11 settembre 2001 le immagini che curano

Share this
3 ottobre, 2012 - 16:30

 

la tedesca mi disse: ‘come faccio a togliermelo dagli occhi?’
(Ararat, 2003)

Sono tanti anni che Celeste partecipa al gruppo per pazienti psicotici che con Giuliana tengo presso il mio servizio. La sua partecipazione al gruppo è fatta soprattutto di risate per le quali è molto difficile cogliere nessi rispetto alle associazioni degli altri pazienti. I brevi interventi sono lapidari ed ostili verso il gruppo. Dopo un lungo periodo, parla di una scena: "ero caduta nella piscina ed ero morta!" Da questo momento la terapia di Celeste — sostenuta dal gruppo — consiste essenzialmente nel porre continuamente sempre ulteriori frammenti di immagini alla iniziale scena traumatica: non si tratta di "capire" o "ricordare", ma di riempire un vuoto (Correale, 2001) che l’evento traumatico deve aver scavato incolmabile. Non so quanto Celeste stia ricordando la sua vera storia, ma comunque, in ogni caso, si tratta di una nuova storia della sua vita resa possibile da immagini che la sua appartenenza al gruppo rende possibili. Io seguo le sue immagini ed arredo continuamente una scena, sempre più ricca e movimentata, che custodisco intimamente e che mi permette di immaginare — a modo mio — la sua vita: "ero caduta nella piscina e nessuno se ne accorse. Da sotto vedevo delle persone sul bordo della piscina, ma nessuno si muoveva". E poi: " mentre ero sotto l’acqua muovevo forte le braccia per risalire…". E ancora: "forse un bagnino… no, non c’era alcun bagnino… forse un signore mi afferrò per un braccio e mi tirò su… sono stata in coma per tanto tempo (?)… poi mi stesero sul bordo della piscina…"

Penso che i film, un po’ come i sogni, possano essere una piccola forma di cura, di manutenzione della nostra mente, essenzialmente perché forniscono immagini al nostro limitato vocabolario della vita concreta: "non ritengo che ci si possa permettere di ignorare ciò che ci dicono i nostri sensi perché, comunque, i fatti sono molto pochi" (Bion, 1983). Ritengo ci siano due modalità opposte di fruire, da parte di un analista, di un film. Il nostro lavoro con i pazienti può entrare nel film e ci troviamo affannosamente a cercare giustificazioni nel film che stiamo vedendo (o nel libro, o nella musica…). Si tratta di uno stato di sofferenza a cui ci espone il nostro lavoro saturandoci di elementi β indigeriti che i pazienti ci consegnano e che — nella logica progressione delle dinamiche degli elementi β — noi cerchiamo di consegnare ad un film. Lo schermo ci sostiene nell’urgente bisogno e nell’affannosa ricerca di trovare un contenitore già confezionato capace di accogliere, senza trasformarle, le nostre angosce. Credo si tratti di un modo molto parziale di usare le immagini di un film, ovvero una situazione in cui le immagini si prestano, in modo rassicurante, a saturare e sospendere ogni processo di trasformazione di elementi β in pittogrammi elementari capaci di organizzare nuove immagini e nuove scene. Penso che in questo caso si tratti di un modo di mettersi seduti dietro lo schermo. Vi è un secondo modo di usare il cinema ed è quello di tenersi rigorosamente di fronte allo schermo: le nostre preoccupazioni di analisti, indigeriti, dei pazienti e della stanza di analisi) non entrano nello schermo e ci disponiamo, come lo spettatore che abbiamo a fianco, a fruire del flusso di immagini. A queste non viene chiesto di giustificare le nostre tensioni, ma di massaggiarci la mente, quindi di attivare altre, nostre immagini. Questa volta è il film che entra nel nostro schermo e non viceversa. In questa linea, quando ci riesco, curato da una adeguata ingestione di immagini, e tornato alla vita e alla stanza di analisi, continuo a pensare a quelle immagini e alle emozioni che ne coglievo come quando si ricorda di una buona giornata o di un bel viaggio fatto nei giorni precedenti o di un buon incontro. Immagini che ci aiutano a mettere nuovi personaggi e a dare nuovo ordine alle situazioni concrete, della vita e del nostro lavoro, che ci saturano continuamente. Tutto sommato, Ulisse per risolvere l’assedio di cui è anche vittima deve procurarsi una immagine che dia un nuovo assetto alla situazione altrimenti paralizzata.

Ho visto il film 11 settembre e questa volta la mia reazione è stata precisa ed insolita rispetto alla visione di un film: mi sono sentito come uno che èfortunato! Non si tratta della solita sensazione di piacere o noia verso un film, o di sentirsi più o meno stimolato dal tema. Si trattava di partecipare ad un evento che "per fortuna" mi aveva riguardato. Lo spettacolo era semplicemente un film, ma l’esperienza consisteva nel sentirsi all’interno di una macchina di immagini che ti invitava a partecipare; condividere quelle immagini e, soprattutto fare finalmente una scoperta semplice: che su quel tema — su cui si era tanto parlato e su cui vi erano state trasmissioni televisive ed interi numeri di riviste - era possibile (necessario) immaginare, associare immagini che vi girassero intorno, sospendendo finalmente di occuparsi del tema direttamente. Esattamente il metodo analitico! Il film, giustamente, non si occupava affatto di psicoanalisi, ma confermava che la mente ha un continuo fabbisogno di immagini (Ferro, 2002) e che il metodo analitico è fondamentale per la cura della mente in quanto si muove esattamente in questa linea. "Lo stato di forte carenza in cui si trova la psiche rispetto a tutti gli elementi di cui ha bisogno per la crescita e per lo sviluppo dà un’estrema urgenza all’incapacità di sognare del paziente… le associazioni sono considerate alla stregua del nutrimento" (Bion, Cogitations)

