Skipper

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20 gennaio, 2013 - 18:54

di Simona Masnata, Rossella Valdré

 

 


Restai insaziata tutti i miei anni.

Non conobbi l'abbondanza del pane
Era diversa la briciola
ceh avevo divisa con gli uccelli
nella sala da pranzo della natura.
Il troppo mi urta – è così insolito.
Mi sentivo a disagio, spaesata –
come una bacca di frutta montana
tarpiantata sulla strada.
E non avevo fame.Allora capii
ceh la fame è un istinto
di chi guarda le vetrine dal di fuori.
L'entrare, la disperde.


(Emily Dickinson)

 

Riassunto

Le Autrici descrivono un caso clinico particolare: quello di un paziente "disabile", G.B., vissuto pressoché tutta la vita nell'ex Ospedale Psichiatrico di Quarto (GE) e nell'Aprile '98 dismesso dall'O.P. e trasferito presso la Comunità Terapeutica "Skipper", come la normativa di legge ha decretato.

La struttura in cui si è svolta l'osservazione ospita solo pazienti provenineti dagli ex OO.PP. Il caso di G.B. è apparso particolarmente emblematico, oltre che emotivamente coinvolgente, perché si tratta di un paziente gravemente handicappato (sordomuto con psicosi d'innesto e comportamenti compulsivi), a contatto con un ambiente comunitario ricco di stimoli e occasioni di libertà. GliAutori si interrogano circa il significato del contenimento e "dei" contenimenti possibili, sul significato della libertà e sul ruolo dei nostri pregiudizi con casi di questo tipo.

SUMMARY

The Authors describe a singular clinical case: the one of an handicappated patient,G.B., who lived almost all his life in the Psychiatric Hospital of Quarto (GE), discharged in April '98 and transfered to the Therapeutic Community "Skipper", as required by law. The C.T.where this observation took place has been created for these specific patients.The case of G.B. appeared to us particularly emblematic, and also emotionally involving, because he is a seriously handicappated patient (deaf-mute with connected psycosis and compulsive disorder), who always lived in a total institution (the Psychiatric Hospital), suddenly put into contact with a communitary environment full of goads and opportunities of freedom.The Aa wonder about the meaning of holding and of possible "holdings", about the meaning of freedom and the rule of our prejudices with these kind of clinical cases.

 

 

15 Aprile '98: ingresso di G.B.presso la Comunità "Skipper"

"Il paziente è ricoverato a Quarto dal 1975 per Oligofrenia.In precedenza, dal '54 al '75, era stato ricoverato presso il PresidioSocio Sanitario di Cogoleto.Dall'anamnesi risulta che il nonno materno morì suicida.La madre era leutica.Ha una sorella seguita dal S.S.M.

La deambulazione è avvenuta in epoca normale.Il linguaggio è assente.I primi disturbi del comportamento sono insorti a 12 anni, consistevano in pulsività, clamorosità, tendenza a bere smodatamente, sino a 20 litri di acqua al giorno.Il paziente è sempre irrequieto, trascorre le giornate girando per il reparto alla ricerca di lenzuola che poi accumula sopra il proprio letto.Spesso disturba altri ricoverati cercando di sottrarre loro gli indumenti.Si alimenta in modo disordinato, eccessivo, cercando di prendere tutto ciò che gli altri pazienti lasciano in giro…".

Questa è la presentazione del paziente pervenutaci dall'Ospedale Psichiatrico di provenienza al momento dell'inserimento in Comunità. Il medico che registra l'ingresso descrive:

"Il paziente non parla e non sente, appare spaventato e gira per l'ambiente in modo afinalistico.Gli infermieri che lo accompagnano riferiscono che non è aggressivo; se accompagnato in ogni attività è parzialmente autonomo".

"…Sembra aver risentito particolarmente del trasferimento".

Occorrono alcune precisazioni.Il paziente è diagnosticato come "disabile", cioè fa parte di quella categoria di ospiti presenti in Comunità che erano entrati in Ospedale Psichiatrico in quanto portatori di gravi patologie organiche cerebrali che ne hanno giustificato l'etichetta di disabilità.La vecchia legge sull'assistenza manicomiale del 1904 prevedeva, tra i requisiti per l'internamento in Ospedale Psichiatrico, anche lo stato di abbandono o la mancanza di altri luoghi di custodia; situazione, questa, non rara tra i bambini che nascevano con disturbi cerebrali in contesti socio-sanitari non in grado di accudirli.Questa premessa ci pare necessaria per immaginare il nostro G.B. entrato a 12 anni in Ospedale Psichiatrico, e mai più uscito.

