MASONE

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20 gennaio, 2013 - 19:57

di Rossella Valdrè

 

INTRODUZIONE

 

“Chiunque si trovi a lavorare con paradigmi nuovi, si mette in una posizione marginale, poiché ancora non esiste una disciplina codificata, e le sensibilità più tradizionali sono state in genere attirate verso campi intellettuali meno caotici”

( Sherry Turkle, Life on the screen)

Dovendo preparare questo intervento mi é venuta alla mente questa frase tratta dal libro di Sherry Turkle e riferita a Thomas Kuhn , lo storico della scienza, credo per i concetti di paradigma nuovo e di una disciplina la cui codifica ancora non esiste. Queste idee, che avevo da qualche parte nella memoria, mi hanno evocato l'atmosfera che stiamo vivendo nel nostro lavoro a Masone: siamo cioè di fronte ad un paradigma nuovo (il luogo fisico-mentale dove lavoriamo), frutto, a me sembra, di quella che, parafrasando il nostro autore, potremmo chiamare una “contaminazione di paradigmi” (pazienti degli ex OO.PP + un gruppo di lavoro ad orientamento comunitario), e in tutto ciò non c'é ancora nulla di codificato.
La Comunità Terapeutica Skipper di Masone é una struttura convenzionata specificatamente destinata ad accogliere in due unità 40 pazienti provenienti dagli ex OO.PP., 20 da Quarto e 20 da Cogoleto.
E' ubicata in una piccola frazione di Masone, San Pietro, ed é una ex colonia ristrutturata circondata da un grande giardino. L'edificio é a quattro piani ed é stato ristrutturato prevedendo: al piano terra la reception, la sala da pranzo, cucina, infermeria , due studi medici, una camera per due pazienti disabili e un bagno per handicappati; il secondo e il terzo piano sono occupati dalle camere, ciascuna a due letti con bagno (qualcuna singola); al terzo piano si trova un'atra camera di degenza, studi medici, stanze per attività riabilitative, la lavanderia e il guardaroba. E' stata aperta il 23 Marzo, e il primo modulo di 25 ospiti é stato completato entro Aprile.
Mi accorgo che non é facile definire cos'è lo Skipper, perché ogni giorno lo vediamo modificarsi sotto i nostri occhi. Per il momento, direi così: é un insieme dinamico di persone e cose che sono state combinate insieme in tempi molto rapidi, e che ora stanno cercando di conoscersi, di osservarsi reciprocamente, di definirsi e di amalgamarsi. Le persone sono date dagli operatori e dai pazienti, le cose dagli elementi strutturali e architettonici che compongono l'abitazione in cui le persone vivono e operano insieme.

 

Cominciamo dalla struttura.........

 

