GALASSIA FREUD
Materiali sulla psicoanalisi apparsi sui media
di Luca Ribolini

Settembre 2013 - IV Freud in teatro e in famiglia, psicoanalisi, arte e scuola

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4 ottobre, 2013 - 16:40
di Luca Ribolini

I FIGLI DEL PADRE DELLA PSICANALISI
di Giorgio Dell’Arti, altrimondi.gazzetta.it, 23 settembre 2013

Freud
Freud, oltre a moglie e sei figli nati tra il 1887 e il 1895, manteneva la sorella della moglie che a partire dal 1896 visse in casa sua, una cuoca, una domestica, una bambinaia, un’istitutrice. Inoltre: la madre e la sorella nubile, Adolfine, che se ne prendeva cura, e da un certo punto in poi le sorelle Pauline e Rosa, rimaste vedove.
Martha
Il 13 settembre 1886 Freud sposò Martha Bernays, con cui era stato fidanzato per più di quattro anni. Il 16 ottobre 1887 nacque la primogenita Mathilde. Poi seguirono Martin, Oliver, Ernst, Sophie e Anna. I nomi li scelse lui: il principio era che le femmine dovevano essere chiamate con un nome in uso presso famiglie amiche della borghesia ebraica viennese, mentre i maschi con i nomi di grandi della scienza o della politica.
Poeta
Jean Martin Freud, primo dei figli maschi di Freud, da bambino si distingueva perché componeva poesie. A sette anni firmava i suoi scritti e le sue lettere «il poeta Martin». Il fratello minore Oliver, cinque anni, ne correggeva gli errori di ortografia.
Spadaccino
Martin, incline a difendere le proprie idee con la violenza, all’università aderì un’associazione ebraica in cui si praticava il duello, la «Kadimah», e divenne un provetto schermidore. Il padre vedeva la cosa di buon occhio.
Malattie
Freud, convinto che i suoi figli avessero bisogno di un’educazione sessuale, poi preferì evitare di occuparsene personalmente. Diede loro un manuale di divulgazione intitolato «Die Gesundheit». Tra le cose che fece, mise in guardia il figlio Oliver dall’onanismo e mandò i due figli maschi maggiori da un suo amico dermatologo perché spiegasse loro come evitare le infezioni e le malattie veneree.
Schiaffo
«Il tuo errore è che non sei aggressivo o non lo sei abbastanza. Se fossi stato brutale quando lei ti ha fatto soffrire, se avessi alzato la voce o, ancora meglio, se le avessi dato uno schiaffo, allora forse voi due avreste potuto sviluppare una relazione felice» (consigli di Freud al figlio Martin).
Funerale
Istruzioni di Freud per il proprio funerale: «Sui costi del mio funerale si dovrà risparmiare il più possibile: la classe più economica, nessun discorso funebre, partecipazione a posteriori. Prometto che non mi offenderò per l’eliminazione di qualsiasi «devozione». Se sarà facile e poco costoso: cremazione. Se al momento della mia morte dovessi essere «famoso» – non si può mai sapere -, ciò non dovrà cambiare nulla». Freud mandò poi al figlio Martin una bozza di necrologio: « «Il x x 192x è morto qui nel suo 7x° anno di età il Sig. Prof. Dr Sigm. Freud. La salma è stata cremata il x x»
Scriveteci
«Cari figli, voglio pensare che il duro lavoro vi giustifichi, se ci scrivete così di rado. Ma considerate che noi non possiamo fare a meno di preoccuparci, se per settimane non sappiamo niente di voi. Ce lo potete risparmiare: se avete in casa della carta da lettere, un minuto libero l’avrete, per scrivere da una parte l’indirizzo, e dall’altra due righe: “Tutto bene per noi tre, ma nessuno di noi ha tempo o voglia di scrivere”» (lettera di Freud al figlio Oliver e a sua moglie Henny, 9 febbraio 1925)
Gonorrea
Ernst Freud in guerra sul fronte italiano fino al 6 agosto 1917, quando con una diagnosi di ulcera fu mandato in ospedale ad Agram, poi a Graz e infine a Vienna. Durante il viaggio «il birbante» (così scrisse il padre) ebbe anche tempo di prendersi la gonorrea.
Nuora
Simpatia reciproca tra Freud e Lucie Brasch, moglie di Ernst. Lei, appena lo incontrò, confessò al marito: «Sono felice di non averlo conosciuto prima di te. Mi sarei sempre tormentata a chiedermi se è a causa sua che ti amo».
Sophie
Di Sophie Freud s’innamorò Hans Lampl, compagno di scuola e amico di suo fratello Martin. Contraccambiato, la famiglia di lei fece di tutto per tenerli lontani. Più tardi Lampl scrisse di aver compreso il rifiuto, in quanto allora era solo uno studente e i Freud «erano molto più convenzionali di quanto si possa immaginare». Quando Sophie si sposò (nel 1913 con Max Halbertstadt, fotografo), la passata relazione era nota a Vienna e dunque dovette essere pubblicamente smentita. Scrive Lampl: «Fu un matrimonio ebraico, in casa sua. E allora successe una cosa singolare. Ossia fui io a dover andare a prendere Sophie. Sophie era nello studio del professore. La sposa stava aspettando e mi dissero di andare a prenderla. Allora io amavo ancora Sophie, e anche lei me. E in tal modo si dimostrò per così dire al mondo intero che, nonostante tutto, dovevo essere d’accordo».
Figli
Hans Lampl a proposito di Freud: «Era sempre dell’idea che le persone dovessero fare figli; come e con quali mezzi, poi, potessero nutrirli non lo interessava».
Notizie tratte da: Sigmund Freud, Intanto rimaniamo uniti. Lettere ai figli, Archinto, € 25.
 
