GALASSIA FREUD
Materiali sulla psicoanalisi apparsi sui media
di Luca Ribolini

Febbraio 2014 III - Sofferenze, farmaci e relazioni familiari; arte, fotografia e fumetti

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25 febbraio, 2014 - 08:57
di Luca Ribolini

STRAGE IN FAMIGLIA. RISÈ: UN MODELLO CULTURALE

di Redazione, ilsussidiario.net, 15 febbraio 2014
 
Due figli, uno di 2 anni e una di 8, avuti in due matrimoni diversi e dunque con due donne diverse. Michele Graziano li prende tutti e due, d’accordo con le madri, e li porta nel suo appartamento, un appartamento da cui sta traslocando. Una volta lì, l’uomo prende un coltello da cucina e taglia la gola ai due piccoli, poi avverte il fratello di quello che è successo e tenta il suicidio. Sopravvive. Le prime ricostruzioni parlano di un uomo terrorizzato dall’idea di non riuscire a pagare gli alimenti per mantenere i figli (fa il cassiere all’Esselunga), si dice anche che la seconda separazione, avvenuta da poco, lo abbia spinto alla depressione davanti al secondo fallimento a livello matrimoniale. Claudio Risè, scrittore, giornalista, docente universitario e psicoterapeuta, parlando con ilsussidiario.net, sottolinea come eventi del genere si verifichino per la solitudine a cui oggi, nella società post moderna, sono lasciate le persone “in un contesto dove il modello culturale non aiuta più la persona a sviluppare la consapevolezza dell’autentico significato di matrimonio e di paternità”. “Tragedie” dice ancora “che si compiono anche come conseguenza di queste nuove norme educative che addirittura cancellano la specificità dell’unione uomo e donna”.
Quale la sua prima impressione davanti a questo caso?
Il tragico gesto di questo padre appare come una manifestazione particolarmente evidente ed eclatante della debolezza del soggetto umano nella società post industriale e post moderna, soggetto che grida la sua disperazione proprio sul terreno della responsabilità più delicata e più grande a cui si sente di mancare, che è appunto quella verso i figli che ha generato. Di tutte le responsabilità che una persona può avere – dal pagare l’affitto o i debiti nei confronti di altri – certo quella più sconvolgente e impegnativa è quella verso i figli.
Infatti, Michele Graziano avrebbe ammesso la sua paura di non riuscire a mantenere i figli dopo le due separazioni.
Questa responsabilità, che è sempre impegnativa, viene sentita come particolarmente grave proprio dopo la separazione dal coniuge. Il fallimento del matrimonio – e in questo caso si tratta di ben due matrimoni – lascia la persona sconcertata perché il nostro modello culturale non aiuta più a sviluppare la consapevolezza dell’unione e quindi a prepararsi a questo fatto grande, quale è per l’appunto l’unione fra un uomo e un donna e la generazione dei figli.
C’è banalità, superficialità nel vivere tutto questo?
Spesso il matrimonio, l’unione tra un uomo e una donna avviene in modo automatico, in parte come soddisfazione di pulsioni e in parte anche dimostrazione verso l’esterno, cioè dimostrare agli altri di avere una donna o un uomo. Ma il tutto vissuto senza maturità, perché il modello culturale odierno non aiuta a sviluppare una personalità capace realmente di riconoscere e vivere la grandezza dell’unione tra un uomo e una donna e della creazione di una famiglia.
Quindi cosa scatta in casi come questo?
In questo quadro d’immaturità sociale e culturale, il fallimento dell’unione e il peso della responsabilità dei figli lasciano la persona del tutto sconcertata e inerme, portando fino a queste reazioni, infantili da una parte e paurosamente distruttive dall’altra, come in questo caso specifico.
Quando parla di modello culturale attuale, intende un modello che non dà le ragioni, non approfondisce il valore dell’unione e della procreazione?
Assolutamente. Quando parlo di modello culturale attuale intendo proprio l’insieme di informazioni e di comunicazioni che i media forniscono in queste occasioni. Poi c’è l’aggravante dell’educazione moderna, che ha introdotte queste tragiche nuove norme che addirittura cancellano la specificità dell’unione uomo -donna. Le persone si trovano in una situazione di assoluta confusione, sia di informazione che di non formazione, proprio riguardo a questi fondamentali eventi della vita e della relazione.
Pensa che nel caso in questione abbia giocato anche una concezione possessiva dei figli, nel senso di dire “io li ho creati e io li distruggo”?
Un prolungamento di sé – “il possesso” che suggerisce lei – è una formazione psichica molto confusa, molto arcaica, dove non c’è differenziazione tra soggetto e oggetto di amore separato da te. In questo caso c’è senz’altro anche questa componente di possesso, ma non è l’unica.
In conclusione, casi come questi provano il disfacimento della famiglia, dei valori fondanti che la regolano?
Dimostrano di fronte a questi fatti costitutivi della vita che sono l’unione, il matrimonio e la procreazione, l’individuo si trova assolutamente solo, sempre più abbandonato e confuso. Soprattutto oggi, grazie alle ultime, sciagurate disposizioni sull’educazione.
 
