Intervista al Comitato Scientifico

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30 novembre, 2012 - 15:11

 

D:Come mai l’11° Congresso del CIPA si è centrato sulla figura del padre?

R:Ci sono stati due elementi che si sono coniugati. Uno è l’occasione dell’anniversario della morte di Jung. Avevamo pensato, in un primo tempo, di fare un convegno che ricordasse nel momento della sua morte il pensiero di Jung. Ma ci siamo anche detti che volevamo che fosse un Convegno celebrativo. Allora abbiamo cercato, rispondendo alla sensibilità sugli eventi sociali che sono accaduti soprattutto in questi ultimi due anni, di porre l’attenzione della psicoanalisi ad una riflessione sulle carenze della funzione paterna.

Vi è anche un discorso di continuità storica rispetto ad un dibattito culturale all’interno del CIPA che tocca anche Congressi precedenti. Il tema dello Junghismo è il riconoscimento di alcuni elementi fondamentali: la figura della madre, del padre, la relazione della coppia, il rapporto padre-figlio, padre-figlia che hanno delle basi archetipiche, collettive, fondamentali ma che ogni individuo in qualche modo rende, ricostruisce e produce nella sua esperienza.

Il tema del padre ha istanze collettive antiche che si ripetono nella storia; però è una nozione antica ma è anche una nozione in evoluzione tanto più nel pensiero psicoanalitico contemporaneo. La psicoanalisi nasce centrata sul padre, poi riscopre la madre ed adesso vi è una terza fase il recupero del padre. In questo senso la cultura Junghiana con capacità di legare gli aspetti strettamente psicoanalitici tecnici ma anche culturali, perché il padre è il padre della clinica di cui ti parla il paziente ma è anche il padre della società, il padre come legge. Abbiamo cercato di creare questo ponte tra collettivo ed individuale che recupera una tradizione di altri congressi del CIPA. In realtà questo tema scaturisce dal lavoro di confronto tra colleghi e in fondo dalla considerazione che sempre più le nuove patologie, i nuovi pazienti, i racconti delle stanze di analisi vanno ad indicare quella dimensione di silenzio del padre. Quindi raccogliendo l’esperienza clinica e il tema del silenzio del padre, in fondo abbiamo pensato ad una riflessione per poterci interrogare su quale possa essere la parola del padre oggi e quale padre oggi nelle varie età della vita. Mi sembra importante, poiché è del pensiero Junghiano partire dalla realtà vissuta del paziente per arrivare a saldare in ambito cognitivo e teorico.

La psicoanalisi rispetta e rispecchia lo spirito del tempo e quindi, attraverso gli argomenti che diventano di riflessione per il lavoro con i pazienti, vengono individuati dei temi. L’anno scorso il CIPA ha fatto un convegno sulla centralità della relazione nella cura analitica e due anni prima vi era stato il tema della identità maschile e femminile. Ed erano temi che immediatamente recepivano delle idee che incominciavano a circolare nella comunità analitica e su cui si incominciava, attraverso lavori scritti, incontri a giornate di studio o a convegni, a ragionare. Il tema che abbiamo proposto quest’anno sicuramente non è un tema che esaurisce, attraverso gli interventi che vengono proposti, il problema di questa portanza. Tra l’altro vogliamo concludere il convegno con una tavola rotonda e non con delle conclusioni come solitamente si fa proprio perché desideriamo rilanciare il problema e lasciarlo aperto per le riflessioni ulteriori. Ieri nelle relazioni del Prof. Charmet e Dott. Zucca, che hanno anche un ruolo istituzionale, il problema della richiesta costante da parte della famiglia di una funzione genitoriale che deve essere attivata, direi che mi è sembrata proprio un filo conduttore.

Un momento particolarmente impegnativo per gli analisti è trovarsi di fronte all’aumenta richiesta da parte dei genitori di aiuto. Noi da questo punto di vista dobbiamo pensare a delle forme di intervento che non sono le forme di intervento tradizionale. Cioè non sono l’analisi così come classicamente viene intesa. Si tratta di intervenire mirati alla ripresa della funzione genitoriale là dove è stata interrotta, per una serie di motivi che riguardano spesso la storia delle dinamiche famigliari e soggettive dei componenti delle famiglie, ma anche per molte coppie è l’attivazione della funzione genitoriale perché nella mente questa funzione non è contemplata.