http://altrimondi.gazzetta.it/2013/09/21/i-figli-del-padre-della-psicanalisi/


QUANTI RUOLI DEVE RICOPRIRE UN BRAVO MAESTRO NEL TEMPO DEL DISAGIO
di Marco Lodoli, notizie.tiscali.it, 23 settembre 2013

In un articolo pubblicato pochi giorni fa su Repubblica, Massimo Recalcati, intellettuale acuto e penna vivacissima, invita gli insegnanti a non scivolare sul terreno limaccioso dell’attenzione perenne ai problemi psicologici degli studenti. Il professore deve svolgere il suo compito, che è quello aiutare i ragazzi a recepire il valore della poesia, della matematica, della scienza, della filosofia: sta in cattedra per questo, perché ancora una volta si ripeta il miracolo della conoscenza, che d’improvviso ogni ragazzo deve sentire come necessaria, affascinante, ineludibile. Recalcati ricorda i suoi anni di studente in una scuoletta qualsiasi, tra compagni distratti e annoiati. Un giorno entrò una nuova insegnante, rigida nel suo tailleur grigio, una donna che non dava troppa confidenza a quella banda sbracata di studenti.
Però sapeva spiegare la poesia, la sapeva leggere e accendere i pensieri, almeno quelli di Recalcati. Non si preoccupava di sapere se quegli adolescenti erano felici o infelici, innamorati o depressi, non perdeva tempo a indagare i problemi che si portavano da casa o dalla piazzetta fuori scuola. Amava la poesia e sapeva come farla amare, punto e basta. Così Recalcati si augura che la scuola di oggi non divenga uno sportello di ascolto per adolescenti in crisi, che ritrovi in fretta la sua giusta missione, cioè quella di fornire agli studenti gli strumenti necessari per crescere culturalmente, umanamente, e magari per aiutarli trovare un posto di lavoro decente.
Insomma, la scuola non deve essere una scatola algida dove tutto si pesa e si valuta secondo crocette messe nel modo giusto, non deve diventare la fabbrica delle performance algide, un anonimo laboratorio per creare funzionali rotelle, senz’anima né vita, ma nemmeno ridursi a un centro di salute psichica per assistere esistenze traballanti. Il prof non può passare le sue ore ad ascoltare i guai dei suoi studenti: così facendo, rischia di tradire aspettative più grandi, più vere.Tutto giusto, e però temo che Recalcati non abbia esperienza diretta di quello che accade in una qualsiasi delle migliaia di classi dei nostri giorni.
Sarebbe bello dedicarsi esclusivamente ai tragici greci, al pessimismo leopardiano, al senso di estraneità dell’esistenzialismo francese, ma ogni professore sa bene che deve fare i conti con ciò che ha davanti: con la tragedia di vite strozzate, col pessimismo di menti sbandate, con l’estraneità alla vita di giovani confusi. E’ difficile respingere un ragazzo che arriva alla cattedra sperando che l’insegnante possa ascoltarlo, perché nessun altro lo ascolta. E’ difficile dirgli: non mi interessa che tua madre e tuo padre si sono separati, che tuo fratello spaccia, che stai per essere sfrattato, che sotto casa tua ieri sera si sono picchiati a sangue.
Questi ragazzi non hanno più nessuno che li aiuti a mettere ordine nei pensieri, sono travolti da emozioni disordinate, hanno paura, si lasciano andare facilmente. E contano su quell’omino o quella donnina che si ritrovano in classe ogni giorno, sperano in una parola di salvezza, in un conforto, in una mano tesa. L’insegnante oggi non può barricarsi dietro un’indifferenza professionale, non può dire: “Scusa, ma questi sono fatti tuoi, adesso io devo spiegare Torquato Tasso, vattene a posto.” Deve essere maestro e fratello maggiore, guida e amico, faro e fiammella di speranza. Deve essere molte cose, se vuole bene ai suoi studenti. Ritirarsi nel ruolo di operatore culturale bravo ad erogare lezioni bellissime purtroppo non basta. Rischia di spiegare benissimo a ragazzi che hanno la testa altrove. Rischia di stendere le sue parole come un sudario.
 
http://notizie.tiscali.it/socialnews/Lodoli/9230/articoli/Quante-ruoli-deve-ricoprire-un-bravo-maestro-nel-tempo-del-disagio.html

HABER-BONI E L’INTRUSO «COSÌ ANCHE FREUD PUÒ INCONTRARE DIO». I DUE ATTORI INTERPRETANO IL VISITATORE
di Emilia Costantini, corriere.it, 23 settembre 2013