E' stata pensata e si presenta come una casa già al primo impatto: i pazienti e talvolta i parenti restano un po' disorientati, entrando, dal ritrovarsi in una sala piena di confusione domestica, con divani dove qualcuno ha sonnecchiato fino a tardi, gente che gira e che lavora senza che l'abbigliamento sanitario permetta una immediata distinzione dei ruoli, una sensazione di caos e, direi, di calore. Va aggiunto a tutto questo un fattore non trascurabile, e cioè che la struttura é stata aperta (avendo l'agibilità) senza che i lavori di ristrutturazione fossero ultimati, e con gran parte della piccola manutenzione ancora in corso (a tutt'oggi mancano diverse rifiniture architettoniche), e che questo ha causato e causa un aggravio di lavoro e di confusione notevolissimo (ad es non si trovavano certi oggetti, non si poteva entrare in certi ambienti, la cucina e la lavanderia non erano in funzione, mancava il cancello per il giardino, parte dell'arredamento andava ordinato, parte si é rivelato non idoneo al tipo di utenza, e via dicendo). Una casa, quindi, ma una casa dove si sta entrando ad abitare, mezza vuota e mezza piena, con oggetti che, una volta usati, si rivelano non funzionali, con oggetti troppo “delicati” che vengono subito distrutti. Una casa che doveva essere rapidamente di tutti e che non era ancora di nessuno. 
La tipologia dei pazienti riproduce invece sostanzialmente quella degli attuali ex manicomi, in quanto metà sono pazienti psichiatrici e metà sono disabili. Per disabile s'intende il pz. portatore, spesso fin dalla nascita o dall'infanzia, di patologie cerebrali organiche o deficit sensoriali, sui quali può essersi o meno innestata la psicosi; gli psichiatrici sono quasi tutte diagnosticate schizofrenie residue. A meno di deficit evidenti, la distinzione clinica tra i due gruppi, all'osservazione, non é sempre facile: tutti appaiono deteriorati e cognitivamente deficitari, tutti più o meno non autonomi, come se la lunga istituzionalizzazione avesse col tempo sbiadito le differenze non solo tra gli individui ma anche tra patologie così grossolanamente diverse, che avrebbero richiesto percorsi e riabilitazioni differenziati. L'osservazione sugli esiti rende tutto tragicamente uguale. 
Al momento é presente solo il primo modulo di pazienti, formato da venti psichiatrici e cinque disabili, per un totale di 25; ci sono tre pz. in carrozzella, due non vedenti e uno sordomuto. Siamo quindi in attesa di pazienti pressoché tutti disabili. Per quanto riguarda il sesso, abbiamo al momento 14 uomini e 11 donne. L'età media degli uomini é di 63 anni, quella delle donne di 58 anni (la pz. più giovane é una disabile non vedente di 39 anni, la più anziana ha 75 anni). Si può dire che i primi 25 pazienti hanno quindi formato un embrionale gruppo iniziale e hanno costituito l'impatto col tipo di lavoro che ci trovavamo a svolgere.

 

Si può fare una Comunità Terapeutica con l'utenza degli ex OO.PP?

 

Abbiamo quindi un contenitore nuovo (la casa), in un contesto sociale nuovo (il paese), che accoglie e fa vivere insieme un gruppo a sua volta nuovo (gli operatori e i pazienti, a loro volta in parte tra di loro sconosciuti). Gli operatori, cioè tutti noi, costituiscono la terza variabile di questo mosaico, la cerniera umana che mette insieme, che fa interagire il gruppo dei pazienti con la struttura abitativa, tra di loro e con il paese. E' la presenza di questa cerniera umana lo specifico della Comunità Terapeutica, la sua differenza dall'ospedale e non solo dall'ospedale psichiatrico, in quanto gruppo che contiene professionalità diverse trasversalmente unite per il funzionamento del gruppo stesso, che si riconoscono in questo funzionamento e ne determinano direttamente ed in prima persona gli umori e le valenze, che devono essere elasticamente disposte ad un certo grado di intercambiabilità di ruoli senza però perdere di identità e confondersi gli uni con gli altri, perché ambedue le estremizzazioni condurrebbero alla paralisi del funzionamento del gruppo stesso. 

Questa delicata architettura umana é la Comunità, non semplicemente la fa. La struttura comunitaria ha cioè il suo specifico nell'essere fatta dalle persone, nel bene e nel male potremmo dire: non é cioè una macchina che può quasi andare avanti da sé come la grande istituzione, ma é uni_camente affidata allo scheletro che gli operatori riescono a darle (non che non contino le persone in una grande istituzione, ma sembra possedere un suo certo automatismo, specie se pubblica, che manca del tutto nelle C.T.) Il barometro della vita di Comunità, il suo polso vitale sono le persone che la compongono non sono nel complesso, ma anche quelle che sono lì in quel turno in quel momento. Questo é l'elemento di grossa fragilità ma potenzialmente anche di grossa creatività della Comunità Terapeutica. Tuttavia, qui abbiamo uno specifico ancora diverso, che non sembra essere né il manicomio, per ovvi motivi, né la C.T. propriamente detta, per come la conosciamo dalla nostra esperienza e dalle strutture che esistono sul territorio (per altrettanti ovvi motivi: età dei pazienti, indimissibilità già nelle premesse, residualità della patologia, e via di_cendo). Credo che l'interesse stia proprio in questo: scoprire cosa siamo, definirci e ridefinirci rispetto all'esistente, sostenere questa definizione con un pensiero ed un assetto teorico che oggi manca (abbiamo ‘pensiero' sul manicomio e sulla C.T. tradizionale, ma non sulla struttura residenziale. che é stata messa al posto del manicomio). E' stata fatta un'embricatura senza precedenti: avere messo assieme una struttura nuova, gui_data da personale giovane (e torneremo su questo punto) con pazienti vecchi, vecchi talvolta di età ma soprattutto vecchi di istituzione, assuefatti all'immobilismo e alla rutinarietà più passiva e semplificata che si possa immaginare. 

