GALASSIA FREUD
Materiali sulla psicoanalisi apparsi sui media
di Luca Ribolini

Giugno 2014 II - Narrazioni e masse

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15 giugno, 2014 - 08:02
di Luca Ribolini

SOLTANTO CACCIARI PUÒ SALVARE LE ACQUE DI VENEZIA DAL MOSE 
di Umberto Silva, ilfoglio.it, 6 giugno 2014

Il giorno che s’inaugura la Biennale d’architettura intitolata Fundamentals, Venezia crolla sotto il peso delle colpe – per ora presunte – dei suoi dogi. Ci manca che uno di quei poderosi transatlantici che ogni giorno percorrono il canale della Giudecca vada a sbattere contro le Zattere, e il destino della gloriosa Repubblica sarà compiuto. Amanti di tutto il mondo, correte prima che Venezia muoia. Nel frattempo tocca richiamare Cacciari; se non per salvare Venezia come riuscì all’innamorato Jaffier, l’eroe di Simone Weil, almeno per condurla a un wagneriano rogo, lui che sul grande tedesco ha scritto pagine mirabili e sotto il cui dominio La Fenice arse. E fu ricostruita, non dimentichiamolo. Cacciari ama la musica e compone libretti, non come certi signorini che si accontentano del social glamour, questo fa la differenza. Richiamiamolo per la terza o quarta o centesima volta, il tempo è eracliteo e Cacciari mai ci metterebbe nei guai per una volgare mazzetta; detesta la volgarità e ai predatori dal motto “tengo famiglia” preferisce il più distinto: “No, grazie, sono già ricco di famiglia”. Anche se, a dire il vero, di famiglie ricche che hanno allegramente dissanguato l’Italia ce ne sono a iosa. Ma uno che scrive mille pagine di un libro intitolato “Dell’Inizio” non ha il tempo né la voglia né la pulsione di morte di mettersi a trafficare con certa gente o di far la cresta al Mose, lui che del Mosè di Michelangelo, di Freud, di Schoenberg e di Charlton Heston conosce e ama sfumature e pieghe, suoni e urla. Dove poi Cacciari trovi il tempo di fare il sindaco è un mistero che lo pone tra i Titani, anche se un’idea l’avrei: la politica gli fa sangue, gli annera la barba e i capelli, lo costringe, ogni tanto, a parlare italiano invece che tedesco. Ben venga Cacciari a patto che si metta a grattare – si dice così – un po’ di soldi ai banchieri tedeschi e ai francesi, che come grattoni – si dice così – sono specialisti in guanti bianchi.
I ladri, ma anche i loro benefattori. Ai pubblici amministratori piace fare i magnanimi con i soldi dello stato senza neppure metterseli in tasca ma solo per sfizio; piace farsi vedere tipi dalle grandi responsabilità e disponibilità, piace vedere la faccia contenta del farabutto che bacia le mani e magari li invita a bere un aperitivo – non di più, a cena ha ben altra gente – giusto perché ammirino i quadri comprati con i soldi rubati ai morti di fame. Bontà dei pubblici amministratori e anche di noi elettori, gli integri, i senza colpa, noi che ci facciamo pena e lacrimiamo sulla nostra ingenuità per poi pentirci, e via i buoni propositi di stare più attenti la prossima volta. La prossima volta ci sarà, basta avere fiducia, tempo al tempo.  Intanto s’impara, la prossima volta, a rubare per sé e non per l’altro. Ed ora in coro, tutti, tanto per fare qualcosa: “Mosè fu salvato dalle acque, chi salverà le acque dal Mose?”.
http://www.ilfoglio.it/soloqui/23682 