Alessandro Haber si passa la mano sulla barba incolta, si arruffa i capelli, si dimena sulla sedia: «Sono in crisi, non ce la faccio, il testo è troppo lungo, troppe battute, non ho memoria!». Alessio Boni, anche lui con la barba lunga e ben pettinata, non si scompone: «Non rompere le scatole. La crisi la superi. La memoria? Devi applicarti!».
Assistendo alle prove de Il Visitatore (la pièce di Éric-Emmanuel Schmitt che, interpretata dalla coppia Haber-Boni con la regia di Valerio Binasco, debutta il 6 novembre al Franco Parenti di Milano), si ha la sensazione di trovarsi di fronte a una seduta psicoanalitica, più che a uno spettacolo. Siamo nella Vienna del 1938 occupata dai nazisti. Nello studio di Sigmund Freud (Haber), la Gestapo ha appena arrestato la figlia del celebre psicoanalista. Lui è malato di cancro e sente il fiato della morte addosso, ma soprattutto è angosciato dalla sorte che potrebbe toccare alla sua Anna. All’improvviso dalla finestra spunta un inaspettato visitatore (Boni).
Il grande indagatore dell’inconscio è infastidito e al tempo stesso incuriosito da quella presenza inquietante. E tra i due parte un dialogo serrato. Ben presto Freud, che da sempre si professa ateo, capisce di avere davanti nientemeno che Dio. «Lui che ha negato Dio — si accalora Haber — definendolo un’invenzione degli uomini, si trova davanti al mistero della trascendenza ed è costretto a porsi dei quesiti estremi». Interviene pacato Boni: «Schmitt, nel suo libro autobiografico La mia storia con Mozart , racconta di quando appena quindicenne, in preda a una profonda depressione, stava meditando di suicidarsi, ma il suo casuale incontro con la musica di Mozart lo fece rinascere, aveva scoperto la bellezza. Secondo me il Visitatore rappresenta la necessità dell’essere umano di dare un senso all’esistenza. E lo spettacolo diventa una sorta di terapia di gruppo con il pubblico in sala».
Insorge Haber: «La vita è una malattia mortale e, siccome l’ateo non ha il beneficio della fede, deve avere più coraggio per vivere!». Ragiona Boni: «La religione è un mantra interiore, o ci credi o non ci credi. Io a 10 anni ho scoperto l’importanza della vita: avevo paura persino di addormentarmi la sera perché temevo di non risvegliarmi più».
«Mio padre era ebreo — racconta Haber — e, quando vivevamo a Tel Aviv, un giorno a scuola feci una cosa molto brutta a un compagno che mi era antipatico: di nascosto gli feci lo sgambetto, lui cadde, vidi il sangue… Nessuno si era accorto che ero io il colpevole, ma mi sentii come Caino e ammisi la mia responsabilità». È proprio una seduta psicoanalitica. I due attori non si risparmiano la verità. «Alessio è troppo perfetto: si arrabbia se non so la parte, se fumo durante le prove…». Ride Boni: «E tu sei autoreferenziale, hai un ego smisurato». Poi però Haber ammette: «Sei un compagno di scena impagabile: sempre disponibile, comprensivo». E Boni: «E tu sei generoso». Questa è terapia pura, altroché teatro.
 
http://archiviostorico.corriere.it/2013/settembre/23/Haber_Boni_intruso_Cosi_anche_co_0_20130923_9662b5dc-2411-11e3-8f13-878f197b01dc.shtml


SE LA MAMMA HA L’ANSIA… COSA RISCHIANO I BIMBI IPERPROTETTI 
di Manuela Trinci, unita.it, 23 settembre 2013