Io non conoscevo i manicomi, se non attraverso il sentito dire, la letteratura, il cinema e la mia immaginazione. Come me, la maggior parte del personale di Masone non li ha conosciuti, perché troppo giovane, giovane di età in qualche caso e soprattutto giovane di formazione. Ci siamo formati in un'epoca in cui il reparto di psichiatria é dentro l'ospedale generale, ci sono gli ambulatori in ogni quartiere e sappiamo che da qualche parte esistono delle Comunità. Ci siamo formati all'interno, chi più chi meno, dei concetti psicoanalitici (secondo il contributo più alto della psicoanalisi e cioè il riconoscimento laico della sostanziale identità di ogni uomo rispetto al nucleo originario delle emozioni) e della cultura della tolleranza, sappiamo e sentiamo, attraverso qualcosa che é dentro di noi e che ci ha spinto ad occuparci di questo, che chi sta male di mente non ha colpa, non ha peccato, che ci deve essere una sofferenza antica alla base di tutto questo, qualcosa di indicibile, non condivisibile a priori per il paziente, in cui é stato completamente solo. Questo é il nostro bagaglio.

 

La centralità del ruolo dell'educatore.

 

Ho fatto questa premessa per venire al punto che mi sta più a cuore, quello degli operatori. Il personale di Masone, l'altra delle variabili a cui accennavo prima, é composto da infermieri, ausiliari, educatori profes_sionali, due psicologhe, medici. Parte di questo personale, ad es. alcuni infermieri e tutti gli ausiliari, non avevano nessuna esperienza psichiatrica, parte aveva lavorato nelle C.T., come gli educatori e io stessa. 
Questa “contaminazione” che dicevamo all'inizio mi pare essere un elemento potenzialmente molto creativo. Elementi diversi o addirittura antitetici tra loro sono venuti a contatto, dando vita a qualcosa di non ancora definito e codificato ma che prima non c'era: da questa condizione é possibile quella che sempre il nostro Khun chiama “salto di paradigma”: diventare, cioè, un altro qualcosa rispetto a quanto preesisteva. Il personale ‘tipo' della C.T., che ha la sua centralità e la sua specificità nella relazione del pz. con l'educatore, si trova a relazionarsi con un pz. “altro” rispetto a quello che si aspettava e di cui aveva esperienza, un pz. appunto prevalentemente anziano, deteriorato, appiattito, riottoso ad ogni cambiamento, poco propenso alle stimolazioni, avido di cibo e di sigarette, se violento sembra senza un motivo apparente, se calmo é perché perso in un totale narcisismo, un pz. socialmente infantilizzato, che non sa scrivere, non sa leggere in molti casi, che viene portato per le strade in un mondo per lui indecifrabile, che richiede un gravosissimo accudimento fisico, in quanto parecchi sono incontinenti e vanno aiutati nella più rudimentale cura del Sé. Questo tipo di operatore psichiatrico, anche se apparentemente il più inadatto per la poca esperienza di un tale malato, si rivela nel nostro caso il più adatto a quella funzione che Schinaia chiama, con una felice definizione, di ‘rianimazione istituzionale': ridare anima a chi non ce l'ha più o non sa più dov'è, ridare vita, o perlomeno restituire aspetti rivitalizzati contro l'appiattimento mortifero.