IL CASO WILSON 
di Giancarlo Alfano, alfabeta2.it, 6 giugno 2014

Nel 1930, durante un periodo di degenza a Berlino, Freud riceve la visita di un ambasciatore e uomo politico americano, William C. Bullit, che gli rivela di avere in animo di scrivere un libro sui protagonisti degli accordi di Versailles, con cui si risolse la Prima guerra mondiale (nel contempo, in verità, gettando le basi per la Seconda). Tra questi c’era il Presidente degli Stati Uniti, Thomas Woodrow Wilson, universalmente noto per essere stato colui che concepì e sostenne – al punto da perdere di vista l’effettivo equilibrio politico complessivo che gli accordi avrebbero dovuto garantire – il progetto della Società delle Nazioni.
A questa notizia Freud si riprese improvvisamente dall’abbattimento che lo affliggeva in quei giorni (temeva infatti di avere solo poco tempo da vivere) e propose all’amico americano di scrivere insieme a lui un libro dedicato al Presidente. Quasi dieci anni dopo – una pausa dovuta forse a un disaccordo dovuto alle rispettive posizioni religiose – il padre della psicoanalisi avrebbe sottoscritto la versione definitiva dello scritto, pubblicato poi soltanto dopo la morte della seconda moglie di Wilson.
Quel libro, Il caso Wilson, appare adesso in Italia per le cure di Davide Tarizzo, che non esita a definirlo «una gemma»: sia «della letteratura psicoanalitica», sia «della storiografia novecentesca». Personalmente non saprei dire se la seconda affermazione è del tutto condivisibile ma certo si tratta di un libro molto interessante, che sollecita nel lettore una serie di riflessioni sull’incidenza culturale e politica della psicoanalisi. Come spiega il curatore nella sua elegante introduzione, il libro a doppia firma è stato infatti a lungo oggetto di imbarazzo, se non proprio di un’esplicita avversione: per la pochezza dei risultati o per lo stesso atteggiamento di Freud (apertamente ostile a Wilson). Tarizzo preferisce parlare a questo proposito di una «resistenza» dei lettori, che individua nell’incertezza con cui si è portato avanti il compito, indicato più volte dallo stesso Freud (soprattutto nella seconda parte della sua produzione), di applicare la psicoanalisi alle questioni più generali della vita umana.
L’idea del curatore è chiarita sin dall’epigrafe, tratta dal grande libro di Keynes sulle Conseguenze economiche della pace (1919), in cui l’economista osserva che il rapporto del Presidente con l’elaborazione del Trattato di Pace «tocca[va] sul vivo un complesso freudiano». Ed è proprio per la dimensione politica che è oggi importante leggere questo libro: così strano per chi conosce la scrittura freudiana, così analitico, a volte pedissequo, a tratti pedante. In esso infatti, al di là delle intenzioni del suo collaboratore, Sigmund Freud volle proseguire la riflessione avviata nel 1921 con Psicologia della masse e analisi dell’io, passando a un caso concreto – e anzi della massima rilevanza – di leadership contemporeanea. Un caso che non assomigliava per niente all’immagine del padre primordiale disegnata nell’oramai lontano Totem e tabù (1912-13), e che anzi si segnalava per un’evidente debolezza di carattere del protagonista, pur mostrando – e con grande evidenza – che bastano pochi elementi per influenzare e trascinare le masse: pochi elementi che possono anche essere l’espressione stessa di quella debolezza.
È il frutto più impressionante dello studio freudiano, privo di ogni empatia per il personaggio di cui si occupa, in cui riconosce – nelle parole del curatore – «il mago indiscutibile dell’autoinganno». Gli ultimi capitoli del libro, almeno a partire dal XXXIII, seguono «il progressivo avvicinamento di Wilson al collasso fisico e mentale», dalla firma del Trattato di Versailles, 28 giugno 1919, al crollo del 26 settembre dello stesso anno. È il racconto spietato del conflitto, nell’inconscio del Presidente, tra «la passività e l’attività aggressiva nei confronti del padre»; il conflitto tra la spinta narcisistica a proporsi come il Dio Figlio che porta, in ossequio al mandato di Dio Padre, la Pace tra gli uomini (cosa che, peraltro, gli uomini gli riconobbero con deliranti dimostrazioni di affetto) e la deriva depressiva di chi si vede tradito e reso incapace di agire.
Il caso Wilson si presenta allora davvero come l’altra faccia della Psicologia delle masse: se nel 1921 Freud aveva individuato lo spirito gregario delle masse e il legame ipnotico con il leader, dieci anni dopo egli lavorò sui processi psicologici di un leader effettivo, mostrando in che modo quei processi producessero leadership, tenendo insieme forza e debolezza, carisma e pochezza di carattere. Quello politico, evidentemente, è una degli aspetti della ricerca di Freud che dobbiamo ancora imparare a capire.
Sigmund Freud-William C. Bullit, Il caso Wilson, a cura di Davide Tarizzo, traduzione di Sarah Manocchio, Cronopio, 2014, 286 pp. € 19,00
 