Scuolabus, metro, tranvia, nonno con casco e scooter, oppure da solo? Il quesito si ripropone a ogni inizio di anno scolastico. Quale sarà l’età giusta per mandare il rampollo a scuola senza la «scorta»? Come potrà affrontare il rischio incidenti, le correnti d’aria, i pedofili, i bulli, gli scimmioni in libertà e le zingare con la scopa?
Quel grande, insuperabile, artista che è Claude Ponti (Catalogo dei genitori, Babalibri, Euro 25.80 pag.48) ha coniato per tutta la nutrita legione di bambini-esenti-rischio la categoria dei genitori Fifoni, genitori «specialisti imbattibili di angoscia aggravata e terrorizzazione demonizzante», «sempre pronti a immaginare il peggio e che non lasciano fare niente».
Allora, in un’epoca in cui ci si indigna di continuo e si sbraita di fare tanto per i bambini, per proteggerli da tutti i mali del mondo, si è finito per esporli a uno dei maggiori fattori di rischio sociale: la mancanza di un bagaglio formativo che li renda autonomi, che li solleciti verso esperienze proprie fuori da quell’ambiente ovattato, iperprotettivo e a prova di sbadiglio che è la famiglia.
In un clima del genere si capisce bene perché Lenore Skenazy, giornalista cult e scrittrice, sia stata a suo tempo indicata come la «peggior mamma d’America», per aver raccontato dalle pagine The New York Sun di aver mandato il proprio figlio Mizzy di nove anni a casa, da solo, usando la metropolitana di New York City.
E già allora, nel 2008, la Skenazy auspicava il ritorno al tempo in cui l’infanzia non era dominata dalla paura coniando con la dizione di «genitori ruspanti» («free range parenting») un modello che fosse l’antidoto alla «genitorialità elicottero» (dagli elicotteri della polizia che sorvegliano le città americane) alla «over-genitorialità», o genitorialità apprensiva… o oppressiva; e proponendo l’istituzione divertente di un una sorta di pride day per preadolescenti dal titolo: «porta tuo figlio al parco…e lascialo lì».
Non soddisfatta dell’incredibile fortuna del suo primo libro Free-Range Kids: Giving Our Children the Freedom We Had Without Going Nuts With Worry (Bambini ruspanti: come dare ai nostri figli la libertà che avevamo noi senza impazzire per la preoccupazione), del suo frequentatissimo blog (www.freerangekids.com), l’ormai navigata mamma-blogger nonché animatrice del format televisivo di gran successo Mamme che amano troppo, ha di recente pubblicato in italiano un agevole manualetto “I sì che aiutano a crescere. Regalate le ali ai vostri figli” (ed. Kowalski, pagg. 266, Euro 14); forse un po’ troppo anglosassone per la puntigliosità nel dispensare consigli, ma spassosissimo nei ritratti che propone dei genitori sempre allarmati per i rapimenti dilaganti, i germi predoni e le caramelle di Halloween avvelenate, e non di meno ansanti per le mani sporche, il contatto con il pelo del gatto, le escursioni, i campeggi, e i primi tuffi in piscina!
Dare ai bambini non solo le «radici», i caschi e i seggiolini di sicurezza, ma dotarli anche di ali consente di allevare Free Range Kids (bambini ruspanti). I genitori non possono eternamente «prestare la propria mente» al bambino o protrarre all’infinito la «funzione dell’intendersi», come la chiamava Freud! Educati, dunque, senza avvolgerli nella bambagia, senza incorrere in quell’eccesso di mamma (scriveva Lacan!) che portò, giusto per fare un esempio letterario, anche il topolino Nicola a passare un sacco di guai. (Nicola passaguai di J.Willis – T. Ross, Il castoro, pagg.24 Euro 12.50).
Avvolto in una palla di soffice ovatta, il topolino fu inseguito da una volpe che lo credette coniglio, da un’oca che lo scambiò per una gustosa meringa, ecc… e solo l’happy and al suono di «mamma sono ancora vivo», garantirà a Nicola il diritto a prendere freddo, uscire e divertirsi: come ogni vero topo! Occhio solo che questa straordinaria filosofia educativa non sia un’ennesima strizzatina d’occhio alla crisi economica planetaria che ci travaglia. Perché è difficile per tante mamme «sherpa», abituate a portare i figli in spalla e ora costrette a far quadrare i conti, tagliando servizi infanzia e baby sitter, assolvere al ruolo di custodi di infanzie a rischio. Più facile, forse, ribaltare il penoso senso di affaticamento e di inadeguatezza in una sana «ruspante» inversione di marcia!
 
http://www.unita.it/culture/se-la-mamma-ha-l-ansia-br-cosa-rischiano-i-bimbi-iperprotetti-1.522880

 
IN QUEI CAPOLAVORI SI COMPIE LA MORTE DI NARCISO. NELLA NUOVA POETICA L’ALTERAZIONE DELL’IO BORGHESE
di Massimo Recalcati, la Repubblica, 25 settembre 2013
 
Il primo ritratto di se stesso che l’essere umano incontra è quello che si riflette nella superficie dello specchio e che seduce il bambino incatenandolo ad una illusione fondamentale: l’immagine che vedo apparire allo specchio fa esistere una rappresentazione ideale di me stesso che contrasta con il mio essere reale al di qua dello specchio. Si spalanca così una divisione che accompagnerà l’essere umano nel corso di tutta la sua vita. Quello che sono non coincide mai con l’ideale che ho di me stesso. Questo ideale appare come sottratto, irraggiungibile. Anzi, quando l’uomo avanza la pretesa di realizzare questa impossibile coincidenza con la sua immagine ideale si perde irreversibilmente come mostra il mito di Narciso. La seduzione della propria immagine in quanto immagine ideale trascina fatalmente verso la morte suicidaria. Come sanno bene gli psicoanalisti l’attaccamento eccessivo a se stessi non è mai portatore di salute.
Nell’arte classica del ritratto in primo piano troviamo – salvo rare eccezioni – la gloria dell’immagine ideale che investe il volto del re, del principe o del personaggio celebre. In questo caso il ritratto persegue la finalità narcisistica di emendare il volto dalla presenza incombente della caducità e della morte realizzando una immagine destinata a sfuggire il tempo per eternizzarsi nei secoli a venire. Basta rileggere le straordinarie pagine che Jean-Paul Sartre dedica nel suo romanzo filosofico La Nausea a descrivere la galleria di ritratti degli uomini illustri presenti nel museo della grigia cittadina di Bouville. Questa serie impagliata di volti non serve ad altro che a nutrire la malafede degli uomini, ovvero la loro angoscia e il loro esorcismo di fronte alla morte.
Diversamente dalla ritrattistica classica quella moderna e contemporanea non ha voluto alimentare la rappresentazione del volto come monumento narcisistico. Piuttosto – come accade già in Caravaggio dove nel suo celebre Canestro di frutta, la bellezza astratta della mela è interrotta dalla presenza perturbante del segno inconfondibile che la rende bacata, cioè intaccata dalla morte – si tende alla deformazione espressiva del volto come avviene in modo estremo nei Ritratti e negli Autoritratti di Bacon. Qui l’accartocciarsi metamorfico del volto altera la rappresentazione borghese dell’Io. Diversamente dai grandi uomini che hanno fatto la storia di Bouville manca in queste figure ogni compostezza, ogni senso della armonia e della misura. In primo piano non è quel “diritto di esistere” che secondo Sartre assegna subdolamente al ritratto tutta la sua pomposa autorità, ma l’esistenza senza fondamento, ingiustificata nel suo essere. Se si guarda l’Autoritratto di Music si può osservare come la gloria dell’immagine narcisistica sia qui letteralmente ridotta a polvere. Il volto dell’artista scompare in un nebulosa che rivela tutto il nostro statuto di mortali. L’identità monumentale della posa lascia il posto all’ombra. Lo stesso accade in Van Gogh anche se in modo diverso: non troviamo nella sua opera un solo autoritratto uguale all’altro, così come una firma uguale ad un altra. L’artista si polverizza in uno sciame di figure e di firme che anziché cementare l’identità la rendono camaleonticamente impossibile. Ma anche in un’opera volutamente provocatoria come quella di Magritte titolata Lo stupro in primo piano, circondato da una chioma di capelli biondi, non è il volto ma il corpo sessuale, ovvero ciò che l’abito narcisistico del ritratto abitualmente nasconde. Lo stupro è qui innanzitutto stupro della falsa compostezza ideale dell’immagine narcisistica, è uno squarcio del velo: noi non siamo fatti di sostanza eterea, non siamo destinati a sopravvivere in eterno: siamo fatti di carne erotica destinata a dissolversi.