http://www.ilsussidiario.net/News/Cronaca/2014/2/15/STRAGE-IN-FAMIGLIA-Rise-un-modello-culturale-con-papa-soli-e-confusi/2/466840/
 
 
IL PADRE DOV’ERA. INTERVISTA ALLO PSICANALISTA GIANCARLO RICCI. Lo psicanalista Giancarlo Ricci spiega che l’assenza di limiti posti dal maschio  «ha snaturato la madre e i figli che non sanno più la via per essere felici»
di Benedetta Frigerio, tempi.it, 16 febbraio 2014
 
Il  33 per cento dei giovani italiani, tra i 18 ai 30 anni, rispondendo alle domande  del questionario dell’Istituto Toniolo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore  ha risposto che il loro punto di riferimento primario è la madre. La ricerca,  presentata in occasione del XIII Congresso della Cei per la pastorale giovanile,  mette al secondo posto i ragazzi che si affidano agli amici (26 per cento), al  terzo quelli che confidano nei partner (14). Mentre solo il 9 per cento pensa  che la figura di riferimento sia il padre. Per lo psicanalista Giancarlo Ricci,  autore del libro Il padre dov’era, lo spaccato che emerge è «più  allarmante di quanto sembri: oggi la figura del padre è venuta meno e di  conseguenza anche quella della madre e del figlio. Senza padri che siano tali, i  figli non imparano la strada per raggiungere il massimo a cui ogni essere umano  aspira. Non a caso, siamo pieni di giovani stanchi che si accontentano di  soddisfare compulsivamente voglie parziali». Con un esito terribile: «Il  godimento senza limiti ci porta alla morte».
Ricci, da dove nasce questo attaccamento prevalente alla  madre?
Dall’imbroglio del femminismo: per sfuggire ai famosi padri  padroni, anziché cercare il vero volto del padre, lo si è cancellato. Nella  nostra epoca si assiste infatti a un indebolimento crescente della figura  paterna. Non è un assenza solo fisica, ma della natura maschile svilita e quindi  incapace di porre dei limiti, innanzitutto al rapporto tra il figlio e la madre  altrimenti simbiotico: questa la funzione normativa necessaria nella struttura  di sviluppo edipica del bambino. Per descrivere cosa intendo uso la figura  sapienziale dell’Eden in cui Dio, padre buono, dice ai suoi figli: «Potete  mangiare tutti i frutti tranne uno». Non perché quell’albero abbia le mele più  buone ma perché se la creatura cerca di farsi creatore, se non dipende da ciò  per cui è fatta, si snatura e si fa del male. Allo stesso modo senza limiti  paterni che vietino la simbiosi, il rapporto madre e figlio diventa incestuso.  Il bambino sarà dipendente da lei e, ricattato, sarà incapace di allontanarsi da  chi lo ha cresciuto per riempire il suo vuoto. Un figlio così crescerà incapace  di amare un’altra donna. Ecco l’omosessualità dilagante. Pasolini in una poesia  intitolata “Supplica a mia madre” scrisse: «Per questo devo dirti ciò ch’è  orrendo conoscere:/è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia./ Sei  insostituibile. Per questo è dannata/ alla solitudine la vita che mi hai dato./  E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame/d’amore, dell’amore di corpi senza  anima».
Questa assenza di limiti quali conseguenze patologiche  genera?
Il godimento mortifero compulsivo, come la dipendenza dalla  droga, dal cibo, dal sesso e dalla pornografia. Se nella vita psichica oltre al  piacere non si accetta il dispiacere, la frustrazione e l’attesa si cerca di  soddisfare tutto subito. Ma, siccome non è possibile appagare il desiderio umano  in un istante, si finisce per accontentarsi di qualcosa che non basta. Si pensi  alla pornografia. È facilissimo trovare giovani depressi e demotivati che  cercano una soluzione immediata nella pornografia. Mi dicono: «Qualsiasi  fantasia mi venga la inseguo: mi metto in chat e il mio desiderio si realizza  subito, ma poi mi sento a terra e vorrei sprofondare in un abisso». Evitano il  rapporto più faticoso, ma veramente appagante, con una donna reale. Ma i danni  sono anche civili: dalla riduzione del desiderio sessuale ai soli atti sessuali  dipende anche la mancanza di bellezza e creatività che si riscontrano nella  nostra società. Non sappiamo più costruire cattedrali, comporre musica,  dipingere opere d’arte perché non sublimiamo più la sessualità con ogni  attività.