Sigmund Freud, Psicologia della masse e analisi dell’io, a cura di Davide Tarizzo, traduzione di Enrico Ganni, Einaudi, 2013, LI-86 pp. € 16,00
http://www.alfabeta2.it/2014/06/06/caso-wilson/
 
“I FIGLI NON SONO VITI SORTE DA RADDRIZZARE” MASSIMO RECALCATI CHIUDE I DIALOGHI DI REPUBBLICA DELLE IDEE. “Cosa significa amare un figlio” incontro nel cortile di Palazzo Reale con lo psicanalista e con la scrittrice napoletana Valeria Parrella
di Cristina Zagaria (@cristinazagaria), napoli.repubblica.it, 8 giugno 2014
“Il nostro tempo è il tempo di Telemaco. I figli si devono mettere in moto per riportare la legge a Itaca. Il vero viaggio non è quello dei padri. Il ruolo dei genitori è solo dare fiducia”. Un mondo di figli che non devono essere “viti storte da raddrizzare”, ma uomini e donne fatti di “debolezze e stramberie in cui credere”. Incanta Napoli lo psicanalista Massimo Recalcati, che parla di “genitorialità”, di “presenza”, di “dono della parola” e di “coraggio dell’abbandono”.
Nell’ultimo dei Dialoghi di Repubblica delle Idee si discute su “Cosa significa amare un figlio” con Massimo Recalcati e Valeria Parrella, con la guida di Laura Pertici. Apre l’incontro la scrittrice napoletana, Valeria Parella: “Un figlio si ama senza accorgersene”. Per la Parrella si ama un figlio nell’“assenza” e nella “distrazione” e legge alcuni brani di “Spazio bianco” e “Tempo di imparare”.
Poi la parola passa a Recalcati. Nel cortile di Palazzo Reale, nonostante l’ora pomeridiana e il caldo, è tutto esaurito. In tanti seguono l’incontro in piedi, poggiati al colonnato.
“Coloro che pensano di amare un figlio non sono nella migliore posizione. I peggiori genitori sono quelli che ritengono di essere bravi genitori. La psicanalisi, non a caso, nutre molti dubbi sugli educatori di professione. Insomma, diciamola in un altro modo, più diretto: i migliori sono quelli che hanno percezione dell’impossibilità di essere genitori». Recalcati conquista subito l’attenzione e la fiducia del pubblico.
“La vita di un genitore si può scandire in due tempi — continua lo psicanalista — C’è il tempo della presenza e dell’assenza. Quando un bambino nasce c’è il grido, un grido a cui il genitore deve rispondere con l’offerta della presenza illimitata. Quando si assiste alla nascita di un figlio non si assiste solo a una vita che viene al mondo, ma al mondo che nasce una seconda volta. Quel grido è una domanda d’amore. Il bambino vuole sapere che è venuto al mondo e perché è stato voluto».
A questo grido Recalcati risponde con l’assunzione di responsabilità illimitata dei genitori. (“Attenzione i bambini reali sono sempre diversi dai bambini ideali che una mamma si attende”), con l’offerta della presenza, che non è solo “offerta di sé, di un dono, del nutrimento e dell’accudimento, ma che deve essere dono della parola che diventa lievito. Ai bambini bisogna parlare”. E Recalcati racconta l’aneddoto della nipotina di Sigmund Freud che quando va a letto dice alla mamma: “Mamma spegni pure la luce, ma rimani qui e parlami”.
Se l’infanzia è marcata dalla presenza dei genitori che diventano parafulmini delle angosce dei bambini, l’adolescenza è il tempo dell’assenza e Recalcati cita il libro di Michele Serra Gli sdraiati.
“I figli possono trovare il loro cammino quando la nostra mano ha la fede sufficiente per perderli”. La platea non trattiene l’applauso. E Recalcati conclude: “Attenzione nessuno ha verità. Non ci sono esperti, ma amare significa donare a lui il nostro ritrarsi è il sacrificio della proprietà. Il dono più grande che possiamo fare ai nostri figli non è dargli tutte le risposte, non è spiegargli il senso della vita, ma dimostrargli, con il nostro esempio quotidiano – e non attraverso la retorica – che la vita ha senso… e mostrare loro tutta la nostra fragilità».
Recalcati, che non vuole dare insegnamenti chiude però con un consiglio e la citazione di una canzone: “Il dono più grande della genitorialità è non ricondurre vita del figlio a uno standard di normalità. Il dono più grande della genitorialita è amare le storture, le bizzarrie. Non raddrizziamo le viti storte, scommettiamo tutto invece sulle diversità. Io genitore voglio che tu sia quello che desideri. E chi lo ha spiegato meglio forse è giovanotti con la sua canzone Io mi fido di te”.
http://napoli.repubblica.it/cronaca/2014/06/08/news/i_figli_non_sono_viti_sorte_da_raddrizzare_massimo_recalcati_chiude_i_dialoghi_di_repubblica_delle_idde-88412557/