Oggi, per rispondere ad un urgente decreto di legge che impone il superamento definitivo degli ex Ospedali Psichiatrici (doveroso, benché forse tardivo), G.B. e altri pazienti simili a lui vengono da un giorno all'altro "dismessi", come è termine d'uso, e distribuiti in strutture residenziali presenti sul territorio che hanno le caratteristiche idonee ad accoglierli.

La Comunità terapeutica "Skipper" di Masone, sulle cui caratteristiche non ci soffermiamo perché non è questa la sede e vorremmo solo dare una fotografia del nostro lavoro attraverso il caso emblematico di G.B., è una di queste strutture. Ci limitiamo a dire che ospita 40 pazienti esclusivamente provenienti dai due ex Ospedali Psichiatrici di Quarto e Cogoleto, che è stata aperta alla fine di Marzo ‘98, che gli ospiti sono per metà disabili e per metà psichiatrici e che il gruppo di lavoro si definisce e si riconosce nella cultura della Comunità Terapeutica. Il gruppo di lavoro, in altri termini, non aveva alcuna esperienza di manicomio né di cronicità in senso lato, ed ha accolto questi pazienti come se fossero "nuovi", come dei primi ingressi, con un'attitudine interna che mescolava curiosità, timore, paura di non farcela, vissuti di abbandono e frustrazione per chi aveva lasciato strutture con pazienti "giovani e interessanti" e veniva ora a fare una sorta di "passo indietro" dovendosi occupare di persone perloppiù anziane, massicciamente deteriorate, insomma "brutte e sporche".

In Comunità

Appare subito evidente la nostra difficoltà a comunicare con G.B. e a comprendere le sue esigenze, non sappiamo come accoglierlo e come rassicurarlo, percepiamo - ad un qualche livello dentro di noi - che l'adattamento ad una nuova realtà sia forse per lui ancora più problematico di quanto non sia per gli altri ospiti che, anche se non riescono a verbalizzarlo, ci sembra esprimano in qualche modo forme di disagio che ci permettono di raggiungerli emotivamente e di tentare una comprensione.

Cno G.B. questo non sembra possibile. Appare totalmente chiuso in un suo mondo senza suoni, senza parole; solo gli occhi, azzurri e vivi, scrutano inquieti l'ambiente. Nella sua camera – si è scelta per lui una camera singola resta tutto il giorno accovacciato per terra, disteso su un fianco, protetto e ricoperto da una montagna di biancheria e di lenzuola che ha raccolto nelle altre camere, come un animale braccato nella tana.

La nostra unica risorsa, al momento, è l'osservazione: costante e condivisa.

Per un lungo periodo le informazioni scritte su G.B. sui quaderni delle consegne hanno avuto un contenuto costante: "molto agitato, accumula vestiti e spazzatura sulproprio letto per dormirci sopra, apre le porte delle stanze degli altri ospiti rubando negli armadi, va nel guardaroba comune e si appropria dei sacchi della biancheria pulita, non dorme la notte nonostante gli vengano somministrate terapie aggiuntive, entra di notte nelle stanze degli altri ospiti spogliandoli e prendendogli le lenzuola mentre questi dormono, impedisce spesso al personale ausiliario di svolgere un lavoro adeguato perché si appropria della biancheria sia sporca che pulita mentre loro riassettano le stanze; quando scende nel salone cerca di entrare nella dispensa alla ricerca di cartoni di latte, gli operatori sono costretti ad essere come minimo in due se devono aprire la porta della cucina o della dispensa quando lui è presente, a volte anche altri pazienti aiutano gli operatori a tenere G.B.."