Cosa pensa di quello che potrebbe accadere se fosse legalizzata  l’adozione da parte di coppie dello steso sesso?
L’assenza del padre  che guarda al figlio come maschio capace di guidare e proteggere e della madre  che guarda la figlia come femmina capace di accogliere, toglie al bambino la  possibilità di avere un’identità precisa e limitata. Ecco perché abbiamo gente  sempre più fragile, con poco amor proprio, con una bassa stima di sé, incapace  di accettare rimproveri, fatiche e quindi di ottenere risultati appaganti. I  sentimenti amorevoli non bastano a crescere figli sani.
Sostituire il padre e la madre con l’espressione “genitore 1” e “genitore 2” che conseguenze  comporta? Il padre come simbolo di tradizione, autorità e  discendenza è sempre stato centrale nella nostra civiltà. Noi portiamo il nome  del padre a fianco del nostro. Il diritto romano, perno dell’edificio della  grande civiltà europea, è tutto incentrato sulla figura paterna. Ecco perché le  nuove ideologie nate dal rifiuto dal padre, come quella femminista e quella del  gender che da essa discende, cercano di smantellare il diritto romano. La  conseguenza è la dittatura del desiderio senza limiti e dagli effetti mortiferi  che sono sotto gli occhi di tutti.
Abbiamo  parlato di una madre che vuole possedere il figlio. Ma è questa la vera  madre?
Senza veri padri non esistono madri vere e quindi neppure  figli veri. Anche per la donna sono guai senza un terzo: allontanando l’uomo  maschio, non solo fisicamente ma simbolicamente, rimane sola e quindi cerca un  sostituto in altro, nei figli. Sono molte le mamme che li mettono al mondo come  oggetti utili a colmare le proprie mancanze. È qui che si rivela l’inganno del  femminismo. La madre non è più colei che, amando il padre, accoglie il figlio  per poi separarsene e lasciarlo vivere, ma è una madre divorante. Come si vede  in tante separazioni, in cui le mogli tengono i figli stretti a sé come oggetti  e li mettono contro i loro padri.
I figli come oggetti. Complice il consumismo? Il  consumismo è una conseguenza della perdita del padre, del senso, della meta e  quindi della strada per raggiungerla: l’unico scopo rimane quello di soddisfare  le piccole voglie di cui dicevo prima. Ecco, ad esempio, il surrogato della  fecondazione assistita con cui una donna fa i figli per sé anche senza l’uomo. Il problema è che  questo rapporto di simbiosi incestuosa e di possesso oltre alla diffusione  dell’omosessualità, genera anche la pedofilia: un rapporto d’amore morboso con  il bambino che non implica per forza il sesso, di cui quello sessuale non è  l’unica forma.
Lei sostiene che, oltre che di attenzione, il figlio ha bisogno di  crescere con una madre e un padre che si sostengono. Può spiegare  perché?
Sono tante le persone in terapia che soffrono perché non vedono una figura maschile e una femminile diversi e complici. Questo è triste  perché l’uomo e la donna sono fatti per completarsi. Non c’è nulla da fare: la  donna è felice se accoglie, se ama, l’uomo se protegge e guida ponendo i limiti.  Solo con una madre e un padre che accettano e amano ciò che sono il figlio può essere sereno e, guardandoli, imparerà a fare al altrettanto. Ecco perché l’educazione gender ora nelle scuole, che  insegna ai bambini l’indifferenza fra sessi, li condannerà all’infelicita e al  dolore. Negandogli di conoscere e accedere alla via per realizzarsi.
 