http://spogli.blogspot.it/2013_09_25_archive.html

 
I PROF CHE CI FANNO INNAMORARE DELL’ARTE
di Giovanni Campana, Corrado Augias, repubblica.it, 25 settembre 2013 


Caro Augias,
nell’intervento di Recalcati di qualche giorno fa mi ha colpito l’immagine della sua insegnante Giulia che lo ha fatto innamorare della cultura. Ma la fabbrica delle “Giulie” non c’è, e gli insegnanti sono ottocentomila! Molti, però, i docenti che sentono alto il loro compito. Il loro orgoglio professionale è, nonostante tutto, la prima risorsa della scuola. Quanto alla tipologia del docente che “fa lo psicologo”, credendosi migliore dei colleghi perché si picca di entrare nell’intimo del ragazzo (come nel pessimo L’attimo fuggente ), essa è limitata. Altra cosa è avere conoscenze di psicologia. Quante biografie di bambini e ragazzi con disturbo di attenzione e iperattività sarebbero state diverse se docenti e dirigenti avessero saputo leggere i loro comportamenti non come semplice espressione di cattiva volontà! Così per tanti dislessici e per numerose altre condizioni particolari. Un conto è la vera pigrizia con cui il ragazzo amministra il proprio successo scolastico tirando al minimo; diversa è la sofferente svogliatezza di tipo reattivo, maturata nella biografia personale e familiare dell’alunno, che nasconde uno stato di profonda insicurezza personale. Guai all’insegnante che fa lo psicologo; resta il principio primum non nocere. Giovanni Campana, Modena – giovcampana@gmail.com

Il professor Campana si riferisce all’intervento dello psicoanalista (di scuola lacaniana) Massimo Recalcati da noi pubblicato il 20 settembre scorso. Vi si additava il pericolo del cosiddetto “insegnante-psicologo”, quello attento più ai sintomi di disagio dei suoi allievi che non al contenuto dei programmi. Volgarizzando, l’amore per il sapere sostituito dai doveri di una vice-mamma. Recalcati citava il gesto di Socrate narrato nel Simposio dove il maestro si svuota del sapere perché sia l’allievo a sentirsi trasportato verso il sapere. Aggiungo che lo stesso principio si trova nell’insegnamento tradizionale ebraico dove si arriva addirittura a contraddire Dio in persona per amore di sapere (e di discussione). Lo spiegano benissimo Amos Oz e sua figlia Fania nel loroGli ebrei e le parole appena pubblicato da Feltrinelli. Compito dell’insegnante, sintetizzava Recalcati con parole che sottoscrivo pienamente, “è generare amore, transfert erotico sul sapere, più che distribuire sapere (illusione cognitivista) o mettere tra parentesi il sapere occupandosi della vita privata degli allievi”. Questa utilissima discussione era cominciata il 3 settembre scorso con due interventi a firma di Vera Schiavazzi e Maria Pia Veladiano. Recalcati concludeva ricordando la sua insegnante Giulia che lo aveva “sedotto” al sapere. Ho avuto anch’io analoga fortuna. Il prof Duranti al liceo per primo mi rese consapevole dell’importanza non solo estetica della letteratura.
 