Credo infatti che la cosa che più ci interessa non è tanto l’aspetto più propriamente dell’evoluzione storico-culturale che è analizzato da altri punti di vista. Ci interessa nel complesso tutto questo perchè noi spesso siamo chiamati a svolgere un supplenza relazionale. La relazione originaria che appare deficitaria in qualche modo deve essere corretta e ricostituita. Quindi l’analista è chiamato a svolgere una vera e propria relazione di supplenza. Si sostituisce non per incarnare il ruolo di padre e a volte quello di madre ma per ricostituire un legame relazionale con una figura di questo tipo,in modo tale che questo possa dar vita ad una possibilità di sviluppo psicologico. Questo è il nostro obbiettivo fondamentale. Proprio questa problematica rende particolarmente difficile l’intervento del terapeuta. Mi ricordo un articolo molto bello scritto da S. Argentieri in cui lo stesso diceva che il grande rischio del tipo di richiesta che abbiamo oggi è che la psicoanalisi si sostituisca nella vita del paziente. Questo è quel filo di lana difficilissimo da tenere presente come normativa interna del terapeuta, intesa come norma paterna di non prevaricare, di non dare risposte troppo adesive, di non dare risposte che si sostituiscono ma che riescono ad aiutare un adolescente o la coppia genitoriale nel superamento dello stallo di sviluppo.

D:Il Presidente V. Trapanese aveva parlato all’apertura dei lavori dell’aspetto di multidisciplinarietà e di apertura ai vari indirizzi. Come è possibile realizzarla da un punto di vista clinico terapeutico ossia all’interno della stanza di analisi?

R:Noi non abbiamo alcuna vocazione ad assemblare pezzi di teorie a pezzi di discipline diverse creando una sorta di mostro. Ciò di cui abbiamo bisogno è che qualcuno, al di fuori del nostro modello teorico, ponga l’accento su fenomeni, su interpretazioni che per noi non costituiscono un modello teorico bensì delle cose sulle quali riflettere per modificare la nostra teoria. Quindi non assimilare pezzi di teoria ma servirci di altri punti di vista, di altre prospettive per avere a disposizione una sensibilità verso certi fenomeni, verso certi elementi che ci consentono di riaggiustare i nostri modelli teorici, riaggiustando anche il nostro metodo terapeutico. Un metodo che è un tentativo continuo, a seconda dei nostri pazienti e della loro evoluzione storico culturale, di costruirci una sensibilità basata su schemi interpretativi che prendano le mosse da quanto in altri settori ci viene messo a disposizione. Questo è quello che sta accadendo nella comunità analitica in senso più generale. Per fortuna non ci sono più, tranne che in alcune particolari eccezioni, delle chiusure contrappositive tra metapsicologie differenti. Ci sembra di capire che la grande scommessa per la psicoanalisi è quella di una trasversalità che però riconosca il valore della specificità delle singole appartenenze. La trasversalità viene resa possibile dalla riflessione sulla clinica, su quello che il paziente porta oggi come richiesta e come sofferenza. La richiesta del paziente è quella di guarire; molto spesso i clienti che arrivano ai primi colloqui fanno una domanda che sembra un paradosso, però è molto significativa :"sto male, per favore mi aiuti a non stare più male". Io lavoro da 20 anni come analista e questa è una domanda differente rispetto a quella degli esordi della mia carriera professionale dove c’erano altre comunicazioni.

Proprio come Junghiani in terapia eravamo abituati a pazienti che portavano un’esigenza individuativi, cioè qualcuno portava se stesso , cercava di essere se stesso , cercava di diventare se stesso o di costruire se stesso. Oggi credo che, nella maggioranza dei casi, la richiesta è quella di essere aiutati perché si sta male. Probabilmente questo tipo di richiesta è stato sempre svolto dall’analista, però meno dall’analista Junghiano perché vi era una specie di seduzione preventiva per cui dall’analista Junghiano vi era una maggiore presenza di persone che avevano questo intento dello scoprire se stessi ed in questo l’analista Junghiano si sentiva attrezzato. Ci sono cambiamenti ancora in atto che non possono che essere risolti attraverso un dialogo complesso anche all’interno per esempio della nostra associazione. Questo rispecchia profondamente lo spirito Junghiano che è quello di integrare . Jung considerava sempre un qualsiasi punto di vista come unilaterale quindi la unilateralità può essere corretta là dove innanzitutto la si riconosca. Il riconoscimento dell’unilateralità porta inevitabilmente ad aprirsi. In relazione alla richiesta individuativa mi è venuto in mente un Congresso di 15 anni fa in cui intervenne Musatti che raccontò i suoi primi colloqui con Fellini. Di fronte a Fellini gli disse" lei con tutta questa ricchezza non può fare l’analisi Freudiana" e lo inviò a fare un’analisi Junghiana. Musatti portò questo contributo al convegno proprio per sottolineare un specificità. Di fatto oggi siamo alle prese con una situazione collettiva che porta l’analista a confrontarsi con delle realtà complesse. Quindi ad avere nella stanza di analisi padre-madre-bambino, avere una pluralità di personaggi che rende per esempio la figura del terapeuta infantile a se stante rispetto alla figura dell’analista classico. Queste nuove forme di terapia sono promosse anche da studi attenti per esempio l’"Infant Research Distress" che ci pone degli strumenti di lettura su quello che accade nella mente di un bambino molto piccolo in interazione con la madre ed il padre, che non erano a disposizione della psicoanalisi fino a venti anni fa.