http://www.tempi.it/il-padre-dove-era-intervista-allo-psicanalista-giancarlo-ricci#.UwEIrMFd7IU
 

IL RIVOLUZIONARIO MANET

di Giancarlo Bosetti, la Repubblica, 17 febbraio 2014
 
Esce postuma la ricerca di Pierre Bourdieu, il grande sociologo francese scomparso nel 2002, su Édouard Manet (1832-1883): è un esempio di “socioanalisi” della traiettoria di un pittore rivoluzionario nella Parigi di metà Ottocento. La raccolta delle fonti è sterminata e riguarda tutto: le critiche d’arte e le alleanze di Manet contro e con i critici, la competizione con Courbet e il realismo, l’attacco all’art pompier e all’accademia, i suoi distinguo dagli impressionisti e il suo “fare scandalo” per conto proprio. Ma l’analisi di Bourdieu riguarda anche il “capitale” dell’artista e il suo habitus. Manet è un figlio dell’élite parigina, è un erede che rifiuta l’eredità del padre magistrato, ma la tesaurizza per trasferirla in un altro spazio di valori. La sua fu vera, vincente, rivolta, contro il Salon, l’istituzione statale da cui fu inizialmente rifiutato, al Louvre, ma si impose poi nel nuovo corso che cambiò per sempre il Salon.
Come fu possibile? Ci voleva più che il genio di un pittore.
Ora i corsi tenuti da Bourdieu tra il ’98 e il 2000 al Collège de France sono finalmente a disposizione nelle quasi 800 pagine (Manet. Une révolution symbolique, Seuil) curate dal gruppo di Raison d’agir, fatte di trascrizioni vivaci, appunti e anche di un lungo manoscritto inedito. Bourdieu era enormemente attratto dalla svolta pittorica provocata dall’autore del Déjeuner sur l’herbe, come lo era stato dalla svolta letteraria di Gustave Flaubert. Per Bourdieu questi due grandi autori erano gli esempi più limpidi di una “rivoluzione simbolica” capace di generare (o rovesciare) un “campo”, parola chiave del lessico bourdieusano. Il “campo” non designa solo l’area disciplinare in cui gli individui operano, esso è il terreno delle battaglie in cui si stabiliscono le gerarchie interne a una disciplina, a un ambiente culturale, a una professione, l’arena in cui si decide che cosa è rilevante e che cosa no. E il padre e la madre di tutti i “campi” è secondo Bourdieu, fin dalle origini, quello della religione, costituitosi nella competizione tra sciamani e profeti in lotta tra loro, per l’affermazione del primato nel potere simbolico, per decidere che cosa è ortodossia e che cosa eresia. Nelle battaglie culturali la somiglianza con la religione è molto più di una analogia. Chi vince è “consacrato” nei musei, anche se ha cominciato come “eretico” e ha battuto gli “integrati dominanti”, chi perde è fuori, resta un “marginale escluso”.
Niente è più come prima, dopo Manet. Se oggi ammiriamo il Déjeuner o il Bar aux Folies Bergères, più dei ritratti di Fantin-Latour o delle curatissime scene mitologiche di Bouguereau non è semplicemente perché Manet “è più bravo” di loro, ma perché ha trionfato nella sua arena, ha sconvolto la scena che ha trovato e ha costruito ex novo il “campo”. Se oggi i quadri che scuotevano Parigi nel 1862, al Salon alternativo dei “rifiutati”, sono diventati “banali” fino ad essere riprodotti sulla carta delle pasticcerie, le pagine di Bourdieu fanno il percorso inverso e “debanalizzano” la rivoluzione di cui anche il nostro sguardo di oggi è il prodotto. E ricostruiscono le incertezze e la violenza della lotta di allora.
Quando nel 1863 esce il Déjeuner (l’opera più commentata nella storia della pittura dopo la Gioconda), le reazioni sono di violenza inaudita: Manet sfida regole considerate auto-evidenti, rompe un ordine simbolico, dedica un quadro di grandi dimensioni, adatte a fatti solenni o religiosi, a un soggetto di “genere”, volgare: donne nude, ragazze di bassa condizione, amore mercenario (come anche nella successiva Olympia), accanto a studenti borghesi vestiti. Un cumulo di incongruenze: ambientazione pastorale per una scena salace; mancanza di prospettiva; le figure sembrano incollate; il personaggio sulla destra sembra parla-re, ma nessuno lo ascolta; non c’è – dicevano i critici – un senso, una “gerarchia morale”.
E invece il tema c’era: era la sfida all’accademia. Era una “pittura sulla pittura”. Nell’insieme appare come un sacrilegio e Bourdieu legge in parallelo le critiche a Manet e quelle che si scatenarono, tra i cattolici conservatori, contro la riforma del catechismo e l’abolizione del latino. Stessa indignazione. Manet subì l’attacco feroce del “populismo estetico” – forma perenne di conservatorismo – che si scatenò contro di lui come cinquant’anni fa in Italia i cinegiornali e le riviste popolari deridevano l’arte astratta, Picasso, Fontana, Manzoni. L’opera di Manet sfida l’arte “consacrata” non solo per la gioia di provocarla, ma perché vuole a sua volta consacrarsi.
Ha potuto vincere anche grazie all’accumulazione del “capitale” sociale necessario per l’impresa: Manet era il migliore della scuola d’arte di Thomas Couture, l’equivalente delle Grandes Écoles; frequenta l’elitario Collège Rollin dove conosce il suo futuro biografo Antonin Proust; entra nei salotti dove stringe rapporti con Nadar, Baudelaire, Monet (con cui detestava essere confuso), Gambetta, Delacroix, Théophile Gautier; conosce Berthe Morisot, pittrice, sua modella e poi moglie del fratello Eugène, e con lei trova un altro salotto fondamentale, dove passa il resto della Parigi che conta; si allea con l’influente Zola, che lo aiuterà a produrre una svolta tra i pesi massimi della critica: Thoré e Castagnary. Quell’accumulo di “capitale” gli ha dato la capacità di “mantenere la distanza dal ruolo”, e di “tenere” (anche se non funziona mai, nota Bourdieu, senza vere sofferenze anche nei grandi e anche nel successo).
Si sa che Bourdieu si auto analizzava per evitare di cadere nell’illusione biografica: «Manet c’est moi?» come per Flaubert Madame Bovary. Rischio sempre in agguato per tutti gli autori. Certo è difficile confondere due traiettorie così diverse: quella del sociologo di umili origini, figlio di un impiegato postale dei Pirenei, poi “consacrato” al Collège de France, e quella di un dandy che esce dalla noblesse d’état (guardare per capire il ritratto che gli fece Fantin-Latour) e che riesce a unire i due poli sociali dei ricchi banchieri e dei poveri bohémien con il suo habitus divaricato, clivé, capace di imporre il suo carisma nell’elegante Cafè Tortoni, nelle brasserie dei pittori squattrinati e al Louvre. Ma certo le sofferenze e i “rimossi” sociali mettono in gioco tutti, a tutte le latitudini della mappa, non meno di quelli edipici di cui si è occupato Freud.