Al buio, durante la proiezione del film, ho cominciato subito ad emozionarmi per l’evento a cui stavo partecipando: vedevo subito una schiera di bambini ed una insegnate che parlava della sensazione che "fosse successo qualcosa di grave"; i bambini potevano capire solo attingendo alla loro esperienza diretta: "è morto il sign. X…". Poi, subito dopo, la conferma della mia sensazione di "sblocco": un regista (Youssef Chahine) che per affrontare il duro tema del trauma, il quale doveva aver bloccato anche la sua capacità di immaginare e pensare l’evento, propone un sogno o un’allucinazione: ho avuto la sensazione precisa che se il suo brano lo aiutava ad associare liberamente rispetto al tema traumatico una volta avviato il processo egli poteva finalmente permettersi i sogni. Scorrevano le immagini di una coppia che sta per separarsi senza motivo, per semplice consunzione, un altro tipo di catastrofe e qui le immagini appaiono ancora in risalto

Non appena si sono riaccese le luci della sala mi sono trovato a pensare alla fatica che faccio costantemente con alcuni pazienti — soprattutto borderline — che fino all’esasperazione si tengono legati ad attacchi rivendicativi verso di me, evacuando pensieri ed emozioni, non proponendomi mai immagini e, soprattutto, impedendomi di averne in seduta. Spesso con questi pazienti, le immagini le cogliamo dopo la seduta, quando torniamo a casa o quando il nostro corpo si stacca dai pensieri e — magari attraverso un’attività sportiva o di relax - si dedica alla cura di sé: mentre faccio una corsa da solo o guido nel traffico, mi accorgo che compaiono finalmente immagini che, se proprio non sono associazioni sulle sedute, sono almeno la ripetizione visiva della seduta che, questa volta, mi viene incontro benevola. In queste "ri-rappresentazioni" i pazienti più difficili perdono quelle caratteristiche ostili che così spesso ci fanno disperare, mentre si ripresentano, questa volta, non più ostili, ma soprattutto sofferenti.

L’operazione che propone il film 11 Settembre, penso vada esattamente in questa linea. I registi di questo film, per parte loro penso abbiano sperimentato una operazione di cura di se stessi, della propria mente attaccata da un evento inimmaginabile proponendo immagini che, a loro volta si producessero nella loro mente come immagini evocate.

Vi sono aspetti che riguardano in modo specifico questo film ed aspetti che lo riguardano come dispositivo creativo che si compie attraverso la funzione delle immagini. Nel primo caso il film ha un suo messaggio e tenta di comunicare qualcosa; nel secondo caso esso è funzione di un processo creativo che accade indipendentemente dal messaggio che vuole comunicare.

Possiamo segnalare alcuni elementi specifici del film:

  1. la funzione sacrale dell’elemento "11" nella cui ripetizione il film propone una funzione esorcistica: 11 registi, episodi della durata di 11 minuti 9 secondi e un frame sono lì a definire, nella ripetizione concreta, l’evento nella sua essenza: un tempo fermato ed un evento imprigionato nel suo tempo oltre il quale non può esistere (sarebbe un’altra cosa dall’evento); Orologio che procede nell’inesorabile movimento delle lancette; tempo che procede con il ritmo di un gallo che becca…;
  2. Tutte le 11 storie parlano di un deficit: la voce, le immagini, l’impossibilità a tornare uomini;
  3. In tutte è centrale la impossibilità a raccontare l’evento;
  4. Costante presenza della TV sullo sfondo come contenitore di immagini estranee al contesto e al personaggio (al Sé).
  5. Presenza di fotografie presenti sullo sfondo, spesso foto di un passato felice ed intimo (Tanovic; Lelouch)

Nel secondo caso — ed è ciò che mi ha più emozionato - gli 11 brani del film propongono tutti la funzione dell’immagine come processo autonomo, dell’ordine naturale e vitale che emerge a lenire gradualmente il trauma inavvicinabile perché inimmaginabile. Mi ha colpito leggere che a Claude Lelouch, come agli altri registi del film è stato chiesto dove si trovasse e cosa avesse provato non appena saputo quello che era successo. L’esperienza di Lelouch è simile a quella di tutti coloro i quali hanno appreso dell’evento da qualcun altro: un evento estremamente traumatico e concreto non ha parole per essere comunicato, ma, per essere colto nella sua drammaticità può solo essere visto: "… mio figlio mi ha telefonato e mi ha detto di accendere la TV"; oppure: "…rientrai in albergo, accesi la televisione e cominciai a metabolizzare quella giornata orribile" (Sean Penn).

Questo film ci suggerisce come le nostre immagini intime ci conducono gradualmente e delicatamente verso l’inimmaginabile e riempiono un vuoto. Con l’affluire di immagini, come nel processo analitico, il trauma lascia il posto al dolore ed il dolore viene anticipato finalmente da dolori conosciuti ed intimi: la tragedia, quindi, è la morte di due uomini in un pozzo; le torri diventano la ciminiera della fornace del villaggio, il ricordo della famiglia felice prima della guerra è in una foto appesa al muro…

Intanto nel gruppo Antonella si rivolge a Celeste: " hai l’ansia?" "sì… - le risponde Celeste - ma non ricordo!…"

"Non puoi ricordare — riprende Antonella — è impossibile! Quello che è stato è stato! Puoi volere un fac-simile… piantare qualcosa… concimare…poi, magari qualcosa di buono esce pure! Ma a quello che è successo puoi solo avvicinarti con qualcos’altro; puoi dire che è bello, ma non è possibile descriverlo… e lì rimane!"

> Lascia un commento


Totale visualizzazioni: 2218