Ieri parlava la Dott.ssa Di Renzo su questi studi interessantissimi sulla triangolazione che è l’anticipazione della diade madre-bambino. Tutto questo diventa un bagaglio tale che ignorarlo vuol dire ignorare la soggettività del paziente ossia del suo essere individuo che porta delle problematiche. Ciò che la ricerca offre alla psicoanalisi è allo stesso tempo la conferma delle intuizioni che la psicoanalisi dalle sue origini e dalle sue varie formulazioni ed è una ulteriore fonte per assestare nella ricerca clinica nuovi modelli e nuove integrazioni.

Aggiungerei che si trovano delle coincidenze tra pensieri diversi che nascono dalla clinica, dove non si vede il tentativo di portare insieme teorie diverse ma semplicemente l’uomo in quanto tale. Non esiste l’uomo Freudiano o Junghiano o Kohutiano , esistono punti di vista Freudiani, Junghiani etc. ma l’uomo è uno. Per esempio il tema del Sé che Jung ha affrontato per primo, in particolar modo da una prospettiva culturale con studi esterni dalla clinica come l’alchimia. Adesso si riutilizza molto il termine Sé, con connotazioni differenti però si ritorna all’idea dell’unità della persona. Ho sempre creduto ad una scientificità della psicoanalisi, non nel senso che "dobbiamo scimmiottare" i metodi delle scienze naturali ma esiste una realtà umana. Esiste per esempio uno sviluppo psichico sano che riconosce certe tappe che possono essere studiate in prospettive diverse.

Dopo un secolo di studi della psicologia del profondo, visto da varie prospettive, ci stiamo avvicinando al fatto che l’uomo è fatto in un certo modo per questo certe teorie vengono abbandonate. Vi è una verità relativa, prospettica, non assoluta e dogmatica ma ci si avvicina a questa prospettiva. In questa prospettiva si trovano naturalmente senza forzature delle coincidenze.

Per esempio il concetto di inconscio che per Jung è stato un concetto che significa una progettualità dell’uomo, sicuramente un luogo mentale nel quale erano depositate delle cose accadute- rimosse ma molto più significativamente in luce c’era la progettualità dell’individuo. La psicoanalisi freudiana questo non lo prevedeva, oggi la psicoanalisi vede l’inconscio come il luogo della progettualità. Non solo ma addirittura viene ad affermare la necessità che l’inconscio possa avere anche dei depositi che non tornano alla coscienza proprio come espressione sana dello sviluppo mentale.

Il pensiero di Jung visto in questi termini è un pensiero attualissimo. Il nostro impegno è di recuperare questa attualità e renderla interlocutrice a pieno titolo dello spazio analitico più ampio.

D:Non abbiamo ancora superato la metà dei lavori, vi chiediamo se siete soddisfatti della partecipazione sia nel senso del numero che degli interventi?

R:Mi sembra che lo spessore delle relazioni sia notevole, i temi affrontati possono soddisfare tutti pur mantenendo una centralità specifica. Credo che in questo momento non possiamo che essere soddisfatti. È chiaro che nessun convegno può considerarsi come risolutivo ma è semplicemente una piattaforma iniziale per un dibattito vero sull’argomento.

Sul tema del padre nell’ambito della nostra associazione ci sono stati momenti preparatori. Alcuni di questi sono stati pubblicati. Al tema del convegno si è arrivati attraverso una discussione interna. Si sceglie un tema non solo perché è suggestivo ma perché è il frutto di una elaborazione interna di confronto, un tentativo di mettere a fuoco temi e problemi che ci appaiono rilevanti.

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