http://www.zeroviolenzadonne.it/index.php?option=com_rassegna&Itemid=206
 


DORA MAAR, ARTISTA, MALGRADO PICASSO: UNA MOSTRA IMPERDIBILE. Dora Maar Nonostante Picasso a Palazzo Fortuny, Venezia dall’8 marzo al 14 luglio 2014. Una mostra dalla data di inizio non casuale…
di Redazione, daringtodo.com, 19 febbraio 2014
 
La musa dark di Picasso, la donna nella quale il genio di Malaga vide “tutto il dolore del mondo”, la bellissima, sensuale, distaccata, tenebrosa Dora Maar era un’artista, nonostante Picasso, ci ricorda efficacemente il titolo della mostra di primavera a Palazzo Fortuny. La sua figura è indivisibile da quella del pittore, tanto forte e totalizzante fu il legame, ma la personalità della donna che aderì al surrealismo, che frequentava gli intellettuali più brillanti di Francia, che godeva di stima e reputazione di ottima fotografa, rimane ingiustamente oscurata dall’esplosività del genio di Picasso. Eppure il loro fu un incontro di menti, e nel loro sodalizio il ruolo di Dora non è semplicemente quello della modella, ma di una complice – anche politica – appassionata, profondamente impegnata a trasmettere messaggi universali.
 
Ma si può trascurare la leggenda? E’ l’inverno del 1935 quando Pablo e Dora danno vita ad un relazione che li accompagnerà per poco meno di 10 anni. Lui era già famosissimo e la sua vita personale era in fermento: aveva rotto con la moglie Olga Koklova, ballerina con il Ballet Russes, e Marie-Thérèse Walter, sua amante dal 1927, aveva dato alla luce la loro figlia, Maya. Artisticamente era abbastanza in crisi, si sentiva incapace di dipingere e dedicava molte energie alla poesia.  Lei era una fotografa acclamata di moda e pubblicità, pratica commerciale cui affiancava il piacere di sperimentare, con successo, un innovativo linguaggio surrealista. Amava cogliere la vita degli ultimi negli scatti di strada, lasciarsi incuriosire dalla città, ma pure dare vita a quelle sperimentazioni tecniche capaci di dare nuovo senso al linguaggio fotografico tra montaggi e tagli. Dora e Pablo avevano molti amici in comune tra i circoli intellettuali di Parigi: Man Ray, André Breton, Paul Eluard. Era inevitabile che le loro strade finissero per incrociarsi, anche se resta nella leggenda (ed è controversa) la storia del loro primo incontro. Al café Les Deux Magots, noto “covo” di surrealisti, seduto ad un tavolino c’è Picasso che conversa con un amico sin quando viene distratto da quella donna solitaria immersa in uno strano rituale. Con un temperino cerca di centrare gli spazi tra le dita lasciandolo correre sulla tavola di legno. A volte il coltello prende le dita e una goccia di sangue s’insinua tra le rose ricamate sui suoi guanti neri. Picasso la trova irresistibile, si racconta che le chieda i guanti come ricordo del loro incontro.
È l’inizio di un complesso rapporto personale e artistico che attraverserà l’intenso periodo storico dallo scoppio della guerra civile spagnola alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Gli amanti condividono la passione politica e soprattutto, poco dopo il loro primo incontro, iniziano una collaborazione artistica. Dora fotografa Picasso nel suo studio in Rue d’Astorg, 29. Documenti importanti che misteriosamente lei sviluppa ma non stampa, quasi come se la natura eterea dei negativi avesse catturato l’anima dell’uomo che amava. Anche lui si lascia coinvolgere dalle sperimentazioni fotografiche, e sprona (anche troppo) Dora alla pittura; poi arriva la creazione di Guernica, e mentre Pablo lavora, lei registra passo dopo passo la creazione, in una sorta di documentario per scatti che diventa un’opera dell’opera. Nel lavoro di lei rivive l’intensità e la passione di Picasso al lavoro regalandoci la prima registrazione completa di un’opera d’arte moderna in divenire. La documentazione di Dora ci mostra le molteplici trasformazioni in corso d’opera, ci regala scorci sul funzionamento del genio artistico di Picasso (come compone, aggiunge, esperimenta, elimina) e dimostra ancora una volta la sua abilità di fotografa, registrando discretamente la passione e l’energia di Picasso al lavoro, le sfide fisiche di un lavoro su scala monumentale e la potenza emotiva della pittura nella sua materializzazione.
L’influenza di Dora s’inserisce nel capolavoro di Guernica anche in un altro modo. La sua presenza nella monumentale pittura è nel volto della donna recante la lampada. Dora è la donna che piange e che ritroviamo altre volte nel Picasso di quegli anni (foto testa). Immagini strazianti che riassumono l’intensa sofferenza delle vittime della guerra attraverso la raffigurazione di una donna colta da un pianto disperato, immagine interpretata come una traduzione moderna del dolore di Maria che piange il figlio morto, Gesù. Nel 1943, Francoise Gilot, una splendida donna 40 anni più giovane di Picasso, entra nella sua vita e più tardi diventerà la sua compagna. Per Dora è una scoperta straziante, un dolore mortale al quale sopravvive solo grazie alle cure dello psicoanalista Jacques Lacan e al ritorno alla religione. Fino al ’46 continuerà a vedere Péicasso, ma la storia è ormai finita. Dora Maar muore a Parigi nel 1997. Intatto resta il fascino misterioso sulla sua vita e le sue opere.
(Informazioni mostra: www.visitmuve.it)  (a.d)