Quando sono stata negli ex OO.PP., a turno con gli educatori, a visitare i pazienti che avremmo accolto, mi sono accorta che giravamo quei posti con lo spirito di chi va a un museo: anche se razionalmente sappiamo che i pz. vi hanno passato gran parte della loro vita, in qualche caso tutta la vita, per noi sono stati, ad un livello più emotivo e profondo, semplicemente dei ‘nuovi ingressi', come se fossero entrati per la prima volta in un luogo di cura (non ne ho parlato direttamente con gli educatori, ma penso possano condividere questo stato d'animo) Per noi sono pz. nuovi. Mi pare cioè di avvertire un atteggiamento di apertura ‘inconscia', paradossalmente, frutto forse della totale ignoranza circa la storia precedente e della disponibilità ad osservare quello che succede, che é più sentito e genuino della difesa cosciente di ‘sapere cosa ci aspetta'.
Siamo stati aiutati in questo, di nuovo paradossalmente, dalla povertà di notizie con cui i pazienti sono arrivati (non certo per inadempienza degli ultimi curanti) per cui un'intera vita era racchiusa in poche righe e in poche abitudini stereotipe, e ci siamo così trovati di fronte a pz. comple_tamente da conoscere e da scoprire (parafrasando Bion, potremo dire che una situazione del genere, se usata creativamente, mette davvero l'operatore in condizione di essere ‘senza memoria e senza desiderio' di fronte al pz.). Senza memoria per la mancanza di conoscenza pregressa, e senza desiderio perché ci siamo resi conto, attraverso errori e tentativi, di quanto sia facile ‘desiderare troppo' con questi pazienti che richiedono, almeno per ora, un bassissimo e graduato livello di stimolazione: non desiderano e non cercano attivamente di fare attività, se non uscire per andare al bar, tendono a non fare anche quello che sarebbero in grado di fare, e sembrano diffidare istintivamente di chi penetri troppo il loro ritiro. In qualche caso ci é sembrato di osservare una sorta di reazione d'angoscia alla libertà, come se l'essere improvvisamente messi in condizione di esplorare un posto nuovo creare un'eccitazione angosciosa insostenibile. Ci pare che il ‘desiderio' in senso bioniano, in questa prima fase, debba essere rivolto principalmente alla cura e al riconoscimento del proprio Sé, una cosa che forse immaginavamo scontata e che sbaglia_vamo a considerare sbrigativamente dequalificante. 
Fare un buon lavoro, in questa fase, é insegnare ai pz. l'uso del gabinetto, il riconoscimento dei propri abiti e dei propri oggetti rispetto a quelli di un altro, dei propri confini corporei e di territorio (la propria stanza), a collocarsi nel tempo e nello spazio (imparare che giorno é, dove siamo, chi sono i diversi operatori, etc).
L'asse del lavoro, quindi, é spostato su una modalità di relazione che é essa stessa relazione ma non nei termini a cui siamo abituati col giovane psicotico o col borderline tipico delle C.T. (l'unico pz. di questo tipo, infatti, é stato dimesso). E' una relazione che potremmo chiamare basica, massicciamente impregnata di accudimento fisico, spesso non verbale (molti pz. non parlano o si esprimono con difficoltà), che viene inventata e appresa letteralmente momento per momento. Al contenimento nel senso più noto dello holding di Winnicott, qui occorre far precedere l'accudimento, che però é esso stesso contenimento. Questo vale soprattutto per alcuni disabili che, per la gravità dei loro deficit, ci mettono di fronte a richieste di attenzione particolari e per noi nuove.
La sfida é quella di ribaltare una situazione così difficile e così demotivante in un lavoro di gruppo dove, proprio per la mancanza di un assetto teorico e pratico precostituito, la creatività di ciascuno può esprimersi al massimo. Con pazienti che hanno così poco si può tentare tutto; noi ab_biamo così tanto da imparare che possiamo imparare da tutti.