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/09/25/prof-che-ci-fanno-innamorare-dellarte.html?ref=search
 

VI SPIEGO IO IL SENSO DI GIOBBE PER IL SACRO
di Vera Schiavazzi, repubblica.it, 26 settembre 2013
 

Il senso del sacro, che è in se stesso buono e cattivo, amorevole e sanguinario, deve essere ritrovato anche dai cristiani, che sembrano averlo perso del tutto. È la strada che il filosofo, psicoanalista e commentatore di Repubblica Umberto Galimberti indicherà (oggi alle 18 al Teatro Carignano) nella prima delle quattro lezioni ispirate a Giobbe nel programma di Torino Spiritualità.
Galimberti, perché ripartire da Giobbe?
«Perché è il personaggio della Bibbia che meglio di altri ci permette di capire che cos’è davvero il sacro, quel sacro che oggi abbiamo dimenticato. Quando Giobbe si lamenta e chiede a Dio il perché di tutte le sue disgrazie, riceve in risposta la domanda “Dov’eri tu quando mettevo i pilastri della terra?”. E ci fa capire che Dio non si basa sul principio della ragione, al contrario si pone al di là e al di sopra del vero e del falso, del bene e del male».
Oggi questa idea trascendente del sacro esiste ancora in qualche religione?
«A conservarla sono principalmente gli ebrei e i musulmani, i cristiani se ne sono sempre più allontanati. Bisogna risalire alle origini, agli antichi che offrivano sacrifici per tenere lontana la presenza del sacro nella propria vita, perché quando gli Dei scendevano sulla terra le conseguenze erano disastrose, pensiamo a Dioniso che arriva nella città di Tebe. La tradizione ebraica non è da meno, Dio chiede a Abramo di sacrificare il figlio, contro ogni legge morale e di natura. Dio sta al di sopra, altrimenti la sua onnipotenza sarebbe limitata».
E in tempi più moderni?
«Alla dimensione del sacro appartengono le guerre, ma anche l’amore che, come dice bene Freud, “è un delirio che ha l’unico pregio di essere breve”. Ma intanto Dio, il cui stesso nome sarebbe impronunciabile benché si sia cominciato a chiamarlo Javé unendo tra loro le consonanti, per i cristiani si fa uomo, può dialogare con gli uomini, diventa padre misericordioso. Ma la dimensione della pietà e dell’ amore non è l’unica».
Perché questo sarebbe un pericolo?
«Perché il sacro ci abita, sotto forma di follia, ed esce ogni volta che allentiamo i freni, basta addormentarsi o ubriacarsi per rendersene conto. L’individuo da solo non può fare fronte a grandi dolori come il lutto, occorrono riti, canti, cerimonie, liturgie collettive. Dio non parla la lingua degli uomini, e lo spettacolo del sacro può essere anche terrificante, ma è necessario. Altrimenti ognuno si cura da sé, andando in farmacia e assumendo psicofarmaci. Occorre che la chiesa torni, in questo senso, a svolgere il proprio ruolo».
 
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/09/26/vi-spiego-io-il-senso-di-giobbe.html?ref=search
 

IL PADRE PERFETTO NON È UN PADRE ESEMPLARE” DALL’’ODISSEA’ ALLA ‘STRADA’ DI MCCARTHY, I MODELLI DI UN RUOLO DIFFICILE. L’esploratore dell’anima «Quante volte siamo stati come Giobbe, esposti al silenzio di Dio e orfani del capofamiglia?». «I migliori genitori letterari sono vulnerabili come Ulisse: è questo che li umanizza»