Per visualizzare le immagini dell'articolo: 
http://www.daringtodo.com/lang/it/2014/02/19/dora-maar-artista-malgrado-picasso-una-mostra-imperdibile/
 
 
QUEL RIFIUTO DEI NOSTRI LIMITI CHE CI TRASFORMA IN SCHIAVI
di Massimo Recalcati, la Repubblica, 20 febbraio 2014

La natura tradizionale del farmaco è quella di essere un rimedio. Dove la vita manifesta un disfunzionamento (nel corpo come nel pensiero) la promessa del farmaco è quella di ripristinare il livello normale di efficienza guastato dall’irruzione della malattia. Nel nostro tempo, all’estensione inflattiva di questa promessa che tende sempre più a medicalizzare la vita (i rimedi si sono moltiplicati grazie ai progressi della medicina, ma anche agli interessi dell’industria farmaceutica), dobbiamo aggiungere qualcosa di inedito: una versione del farmaco non più come rimedio ma come potenziamento della vita.
Se la versione tradizionale, ippocratica, del farmaco-rimedio rimane nel solco classico della filosofia della medicina poiché il farmaco dovrebbe curare la causa della malattia che il paziente percepisce nella sofferenza sintomatica, questa nuova versione del farmaco come potenziamento scavalca decisamente quella filosofia. Non si tratta più di curare la malattia che ci affligge, ma di offrire alla vita l’illusione di una sua espansione e di un suo rafforzamento artificiale. La cura lascia qui il posto ad un doping indotto che esalta le funzioni del corpo e del pensiero: dal Viagra all’uso degli psicostimolanti, dal testosterone all’abuso di antidolorifici, l’industria del farmaco offre sul mercato provvedimenti chimici che hanno come obbiettivo l’enfatizzazione delle risorse dell’organismo più che la cura tradizionale delle sue malattie. Al fondo di questo cambiamento di paradigma troviamo un mito ideologico del nostro tempo: l’esaltazione di quello che già Marcuse alla fine degli anni Cinquanta in Eros e Civiltà battezzava come principio di prestazione.
Di cosa si tratta? Di una forma inedita di sfruttamento. Non solo quello dell’uomo sull’uomo analizzato da Marx, ma quello che impone ad ogni uomo di vincere su se stesso, di imporsi su se stesso come macchina efficiente, capace di prestazioni senza difetto. Un falso ideale di grande salute sembra così inondare la nostra vita. Rifiuto del senso del limite, esorcismo dell’irreversibilità del tempo, cancellazione di ogni forma di mancanza, autoaffermazione di se stessi.
Questo ideale performativo accompagna il valore ideologico attribuito dal nostro tempo alla crescita economica, all’espansione illimitata dei mercati, alla rincorsa folle del profitto. Nel suo ultimo film titolato The Wolf of Wall Street, Martin Scorsese offre un ritratto preciso e sconcertante di questo mito mostrando la sua tendenza a collassare su se stesso. L’ideale cinico del potenziamento del proprio Ego viene perseguito in una modalità predatoria e perennemente insoddisfatta.
Il consumo compulsivo di sostanze chimiche di ogni genere sembra coltivare una efficienza della macchina-uomo ridotta ad una macchina di godimento acefala. Come presi in una corsa impazzita verso una meta che non esiste, i personaggi di questo film offrono la rappresentazione di una volontà di potenza ormai priva di ogni senso di responsabilità che non può non evocare il Pasolini di Salò o le 120 giornate di Sodoma.
La versione ascetica del capitalismo weberiano che costruisce il suo successo sulla rinuncia al godimento immediato, sull’ideale del lavoro come “freno dell’appetito”, lascia il posto ad un capitalismo che odia ogni forma di rinuncia e che consuma se stesso manifestandosi come una pura volontà di godimento.
È in questa spirale mortifera dobbiamo inserire le nuove illusioni dei farmaci finalizzati a potenziare il principio di prestazione. Si tratta di una nuova forma di schiavitù: la vita viene sottoposta ad un doping permanente che s’intreccia con l’esibizione di una avidità pulsionale totalmente sregolata. Risultato: la caduta di ogni dimensione solidale dell’esistenza, il cinismo narcisistico, la vacuità, la sconfitta dell’amore, la distruzione della vita.