G.B. pone quindi problemi su più fronti: la componente d'angoscia che anima la sua compulsione all'accumulo di biancheria e lenzuola è ovviamente un danno per lui, ma anche per il personale, soprattutto ausialiario, che vede continuamente disfatto e distrutto il proprio lavoro, sia per gli altri ospiti che vedono "saccheggiate" le loro camere e grandemente ridotta la loro libertà. Le prime precauzioni prese dal personale per la salvaguardia degli altri pazienti sono state le seguenti: la chiusura delle stanze durante il giorno, affinché i pazienti potessero avere almeno il letto "in ordine" al momento di ritirarsi; il trasferimento dei guardaroba personali al terzo piano (dove non ci sono camerette), cosa che se da una parte consentiva di preservarli da G.B.., dall'altra comportava un enorme carico di lavoro per tutto il personale e disagio per i pazienti che non avevano a disposizione le loro cose nelle loro camere, parte fondamentale del progetto riabilitativo. Il precedente tentativo di chiudere solamente le porte che separano i corridoi si era rivelato vano, poiché G.B.. aveva in poco tempo rotte tutte le serrature.

E' evidente che questa non poteva essere la soluzione al problema, perché per contenere l'ansia di G.B. rispetto agli spazi aperti e per limitare le sue compulsioni, tutti gli altri ospiti ed il personale erano "barricati".

Ci si domandava: è giusto che un solo paziente danneggi così tanto gli altri 39? Fino a che punto è opportuno, è terapeutico, è riabilitativo permettere una totale "libertà alla compulsione"?

L'équipe si aziona per avere ulteriori informazioni sul paziente, viste le poche righe, pervenuteci, e per cercare una via di comunicazione con lui.

Veine contattato un infermiere di Quarto che ci comunica quanto segue: Il paziente è stato contenzionato a lungo, ricoverato nella 1ª divisione, risiedeva in una cameretta singola dalla quale non usciva mai perché raschiava i muri con le unghie e i bottoni dei vestiti. Ultimamente aveva iniziato a rubare le lenzuola ed i vestiti degli altri ospiti e a dormirci sopra, gli veniva permesso. Beveva spesso le urine dei prelievi di tutti gli ospiti. Aveva un buon rapporto con un infermiere della sua divisione.Questi, contattato riferisce: Per un certo tempo G.B. ha lavorato in lavanderia, proprio in questo periodo ha iniziato in reparto a raccogliere lenzuola e a dormirvi sopra. Usciva spesso con lui per andare al mare o al bar. Non ha mai dato problemi, non è mai stato reattivo o violento. Viene contattata telefonicamente ‘la sorella, che si dice essa stessa "piena di problemi" e non ha intenzione di venire in struttura in visita. Riferisce di non aver mai abitato con il fratello perché è stato in collegio a lungo, a Il anni è stato ricoverato a Cogoleto dal patrigno (il padre è morto in guerra) perché sordomuto (scappava sempre). L'Istituto dei Sordomuti di Genova aveva contattato la famiglia per inserirlo nel proprio centro, ma non è stata data l'autorizzazione e quindi G.B. è rimasto aCogoleto.

Il mondo dei sordi

Avvertiamo comunque una forte necessità di tentare un contatto con il paziente, di aprirci un varco alla sua inacessibilità; vorremmo farlo in modo adeguato e con mezzi consoni. Viene contattata un'interprete di lingua dei segni (LIS) che per qualche tempo collabora con la struttura cercando di instaurare una comunicazione con G.B.. Viene subito constatata l'impossibilità ad insegnargli tale linguaggio, anche i gesti più semplici, a causa degli anni passati in isolamento e della difficoltà ad ottenere, anche per pochi attimi, la sua attenzione. G.B. ha ormai 56 anni e ha trascorso quasi la sua intera esistenza senza ricevere alcuna sollecitazione appropriata, senza sperimentare ,neanche un abbozzo di percorso rieducativo. Ciò che lo interessa è solo il compimento dei suoi atti compulsivi (soprattutto l'accumulo di lenzuola e biancheria, ma è anche avido con il cibo e con l'ingestione di acqua) e, quando si rilassa nella sua stanza, l'annusarsi a lungo.