di Francesco Moscatelli, La Stampa, 28 settembre 2013
 
Massimo Recalcati, psicanalista lacaniano, docente di Psicopatologia del comportamento alimentare a Pavia e fondatore di Jonas – una Onlus che promuove la democratizzazione della psicanalisi – è uno di quegli accademici capaci di farsi capire da tutti. Look alla Jonathan Franzen, 53 anni, grande appassionato di letteratura americana, si occupa di nuovi sintomi (bulimia, anoressia, dipendenze, attacchi di panico) e, da quando i suoi saggi sul desiderio e sulla paternità hanno scalato le classifiche, è una presenza fissa a festival ed eventi culturali.
Professore, lei sabato (oggi, ndr) sarà a Torino spiritualità per parlare di Giobbe. Giobbe, l’uomo paziente della Bibbia, è stato una figura centrale nel­la letteratura novecentesca, da Jung a Joseph Roth, Bec­kett e Kafka. Partendo dalla sua riflessione sull’«evaporazione del padre», cosa testi­monia Giobbe all’uomo con­ temporaneo?
«Giobbe è l’icona della preghiera, dell’invocazione a Dio; è l’icona della non sufficienza dell’umano. Il problema è che se l’umano si costituisce sempre come un’invocazione rivolta all’Altro, come una preghiera, a partire dai primi vagiti con i quali viene al mondo, Dio resta inaccessibile e silenzioso. Di questo patisce Giobbe: della non risposta di Dio. È questo silenzio che lo sprofonda nell’abisso. Quante volte siamo stati Giobbe? Esposti al silenzio di Dio, orfani del padre. In effetti l’etimologia ebraica del termine Giobbe significa “Dov’è il padre?”».
Il suo discorso sulla paternità può essere sintetizzato nella frase: «Quel che resta del pa­dre è l’essere portatore del fuoco nella buia notte di un mondo senza Dio». Nei suoi li­bri cita come esempio il padre de La Strada di Cormac Mc Carthy, un uomo che nello scenario apocalittico in cui si svolge il romanzo trasmette comunque al figlio l’amore per la vita, un amore ancestra­ le, quasi biologico. Come si impara ad essere padri così?
«Il padre de La strada non è un padre esemplare. I migliori padri non sono padri ideali. La clinica psicoanalitica insegna che quando un padre si presenta ai suoi figli come l’incarnazione dell’ideale può generare sui suoi figli un effetto di oppressione che non favorisce affatto lo sviluppo della vita. Anzi. Quello che resta del padre, evaporata la sua potenza autoritaria garantita dalla forza della tradizione, è un padre che vive la propria vita con desiderio e che educa i propri figli non con la forza del provvedimento disciplinare o con il sermone morale ma con la potenza dell’atto, del dare corpo al proprio desiderio… Il padre de La stradadecide di continuare a vivere giorno dopo giorno in un universo disabitato da Dio… Resiste. Non viene meno alla sua responsabilità illimitata, ma non pretende di essere colui che ha l’ultima parola su tutto, sul senso del bene e del male, della vita e della morte».
Cosa ha letto questa estate?
«I fatti di Philip Roth che è un testo fondamentale per intendere il valore della scrittura e della poetica di Roth in generale. Ma è anche un grande libro sulla disperazione amorosa dove sesso e morte si miscelano in modo esplosivo. Roth ci pone di fronte non tanto all’estasi dell’amore ma a una vertigine e a un godimento mortale che sprofondano verso la distruzione reciproca. Poi ho letto per la prima volta Memorie di Adriano della Yourcenar: testo che restituisce una visione stoica della vita nei suoi affanni… La conquista e la difesa del potere, l’amore, l’ambizione, lo spettro della morte, l’eredità… Un altro libro che mi ha appassionato è stato L’adorazione, un saggio di Jean Luc Nancy sul cristianesimo… In estate cerco di evitare la lettura di testi psicoanalitici… È per respirare meglio…».
Quali libri consiglierebbe a un padre di oggi?
«L’Odissea, e poi quelli che cito nei miei ultimi lavori: oltre a La strada di McCarthy, Patrimonio di Philip Roth. Ma anche i film Million Dollar Baby e Gran Torino di Clint Eastwood. In tutti i padri protagonisti di queste opere, sebbene in modi diversi, incontriamo una vulnerabilità che li umanizza profondamente. Ulisse compreso: Ulisse nomade, mendicante, extracomunitario, Ulisse che per amore di sua moglie e di suo figlio rinuncia al sogno dell’immortalità».
Quale libro re­galerebbe a un figlio?
«Non esiste un figlio in senso universale. A volte i regali dei genitori contengono l’aspirazione inconscia di rendere il proprio figlio adeguato al nostro ideale di figlio. Un vero dono implica la messa in valore della particolarità dell’altro che lo riceve. Tenere conto di questa particolarità comporta fare doni diversi a seconda delle diverse attitudini dei miei figli. In realtà sono i figli che devono trovare i propri libri». 
Nel suo Il complesso di Telema­co suggerisce che dopo i figli Edipo ­ che conoscono il con­flitto con il padre e il trauma della Legge ­e i figli Narciso ­prigionieri di un mondo che sembra incapace di ospitare la differenza tra le generazioni, oggi è il momento dei figli Tele­maco, che come il figlio di Ulis­se attendono il ritorno del Pa­dre, ovvero «una testimonian­za di come si possa vivere con slancio e vitalità su questa ter­ra». Secondo lei i figli di oggi hanno consapevolezza di que­sta attesa, di questo bisogno?
«Non chiaramente. Ma è evidente che quello che manca oggi sono gli adulti. Sono loro che latitano, che anziché supportare i propri figli si comportano e vivono come dei figli smarriti. Quando però incontriamo la violenza, le pratiche distruttive, come l’uso della droga, o la riduzione del corpo a puro strumento di godimento, siamo di fronte ad una domanda muta… Questi figli sono dei Telemaco disperati. Domandano che ci sia un padre, ma lo fanno senza parole. Piuttosto con atti al limite del suicidio…».
In Patria senza padri, che ha scritto con Christian Raimo, si è occupato dei «padri» della poli­tica italiana. Che modello incarnano oggi Silvio Berlusconi, Beppe Grillo, Matteo Renzi ed Enrico Letta?
«Berlusconi e Grillo appartengono all’antipolitica. Sono a loro modo padri eversivi. Certamente sono diversi i fantasmi inconsci che li abitano: in Berlusconi è il fantasma della libertà che comporta il vivere l’esistenza della Legge come un impedimento… Dalla parte di Grillo troviamo un fantasma adolescenziale di purezza: i grillini sono i puri e tutti gli altri gli impuri. È il tipico manicheismo dell’adolescente. Con la conseguenza di una sterilità di fondo della loro azione politica incapace di mediare e con tutte le contraddizioni di fondo entro cui finisce ogni integralismo. Letta mi pare viva sotto il segno del sacrificio sino al rischio di incarnare un vero e proprio masochismo morale. In Renzi invece, se saprà far girare il vento nella direzione giusta, vedo un potenziale Telemaco. Il suo sforzo è diametralmente opposto a quello di Grillo e di Berlusconi: non si tratta di demolire la politica e le sue istituzioni ma di rianimarla, di ridarle lo slancio del desiderio. Il carisma di Renzi è legato allo slancio vitale,alla giovinezza, al desiderio, all’apertura di un nuovo orizzonte… Deve però liberarsi dell’ideologia della rottamazione se vuole davvero essere un figlio giusto. Non può volere la pelle dei padri. Lacan diceva che per liberarsi dei padri bisogna essere in grado di servirsene».