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2014/02/20/quel-rifiuto-dei-nostri-limiti-che-ci.html?ref=search

FRANCIA, È MORTA GINETTE RAIMBAULT, L’«ANGELO» DEI BAMBINI MALATI. La psicoanalista e scrittrice francese aveva 89 anni ed era malata di Alzheimer. Aiutava i più piccoli nel cammino verso la morte
di Redazione, corriere.it, 20 febbraio 2014

Ginette Raimbault La psicoanalista e scrittrice francese Ginette Raimbault, celebre specialista delle malattie psicologiche dei bambini, è morta a Parigi all’età di 89 anni. Durante più di vent’anni di ricerca all’Hopital des Enfants Malades di Parigi, diretto dal professore Pierre Royer, Ginette Raimbault si è occupata nella sua esperienza clinica di bambini condannati a morire o curati per malattie incurabili o di lunga durata, diventando così quasi un «angelo» per quei bimbi destinati a non sopravvivere e un grande supporto per i genitori che sopravvivevano ai propri figli. I LIBRI – Da tempo Ginette Raimbault era malata di Alzheimer, precisa il quotidiano Le Monde che ha dato   l’annuncio della scomparsa. Tra i suoi libri tradotti in italiano figurano Pediatri e psicoanalisti: esperienze cliniche (Boringhieri 1976), Il bambino e la morte (La Nuova Italia 1978) e Le indomabili: figure dell’anoressia (Leonardo 1989).  Nata ad Algeri il 28 aprile 1924, Raimbault era allieva di Jenny Aubry e fu segnata dall’insegnamento dello psicoanalista inglese Michael Balint, di cui ha introdotto il metodo in Francia. Era membro della lacaniana Ecole Freudienne di Parigi (1964-1980) e ha diretto l’Institut National des Sciences et de la Recherche Medicale della capitale francese.

http://www.corriere.it/salute/pediatria/14_febbraio_20/francia-morta-ginette-raimbault-l-angelo-bambini-malati-4d67e076-9a33-11e3-b6d7-4032582c678b.shtml
 


PARTE CORSO “LA SOFFERENZA PSICHICA E DISAGIO SOCIALE”
di Redazione, superabile.it, 21 febbraio 2014
 
Il ministero della Salute, l’Ordine dei Medici di Roma e la Società Psicoanalitica Italiana hanno organizzato il corso di aggiornamento ‘La sofferenza psichica e l’attuale disagio sociale: lo sguardo della psicoanalisi’
Il ministero della Salute, l’Ordine dei Medici di Roma e la Società Psicoanalitica Italiana hanno organizzato il corso di aggiornamento ‘La sofferenza psichica e l’attuale disagio sociale: lo sguardo della psicoanalisi’, che si terrà dal 7 marzo al 16 maggio 2014 dalle ore 14 alle 19, presso l’Auditorium del ministero della Salute in Viale Giorgio Ribotta 5, Roma. L’obiettivo è l’approfondimento della tematica della prevenzione del disagio psichico nei luoghi di vita e di lavoro e sulla diffusione e promozione dell’educazione alla salute mentale, attraverso strumenti idonei a promuovere la conoscenza più ampia possibile, per tutti i professionisti medici coinvolti e l’individuazione precoce, dei fattori di rischio per il disagio psichico e mentale. L’efficace contrasto alla problematica del disagio psichico necessita di interventi formativi finalizzati all’acquisizione di specifiche competenze sia per la tempestiva interpretazione dei segnali del disturbo, sia per la comprensione delle dinamiche psicologiche che sottendono alle patologie mentali, sia per la cura appropriata delle stesse. Il percorso formativo è rivolto a tutte le discipline professionali sanitarie, e prevede il coinvolgimento attivo sia dei medici di medicina generale (gate keeper sul territorio e primo punto di riferimento per una precoce identificazione dei possibili segnali di allarme) che degli specialisti di riferimento. L’iscrizione al Corso è gratuita. Le iscrizioni al Corso potranno essere effettuate sul sito dell’Ordine – sezione Corsi ECM o personalmente previa presentazione del tesserino o di un documento di identificazione presso l’Ufficio Segreteria Medici dell’Ordine.
 