Veine organizzato un seminario per tutto il personale sul mondo dei sordi, il cui fine è di avere informazioni anche rudimentali sulla ricaduta del danno sensoriale sull'intera vita del paziente, per capire cosa e come percepisce un non udente, per comunicargli le cose in modo omogeneo (tutto il personale dovrebbe usare la stessa gestualità) ed adeguato, sapere cosa è giusto aspettarsi da lui e come chiederglielo. A tenere questo seminario è il presidente del Ente Nazionale Sordomuti, anch'egli non udente. Ci fa riflettere sul fatto che i non udenti, anche se possono avere relazioni con gli udenti, vivono meglio tra di loro, si comprendono, e quindi una delle carenze di G.B.. è di non avere mai avuto contatti con i suoi simili quando era il momento, cioè nell'infanzia, ora è troppo tardi per incominciare, e, anche se ha sicuramente imparato un linguaggio minimo per capire che cosa fare, cioè è in grado di interpretare alcuni gesti degli altri, non è in grado di comunicare che cosa vuole,cioè produrre dei gesti propri e finalizzati (l'unica sua comunicazione è trascinare gli operatori davanti alle porte che vuole aprire). I danni emotivi che ha avuto G.B.. a causa del suo isolamento sono irreparabili: per ogni sordo la lingua dei segni è la prima lingua, il mezzo con cui possono percepire emozioni e per comunicare tra loro, elemento essenziale alla loro serenità e al loro ingresso percettivo nel mondo.. Per accettare gli udenti i sordi devono capire che questi non si credano superiori. I sordi hanno una visione del mondo meno "nevrotico", hanno tempi diversi. Per avere un approccio adeguato con loro occorre osservare alcune regole:

– dare importanza all'espressione del volto;

– usare le mani e gli occhi per comunicare;

– non mettersi mai controluce;

– accendere spegnere la luce per richiamare l'attenzione;

– comunicare uno per volta;

– nello specifico per quanto riguarda G.B. occorre usare codici naturali e spontanei ed avere pazienza nell'aspettare le risposte. Gratificandolo quando capisce.

Tneere presente che i sordi percepiscono le vibrazioni dell'ambiente

Srcive Freud, a proposito del "Il perturbante" che "quanto più un uomo si orienta nel mondo che lo circonda, tanto meno facilmente riceverà un'impressione di turbamento (Unheimlichkeit) da cose o eventi". E ancora, a proposito dell'animismo dei primitivi che "questa fase non sia stata superata da nessuno di noi senza lasciarsi dietro residui e traccie ancora suscettibili di manifestarsi, e che tutto ciò che oggi ci appare "perturbante" risponda alla condizione di sfiorare tali residui… L'insieme delle nostre osservazioni e delle nostre confuse impressioni, non sempre consapevoli, con quanto ci viene detto sul mondo dei sordi ci forniscono qualche elemento in più per ritrovare il nostro paziente nel perturbante descritto da Freud. C'è qualcosa di inquietante in lui, che deriva dal suo esserci sconosciuto, c'è qualcosa che ci evoca una certa primitività, dell'esperienza umana (il crearsi una ‘tana' anziché una stanza, l'annusarsi, i movimenti veloci e guardinghi del bambino spaventato, …) che non siamo affatto abituati ad osservare, che non è patrimonio dei comuni pazienti psichiatrici, o anche negli stati più regrediti non arriva mai a tal punto. Al tempo stesso, è il mondo ad essere perturbante per G.B., è tutto ciò che è esterno a lui "…che ingenera angoscia e orrore... che appartiene alla sfera dello spaventoso"; il repentino cambiamento d'ambiente, del tutto inspiegabile alla sua mente, deve averlo gettato in una sorta di disperazione interna senza nome.

In seguito a questo seminario la nostra comunicazione con G.B. è migliorata, abbiamo cercato di inquadrare tutto quello che avevamo sperimentato fino a quel momento dandogli un senso positivo e progettuale. In generale tutto il personale è stato sensibilizzato e si è avvicinato al problema.

Tuttavia, quasi tutte le assemblee di comunità continuavano ad essere incentrate sul problema rappresentato da G.B., ed eravamo assillati dalla gestione del quotidiano: un emergenza costante. Se da un lato era doveroso interrogarsi e dotarsi di tutti gli strumenti per cercare di intervenire, in qualche modo, nella relazione, dall'altro esisteva un serio problema soprattutto coi personale ausiliario (che, va ricordato, nella vita di comunità è parte importante della quotidianità tanto quanto altre figure professionali), sempre più esasperato e solo, alla fine dei conti, con la foga compulsiva di G.B. (benché non lo si possa definire un paziente aggressivo, lo diventava quando ostacolato nella sua compulsione al disfare letti, mettendo quindi a rischio l'incolumità fisica delle persone). Occorreva tentare, sul piano pratico operativo, degli "esperimenti".

