo che, a norma di legge, beneficia di permessi e commette nuovi reati negli “spazi di libertà” conquistati a regola dei codice penale e penitenziario, si compromette la credibilità dell’amministrazione giudiziaria (soprattutto quello della Magistratura di Sorveglianza) e si rischia l’inasprimento per tutti delle pene, di contro all’imperativo del recupero del cittadino che sta a fondamento della nostra Costituzione e del nostro Codice Penale. Anche qui, e in senso contrario a quello dell’esempio precedente, l’Angelo della Medicina è chiamato in causa a dire la sua sia in sede legislativa che applicativa, non vi sembra? Non sarebbe più idoneo per persone con profili così marcatamente disturbati – anche se non trattabili – valorizzarne la patologia, fosse anche la non imputabilità e, in seconda battuta, indicarne una pericolosità meritoria di protezione della popolazione in contesti speciali, di custodia, cura (per quanto possibile) e osservazione del decorso? Questo approccio ha uno sfondo ottimistico, l’idea che in futuro sapremo far meglio – in senso terapeutico – quello che oggi non sappiamo fare, anche per persone autori di reato in “osservazione”. In quest’area di transizione verso il futuro di persone non imputabili ma pericolose e al momento non trattabili, farei afferire, ad esempio, tutti i casi di reato con forte connotazione sadico perversa agita, come i gravi pedofili (che, ricordiamo, sono spesso ex bambini abusati): persone che, in una logica ottocentesca di applicazione dei concetti di capacità di intendere e volere, risultano quasi sempre imputabili ma che, a uno sguardo attento e informato, sono chiaramente deformati, nel loro agire, dalla loro patologia. Lo schemino, tanto rassicurante che tutti possono scegliere tra il bene e il male e, se scelgono il male, devono essere chiamati a risponderne con la speranza di un autentico pentimento (sic!), come un qualsiasi Innominabile, vanno bene per la catechesi ma non per comprendere l’Uomo nella sua complessità e per legiferare con piena comprensione dei fenomeni.

Natura non facit saltus, ama le gradazioni, e anche in scala più grande ama tenere il mondo in uno stato intermedio tra la sanità e l’idiozia (Musil, pag. 272)”: riflettevo, rimanendo metaforicamente all’idiozia (ma Musil sta parlando di psiche in senso globale), quanto questo passaggio rifletta la normale concezione della disabilità intellettiva per come la concettualizziamo oggi con i moderni Manuali Diagnostici (DSM 5 TR), non più graduata su criteri soglia numerici (il quoziente intellettivo), ma sull’articolarsi di un ragionamento che tiene conto di misurazioni psicometriche e cliniche da analizzare in tre ambiti di funzionamento (concettuale, sociale, pratico) per arrivare, solo alla fine, a un giudizio di gravità esprimibile su quattro gradi.

Dunque, a meno che non si decida per legge che gli esseri umani siano estromessi dalle regole della natura e che, dunque, le loro azioni siano incasellabili come derivabili da determinanti di tipo tutto o nulla, in ossequio ai bisogni delle logiche giuridiche, cerchiamo di adattare la legge agli esseri umani e non viceversa.

 

Chiosa

Mi è chiaro che mantenere vivo e attuale il valore della non imputabilità per patologia mentale richiama, a noi operatori, il parallelo mantenimento di un grado esplicito ed evidente di responsabilità per le persone conosciute o con cui veniamo a contatto “in atmosfera” di violenza e aggressività; la responsabilità non deve essere intesa immediatamente come penale, anzi credo sia necessaria una nostra forte pressione culturale per far capire che siamo interessati a occuparci di questioni difficili, ma non in grado di prevenire tutto (molte cose, pur prevedibili, non sono sempre prevenibili, come ha saggiamente esplicitato una sentenza che liberava alcuni colleghi dalla responsabilità dell’evento suicidario di un paziente in cura presso una comunità, con in anamnesi reiterati e gravi gesti di questa natura).

La responsabilità di cui parlo è in primo luogo culturale come fortemente inerente il nostro lavoro di cura, che è altro dal controllo sociale ma è, nei limiti del ragionevole e del possibile, anche controllo - cioè cura -dei comportamenti aggressivi e violenti derivati da patologia.

 

 

Bibliografia minima

R. Musil, L’uomo senza qualità, Einaudi tascabili, vol. 1, 1996.

Berta Zuckerkandl, La mia Austria. Ricordi, Archinto, 2015

E. R. Kandel, L'età dell'inconscio. Arte, mente e cervello dalla grande Vienna ai nostri giorni, Cortina, 2016

Il cuore di Mahler, G. Bronzetti, 01/06/2020 su Il foglio, https://www.ilfoglio.it/musica/2020/06/01/news/il-cuore-di-mahler-505880/

 

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