http://www.superabile.it/web/it/CANALI_TEMATICI/Salute_e_Ricerca/Eventi/info1338037611.html
 
FUMETTI. BATMAN O SUPERMAN SCEGLI UN SUPEREROE PER GUARIRE DALLE PAURE. È la nuova tendenza della psicoterapia Usa. Attribuirsi poteri straordinari fa vincere l’ansia
di Elisa Manisco, la Repubblica, 21 febbraio 2014

Sdraiarsi sul lettino e invece di parlare, leggere un fumetto di Batman, Superman o l’Uomo Ragno. Succede negli Stati Uniti e da un po’ anche in Italia. Sono sempre di più infatti gli psicoterapeuti convinti che la cultura pop, e in particolare i fumetti, possano aiutare i pazienti ad affrontare e vincere ansie e paure di tutti i giorni. Proprio come un supereroe.
Ne è convinto il Dr. Patrick O’Connor, psicologo americano che ha avuto l’idea della “superhero therapy” nel 2010, quando lavorava in una casa famiglia di Chicago. «Amo i fumetti da sempre», racconta. «E lavorando con bambini e ragazzi in affidamento mi è venuto subito in mente il rapporto tra Bruce Wayne e Dick Grayson, ovvero Batman e Robin. Quest’ultimo viene affidato a Wayne dopo la morte dei suoi genitori, per cui ho pensato che i miei piccoli assistiti avrebbero potuto identificarsi con lui». A quel punto O’Connor ha cominciato a far leggere ai suoi pazienti albi DC e Marvel nelle sedute. Non solo, ad alcuni ha anche chiesto di inventare un personaggio e immaginare di avere dei superpoteri con cui reagire alle sfide quotidiane. Il risultato è stato esaltante: «I pazienti esprimevano le proprie emozioni come non avevano mai fatto prima».
Nulla di strano, in fondo i teorici del fumetto vedono da anni i supereroi come una versione moderna e pop degli archetipi junghiani, in grado di mettere in luce valori e forze primarie, come il bene e il male. «Vedersi come un supereroe aiuta a prendere coscienza di se stessi», conferma Elisa Rocchi, presidente dell’associazione Barbablù di Cesena, che riunisce educatori e pedagoghi. «Nei nostri laboratori spingiamo i ragazzi a creare anche una propria nemesi, un supernemico che rappresenta il lato oscuro. Il cosiddetto “villain” che permette di capire punti di forza e le debolezze». Eppure non tutti sono convinti. L’American Psychological Association non riconosce la “superhero therapy”, perché mancano prove scientifiche della sua efficacia. Almeno per ora. Intanto O’Connor ha iniziato a tenere un corso a Chicago per gli aspiranti terapeuti a fumetti, oltre ad aver creato Comicspedia, un sito dove ad ogni supereroe viene associato un (super) problema: così Batman ci parla della perdita di qualcuno che amiamo, i Fantastici Quattro gettano una nuova luce sulle dinamiche familiari e gli X-Men, mutanti ed emarginati, possono far comprendere meglio la diversità, anche sessuale.
Ma la terapia a fumetti non funziona solo con i più piccoli. «Gli adulti reagiscono positivamente alle sedute », continua lo psicoterapeuta. «Soprattutto quelli delusi da forme classiche di terapia. E poi quasi tutti conoscono queste storie». Gli fa eco il counselor americano Josué Cardona: «Non è necessario essere un fan dei comics. Anche mia nonna di 85 anni sa chi è Superman e cosa rappresenta: forza, giustizia e bontà». Cardona ha creato il sito Geektherapy. com ed è convinto che il mondo sarà salvato dalla cultura geek, la cultura pop amata dai nerd. Non solo supereroi, dunque. Ma anche Star Wars, i videogame o Il signore degli anelli vanno bene per curarsi. O magari Harry Potter. A quanto pare non c’è niente di meglio del maghetto creato da J. K. Rowling per elaborare un lutto. O anche solo per calmare l’ansia. Un esempio? Nel suo blog O’Connor consiglia di provare a creare un incantesimo per proteggersi dai cattivi pensieri. Come dire che per sentirsi meglio, più che di poteri magici o superpoteri, c’è bisogno del potere dell’immaginazione. In fondo, basta poco per essere (super) eroi, anche solo per un giorno.
 
http://ilmiolibro.kataweb.it/booknews_dettaglio_news.asp?tipoord=news&id_contenuto=3751181

(fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)


 
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