GIL "ESPERIMENTI"

Il primo periodo di permanenza di G.B. in comunità è stato di completa libertà, libertà che rappresentava come detto prima, chiusura di tutte le camere da letto (tutte a due letti, qualcuna singola) e di alcuni ambienti comuni, e gravosissimo carico di lavoro soprattutto per il personale ausiliario. Forse questa misura estrema non è stata del tutto negativa; alcuni ospiti hanno imparato a chiudere la porta della loro stanza, per evitare

di venir' derubati da abiti e lenzuola; un ospite che stava abitualmente sulla sedia a rotelle, per un fattore prevalentemente regressivo e non solo organico, si è addirittura messo a camminare per riappropriarsi di quello che gli era stato portato via. Quindi se per alcuni ha rappresentato un involontario agente di riabilitazione, per lui al contrario, il fatto di non essere contenuto dalle pareti di una stanza, come era stato abituato, ha rappresento possibilità di un'angoscia senza limiti, aumento delle paure e, di conseguenza, aumento della compulsivìtà, unico suo rimedio ad arginare tanta ansia. Poteva appropriarsi di qualsiasi cosa senza limiti e contenimento alcuno, concentrando verso di sé sentimenti di aggressività sia da parte degli ospiti che del personale. Frequenti erano le situazioni in cui, per riappropriarsi di biancheria e vestiti, per poter ripulire la stanza da mucchi di roba sporca, il personale doveva "lottare fisicamente" con il paziente, che se pur non reattivo, non aveva nessuna intenzione di separarsi dal suo "bottino" quotidiano.

Viene quindi decisa dallo staff al completo nel mese di luglio una chiusura per necessità di struttura, che praticamente consisteva nel chiudere il paziente in camera quando venivano fatte le pulizie alla mattina e durante la notte, per consentire agli altri ospiti di riposare degnamente. Probabilmente a causa della stanchezza e dello stress accumulato fino a quel momento c'è stata una sorta di disinvestimento emotivo degli operatori nei confronti dì G.B.; il problema non era risolto, solamente accantonato. In più le stanze degli altri ospiti dovevano necessariamente restare chiuse nel pomeriggio, quando G.B. aveva la porta aperta e vagava tutto il tempo nei corridoi per trovare una stanza dove poter prendere qualcosa.

Considerato il fallimento di questo primo "esperimento" ed il problema etico-morale che si poneva l'équipe, viene deciso di "riaprire la stanza" e di impegnare un operatore che stesse con lui durante la mattina, ma anche in altri momenti della giornata; una sorta di libertà vigilata, per impedire che G.B. disturbasse il lavoro del personale ausiliario e, al contempo, per effettuare un'osservazione più costante ed approfondita del paziente, con la speranza che riuscisse ad instaurare con un operatore un rapporto privilegiato. Viene tenuto un diario dettagliato di queste osservazioni del quale riportiamo alcune righe:Venerdì 21 agosto ‘98 ore 20-21. L'operatore si reca al primo piano, dove G.B. girava per il corridoio con il tentativo di aprire le stanze degli altri ospiti alla ricerca di indumenti e lenzuola da portare in camera sua. Lo accompagna nella sua stanza dove rimane con lui. Subito tenta di uscire per proseguire con di suddetti tentativi. L'O. tenta di contenerlo restando con lui ed invitandolo a rientrare in stanza, (nel frattempo gli altri O. aiutano i pazienti a sistemarsi nelle stanze per dormire). Fino alle 21 persegue nei suoi tentativi. Alla fine appare più stanco che rassegnato.

Sabato 22 agosto ‘98ore 7-15 / 20-21. Nella stanza di G.B. c'era un mucchio di indumenti, lenzuola ed altri oggetti che aveva sottratto agli altri ospiti durante la notte. Dopo aver ripulito la stanza l'operatore lo aiuta a lavarsi e vestirsi. Appare angosciato all'idea di recarsi nel salone a fare colazione. Prova ad appropriarsi di altri indumenti. Scende infine nel salone dove resta per poco e corre subito ai piani per verificare ci siano stanze aperte.Concedergli di tenere alcune lenzuola non si rivela utile. L'operatore prova a portarlo a passeggiare con scarsi risultati. Al momento del pranzo ha difficoltà a rimanere a tavola con gli altri (solitamente bisogna mettergli davanti primo e secondo perché mangi più tranquillo, comunque ingoia tutto compulsivamente e beve a dismisura). E' stato impossibile fare un'uscita con il furgone. La sera l'ospite è rimasto in camera sua senza tentare di uscire, appare sofferente ed ha pianto per quasi un'ora. Si addormenta verso le 21.00

Dmoenica23 agosto. …chiude la porta in faccia all'operatore con evidente messaggio di rifiuto.