http://illuminations-edu.blogspot.it/2013/09/il-padre-perfetto-non-e-un-padre.html
 
 

IL COMPITO PIÙ DIFFICILE È CONDIVIDERE L’AMORE PER IL SAPERE. LA REPLICA ALL’ARTICOLO DI MASSIMO RECALCATI SUGLI INSEGNANTI
di Pier Aldo Rovatti, la Repubblica, 28 settembre 2013

Appena dopo aver letto l’articolo di Massimo Recalcati* sui problemi dell’insegnare oggi (Repubblica, venerdì 20 settembre) sono andato aPordenonelegge a parlare di scuola, anzi di “scuola impossibile”. L’occasione era fornita dalla presentazione di un fascicolo speciale della rivista aut aut,curato da Beatrice Bonato e recante esattamente questo titolo: La scuola impossibile. Un titolo dal sapore freudiano che però è possibile intendere in due modi, uno decisamente più nobile, appunto quello di Freud, e cioè che l’insegnamento non è un compito che si possa ridurre dentro regole prestabilite dato che è un compito incondizionato, incondizionabile e in tal senso “impossibile”; l’altro meno nobile e più terra terra, e cioè che oggi, in questa nostra scuola, in questa determinata società, insegnare è un’impresa fallimentare per una spaventevole quantità di motivi, materiali e culturali, che tutti insieme costituiscono i ben noti “guai” della scuola italiana. Una scuola che avrebbe bisogno di essere strutturalmente rianimata.
Eppure l’insegnamento resta l’obiettivo e perfino il desiderio principale di una parte consistente della giovane forza lavoro intellettuale: la destinazione che moltissimi vorrebbero raggiungere, se solo riuscissero a valicare le strettoie e le griglie concorsuali, una destinazione che darebbe loro un posto di lavoro in condizioni appunto difficili e per un salario alquanto avvilente. Che cosa sorregge questo loro desiderio di insegnare? Sono una massa di masochisti? Al contrario, sembra che essi apprezzino proprio il lato nobile dell’insegnamento e la sfida che gli appartiene. Forse rimarranno incrodati in parete, ma il rischio dell’impresa supera — nel suo potere di attrazione — il calcolo presumibile dei danni personali. A guardar bene, ci si accorge che ciò che attira è precisamente quella “impossibilità” del compito di insegnare che si lega con evidenza tanto al sapere quanto alla relazione con gli altri. Immagino che fin qui Recalcati sia pienamente d’accordo. Qualche differenza potrebbe nascere nel momento in cui andiamo a vedere cosa significano, oggi, per l’insegnante, il “sapere” e la “relazione”, perché essi non possano mai essere separati, come non si possa insegnare l’“amore per il sapere” senza mettere ogni volta in gioco il complicato rapporto tra insegnante e allievi (un rapporto che non è sufficiente impacchettare nella parola “seduzione”).
Quanto al sapere, certo la scuola deve essere un apprendistato, un’educazione che insegni ad apprezzarlo in quanto tale, tuttavia il sapere non è mai qualcosa di chiuso in se stesso: è sempre un tessuto storico e sociale connesso al potere, un gioco di verità che è anche, ogni volta, un regime di verità, e insomma il sapere non sta in alto e fuori, bensì in basso e dentro, nella concretezza delle pratiche reali. E, quanto alla relazione, è difficile negare che la scuola sia innanzi tutto una palestra di comunità e di socializzazione e che — nel caso contrario, cioè quando prevalgono altre istanze o si privilegiano altri obiettivi, per esempio l’apprendimento della disciplina — essa rischia di mancare clamorosamente al proprio mandato.
Per essere ancora più chiaro, vorrei sottolineare che l’amore per il sapere, per il fatto stesso di essere un “amore”, deve passare necessariamente per la relazione, cioè attraverso l’accomunamento e la socializzazione. Se ciò accade, si produce anche una trasformazione delle soggettività, una doppia trasformazione poiché riguarda al tempo stesso gli allievi e l’insegnante. Se l’insegnante non è toccato da tale processo la scuola gira a vuoto e costruisce una relazionalità bloccata e perfino negativa. So che Recalcati condivide la sostanza di queste riflessioni, volevo solo dare a esse una maggiore esplicitazione.
http://illuminations-edu.blogspot.it/2013/09/il-compito-piu-difficile-e-condividere.html
 
 
AUDIO – Massimo Recalcati a "Uomini e profeti", ospite di Gabriella Caramore nella trasmissione di Radio Rai Tre il 29 settembre 2013 
Clicca sul link qui sotto e poi su UOMINI E PROFETI QUESTIONI del 29/09/2013
http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/programmi/PublishingBlock-21e3c4a0-7f5a-440b-a32b-18135e27580f-podcast.html?refresh_ce
 
VIDEO – Massimo Recalcati a "Pane quotidiano", ospite di Concita de Gregorio nella trasmissione Pane quotidiano di Rai Tre, il 25 settembre 2013 
La crisi del ruolo del padre nella società contemporanea può proiettarsi sul concetto di patria? E può aiutarci a spiegare lo scarso senso dello Stato degli italiani? Concita De Gregorio ne discute in studio con Massimo Recalcati, psicanalista lacaniano.

 
 

Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com

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