Sul piano operativo, questo si é tradotto in una serie di iniziative a cui abbiamo dato e daremo vita: un'attività di consulenza e formazione pressoché continua appoggiandoci agli specialisti dei vari settori (consulenza del Chiossone per i non vedenti, dell'Ente Sordomuti, del centro Epilessia), gruppi di alfabetizzazione per alcuni pazienti (alcuni sono analfabeti di ritorno), gruppi di informazione e discussione con i familiari.
Mi chiedo spesso come potremo mantenerci vivi e vivaci quanto lo siamo in questa fase. Credo che il punto essenziale stia nel preservare, lo ripeto, la centralità e la complessità del ruolo dell'educatore, in quanto figura trasversale rispetto ai bisogni dei pazienti, che proprio in virtù della sua peculiare formazione non é ancorato al momento medico o infermieristico in sé e alla gestione dell'urgenza. Questo mi pare sia il focus dove mantenere alta la tensione. La relazione paziente-educatore, se supportata dal lavoro degli altri e mentalmente supervisionata dagli psichiatri e dagli psicologi (mi riferisco qui ad un tenere a mente continuo, sul campo, non circoscritto a momenti formalizzati), é la relazione specifica della cultura di Comunità, non trasferibile in quanto tale né all'ospedale né al servizio né, tanto meno, alla deriva accuditivo-assistenzialistica dei manicomi (se non attraverso la contaminazione dei vari scomparti). 
E' sperabile che l'imposizione di legge di smantellare definitivamente gli OO.PP. voglia sottendere la chiusura di una mentalità, e non semplicemente la dismissione di pazienti di cui a nessuno importa più nulla, col massimo risparmio da parte dello Stato.
Credo si sia tutti d'accordo nel non limitare il concetto di manicomio ai muri di Quarto o Cogoleto, dove peraltro esistono anche realtà che hanno lavorato più che dignitosamente, ma che manicomio può essere una famiglia, un quartiere e persino una Comunità, nella misura in cui non c'é pensiero, non c'é respiro, non si sente più il bisogno di un assetto teorico che ci supporti.
Il grosso degli sforzi andrebbe teso in questo senso. Pur in questi pochi mesi, io che non avevo mai visto un manicomio, ho intravisto da dove potrebbe germogliare: dalla tentazione di appiattirsi sulla quotidianità dell'assistenza, sia per il carico di lavoro, sia per la seduzione negativa che la patologia residuale esercita su di noi, con le sue poche richieste, anzi con l'unica richiesta di essere lasciata in pace, semplificazione massima dell'esistenza all'interno dei ritmi dell'istituzione. Il grosso dello sforzo é non dimenticare. 
Quando vedo gli educatori abbattuti, dico loro che questa é un'osservazione unica, almeno nel nostro Paese; scomparsi questi pazienti, non sarà più possibile un'osservazione del genere, non vedremo più questi esiti, vedremo altre cose, ma non queste. La cosa più difficile per tutto il gruppo, me compresa e me per prima, é mantenere “il cuore vigile”, mantenere cioè la necessità di pensare, di fare da regista, sopportando le angherie del quotidiano, incentivando il gusto dell'osservazione rispetto all'appiattimento, il desiderio di conoscenza rispetto alla scontatezza, la curiosità rispetto alla noia, la voglia di divertirsi rispetto alla tristezza. 
Per questo ringrazio gli organizzatori del convegno per avermi dato la possibilità di parlare e di confrontarci, perché solo dal confronto può nascere un pensiero originale ancorché problematico. 
Diceva Leonardi che il paziente, in un manicomio, é l'istituzione; potremmo dire che il paziente, il bisognoso di cure, in una Comunità, é il gruppo di lavoro.

 

 

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