Lunedì 24 agosto Molto agitato perché riesce a disfare parecchi letti, l'operatore non riesce a calmarlo, gira con lui tutta la mattina per i corridoi… nel pomeriggio si appropria di 3 pacchi di lenzuola pulite

Dmoenica 30 agosto. …Viene fatto un tentativo di mettergli il materasso sul letto (poiché dorme con il materasso per terra in condizioni igieniche non ottimali) fissandoglielo con del nastro e sperimentando dei rudimenti di terapia comportamentale. Il risultato è che l'ospite dorme per terra su di un tappetino.

Appare evidente che anche questo tentativo, seppur più adeguato dal punto di vista relazionale, crea nel paziente una continua angoscia. Non sembra rivestire alcun senso, per lui, il venir controllato da una persona, probabilmente perché non riesce né ad instaurare un rapporto gratificante e affettivo, né a sentirsi in questo modo protetto e contenuto. Ci sono però piccoli movimenti in senso migliorativo: ha imparato a chiedere ciò che desidera, e sa che entro certi limiti lo potrà ottenere (attraverso gesti, sguardi, o trascinando l'operatore dove vuole arrivare), ma non è ancora in grado di accettare indicazioni e limitazioni.

Viene decisa allora la limitazione del suo spazio in un ottica progettuale e riabilitativa,dopo aver constatato che l'unico suo contenimento era rappresentato dai muri. L'ottica della gestione del contenimento viene completamente ribaltata: la sua portadeve essere sempre chiusa: ogni 15 minuti, di giorno, un operatore deve recarsi nella sua stanza a verificare il suo stato, ogni mezz'ora la notte; deve scendere a tavola accompagnato e riportato in stanza quando lo desidera. Quando l'operatore va nella sua stanza se G.B. vuole uscire deve portarlo fuori. Il paziente sembra finalmente più tranquillo, ha recuperato la dimensione alla quale era abituato e sembra apprezzare maggiormente i momenti in cui è insieme agli altri, mangia in modo più rilassato e adeguato, rispetta i tempi tra il primo ed il secondo, fa la coda per il caffè. Occasionalmente, esce con il gruppo per recarsi in paese. E' in generale meno compulsivo nell'assunzione di cibi e bevande e sembra meno interessato ad appropriarsi di biancheria. E' a volte contenuto dalla presenza dell'operatore, che gli indica con i gesti di non entrare nelle stanze altrui o di prendere biancheria dai carrelli; quando però riesce ugualmente a recuperare qualcosa, sottrargliela dalle mani risulta più difficoltoso, come se il suo investimento su oggetti divenuti ora difficili da conquistare, fosse di conseguenza più forte.

Nello stesso periodo, vista la scelta di questo specifico tipo di contenimento, si è cercato di ridurre progressivamente quello offerto dalla terapia psicofarmacologica, che G.B. assumeva a dosi sostenute e continuamente aumentate dai momenti "al bisogno". E' stato possibile una riduzione pressoché totale dei farmaci, con esclusione ovviamente della terapia antiepilettica. G.B. non sembra averne risentito, era anzi progressivamente meno ag itato e dormiva regolarmente, come non era mai avvenuto quando assumeva molta terapia, soprattutto farmaci ipnoinducenti.

