VIA CASTELLANA BANDIERA, una recensione di Sarantis Thanopulos

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21 febbraio, 2014 - 23:40
Anno: 2013
Regista: Emma Dante
Emma Dante è una regista intensa e rigorosa: le sue messe in scena rispettano le unità di luogo, di tempo e di azione che hanno reso essenziale e incisivo il dispositivo drammatico della tragedia classica. Nel suo film "Via Castellana Bandiera" recupera lo strumento narrativo/scenico dell'"agone" e mette una contro l'altra una donna anziana, che torna dal cimitero dove ha fatto visita alla tomba della figlia, con una giovane, che si trova per fatalità a incarnare il fantasma della figlia tornata a vivere. Le due donne si fronteggiano nelle loro macchine nella stretta via di Palermo dalla quale prende il nome il film sbarrandosi reciprocamente la strada.
Testardamente nessuna indietreggia, il diritto di precedenza diventa per entrambe un dilemma tragico, dunque indecidibile: "Se passa lei sono morta, se passo io uccido ciò che di me si riflette necessariamente in lei".
Emma Dante trasporta il conflitto di precedenza tra Edipo e il padre nel rapporto tra figlia e madre. Il mito di Edipo si apre al mito di Elettra acquistando maggiore complessità. Il conflitto generazionale ha la sua origine nel legame incestuoso, autocratico che i bambini di entrambi i sessi (Elettra come Edipo) hanno con la madre.
Questo legame diventa presto la sede di un conflitto tra il desiderio che la madre ha proiettato sul proprio creato, durante la sua gestazione, e l'emergere della volontà del bambino come soggetto differenziato. Il conflitto resta inconsciamente attivo tutta la vita e ha una declinazione particolare per la figlia perché lo scontro con la madre è anche il luogo di un contatto corporeo intenso in cui la pelle diventa interiorità: la tela erotica di cui è fatta la donna, il velo che non è superficie ma condizione di profondità. Nel congiungersi di due esseri femminili, dove il perdersi e il ritrovarsi non si appoggiano sugli opposti ma sullo sfumare dei confini, il conflitto converge più che in una regolazione dei desideri (come accade tra madre e figlio) in una destrutturazione, scomposizione dell'ordine. Il padre, oggetto di desiderio esterno, è l'opposto che fa riapparire i confini, che attrae verso di sé una parte importante della tensione tra madre e figlia impedendo che la destrutturazione diventi lacerazione.
Nel film gli uomini non trovano meglio da fare che scommettere sulla donna che vincerà: figure inconsistenti hanno fatto del caso il loro modo indifferente di vivere. Prive della sponda maschile, le due donne si irrigidiscono nella contrapposizione ma l'atmosfera resta intensamente erotica: tra la madre che afferma il suo diritto di possesso sulla figlia, che ritrova caparbiamente viva, e la figlia che afferma la sua voglia di vivere per conto proprio. Ciò che, in assenza dell'uomo, il desiderio non sa risolvere lo affida al lutto: è la madre che ha la precedenza alla morte, non la figlia. Morendo l'anziana donna lascia la vita alla giovane: non è nella natura dell'amore che i figli muoiano prima dei genitori. Con questa morte la scena si apre verso l'esodo: la nostalgia diventa esilio, domanda di apertura alla vita.
Nello spiazzo finale dove gli abitanti del quartiere, uscendo dalla situazione claustrale, si riversano, per sparire poi alla vista, esplode la musica dei fratelli Enzo e Lorenzo Mancuso. Il dolore si scioglie nel canto e l'uomo riaffiora dal nulla: la sua voce diventa pulsazione erotica, prossimità alla ferita beante che si fa promessa di risanamento, speranza insieme lontana e vicina. Il corpo della donna che prende forma con il suono ci ricorda che la passione deve tutto al lutto.

 
 

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