Resta il problema della stanza, il fatto che G.B. non usi il letto, ma metta il materasso per terra impedendo una corretta igienizzazione e autolimitandosi lo spazio vitale. Da una vivace riunione di équipe, si decide di acquistare un letto molto basso ed un nuovo materasso. Durante questo piccolo trasloco G.B. è presente e su richiesta degli operatori abbastanza collaborativo, nonostante osservi tutto con un'espressione tra il confuso e lo stupito. Aiuta persino l'operatore a buttare via il vecchio materasso, trasportandolo giù per le scale fino ai bidoni fuori dal cancello. Quando il letto è terminato, con lenzuola e coperte, ci sale sopra e ride come un bambino. E' la prima volta che lo vediamo ridere, non pensavamo che ne fosse capace e che conoscesse l'esperienza dell'allegria. La stanza è stata ulteriormente arricchita di quadri, specchi e oggetti colorati al fine di creare un ambiente accogliente. Un'altra ‘scoperta' che lo diverte è osservarsi nello specchio leggermente deformante che gli viene messo in camera. Ora è la "sua" cameretta, quella di G.B., riconoscibile tra tutte. G.B. ora è spesso sorridente, emette suoni, sia quando è solo in stanza, sia quando l'operatore lo va a prendere. Comprende, o accetta, i segni che gli vengono rivolti per comunicare. Resta sempre più lungamente nel salone con gli altri e, anche se il suo scopo è quello di cercare del caffè, riesce ad aspettare e a non irrompere violentemente in cucina per procurarselo. E' con gli altri, anche se con un bicchiere in mano in attesa perenne di ricevere qualcosa.

Il progetto è ovviamente quello di aumentare progressivamente i tempi di apertura della camera e i tempi di permanenza insieme agli altri, ma adattandoci noi a quello che G.B. riesce a tollerare.

Rfilessioni e conclusioni

Abbiamo scelto questo caso, tra altri che offrivano ugualmente delle osservazioni, per il travaglio emotivo che ci ha procurato, per come ci ha costretti alla fantasia, e perché ci ha obbligati a riflettere su posizioni che sembravano acquisite. Che cos'è la libertà? Che cos'è il contenimento? Usiamo questi termini molto frequentemente, ma ci mettiamo sempre e davvero nei panni del paziente, guardiamo il mondo dal suo intimo punto di vista, anche quando è un punto di vista lontano da noi?

Può un essere umano preferire una stanza chiusa alla libertà? Che cos'è l'angoscia?

Nno pretendiamo di rispondere a questi quesiti; il loro respiro è ampio, e meritano altro tempo, riflessioni più approfondite, ed il nostro continuo interrogarci.

Scriveva Dostoevskij che nulla è più tormentoso per l'uomo della libertà, questo bene insopportabile.

Tronando al nostro paziente possiamo, per ora, limitarci ad osservare quanto lo sradicamento dall'O.P., unico ambiente a lui noto al mondo, e l'immissione repentina in una situazione nuova e ricca di stimoli sia stata per lui non fronteggiabile, se non a prezzo di un aumento dell'angoscia e delle coazioni mai sufficienti a contenerla.

Un primo punto, quindi, è il cambiamento.

L'altro punto è il ruolo del contenimento, o per meglio dire dei contenimenti possibili. Una comprensibile remora etica, unita ad un certo pregiudizio sulla libertà, ci aveva fatto preferire il contenimento farmacologico, del tutto inefficace se non dannoso per il paziente, a quello a lui più consono dei suoi muri, i muri di una stanza dalla quale non era mai uscito. Solo con il ribaltamento di quest'ottica ("puoi stare sempre libero perché qui starai meglio") in un'altra ottica a lui più vicina ("ora puoi ancora stare chiuso come sei sempre stato, ma in un ambiente personalizzato e caldo e con delle persone che sono qui per te; piano piano dovrai uscire anche tu nel mondo"), è stato possibile ottenere un risultato insperato.

Concludiamo estendendo la riflessione da G.B. ai pazienti ex manicominali in genere, il cosiddetto "residuo". Questi primi otto mesi di osservazione in Comunità ci consentono di poter ragionevolmente affermare che solo un'attitudine interna veramenteaperta, sgombra da timori e pregiudizi, libera da fantasmi di manicomialità dai quali vogliamo scappare, solo la curiosità e la voglia di scoprire l'oggetto del nostro lavoro giorno per giorno, possono renderci capaci di creare strumenti tecnici originali e "nuovi" per i nostri "vecchi" pazienti.

 

Freud S.: "Il perturbante", in Opere, vol. 9, ed. Boringhieri, Torino

Dostoevskij F.: I fratelli Karamazov, trad. it. Ed. Einaudi, 1981, Milano

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