SEAM 2014, QUANDO “ALIMENTAZIONE” FA RIMA CON “RELAZIONE”. Alessandro Scuotto (medico gastroenterologo) e Francesco Comelli (psichiatra e psicoanalista) hanno chiarito la relazione stretta che esiste tra mente e intestino 

di Marianna Lotito, coratolive.it, 8 giugno 2014

Si è chiusa con una grande partecipazione di pubblico la seconda edizione della Seam, la scuola di educazione alimentare e movimento ideata e coordinata dalla biologa-nutrizionista Lucia Palmieri. Ieri, nell’auditorium del liceo artistico “Federico II stupor mundi”, si è svolto il secondo seminario scientifico Seam pensato per i medici e per i semplici cittadini interessati.
E’ stato un incontro a quattro voci per riflettere sulla relazione stretta che esiste tra mente e intestino. I due illustri e autorevoli ospiti, Alessandro Scuotto (medico gastroenterologo) e Francesco Comelli (psichiatra e psicoanalista), sono stati accompagnati nel lungo pomeriggio dalla coordinatrice scientifica Seam, Lucia Palmieri, e da Mary Falco, psicologa-psicoterapeuta, docente Seam e referente della commissione “Igiene e sanità” del distretto Sud-Est della Fidapa Bpw Italy.
Dopo i saluti di rito del sindaco Mazzilli e di Paolo De Leonardis, direttore tecnico del Gal Città del Castel del Monte, sono intervenuti i rappresentati di tutte le associazioni che, a vario titolo, hanno permesso la realizzazione della Seam e del seminario. In primis l’associazione Inseam, nella persona del presidente Nicola Piarulli, e poi la Fidapa Bpw (con Angela Pisicchio, vice presidente del distretto sud-est).
«Per raccontare il rapporto tra alimentazione e cervello mi piace usare le parole di un esperto di letteratura, Don Chisciotte. Quando il cavaliere chiese al suo aiutante Sancio Panza di “avere coraggio e svolgere il suo compito” la risposta che ottenne fu emblematica: “Ho fame e non ho il coraggio”.
Sono i visceri che regolano il cervello e non il contrario». In questa citazione Scuotto ha riassunto il senso del seminario, nella capacità di ascoltare e comprendere tutti quei disturbi frequenti che derivano dall’intestino dell’uomo e che spesso, pur essendo difficili da raccontare e spiegare, influenzano i comportamenti e la qualità di vita.
«I disturbi gastrointestinali - ha spiegato Scuotto - sono particolarmente frequenti, si riscontrano in una persona su dieci. Di queste, il 40% presenta disturbi funzionali che, pur non essendo mortali, incidono sulla qualità della vita. Questi disturbi non presentano organi visibilmente malati o danneggiati da lesioni, perciò bisogna indagare più a fondo.
Il rischio delle visite dal gastroenterologo è che si concludono con il medico che dice al paziente “lei non ha nulla, è tutto sotto controllo”. Nulla di più sbagliato perché il paziente non sta bene, in gran parte dei casi riferisce dolore, gonfiore, reflusso, costrizione alla gola. Il medico dovrebbe avere l’umiltà di dirgli “che ha qualcosa che non so spiegare”».
La risposta ai più frequenti disturbi gastrointestinali va cercata ad un livello microscopico: «Il nostro organismo - ha continuato Scuotto - è fatto da miliardi di cellule ma dal momento in cui nasciamo viene colonizzato da una quantità ancora più elevata di batteri. Paradossalmente abbiamo più batteri che cellule. Questa colonizzazione è fondamentale per mantenerci in vita, come accade per tutti i mammiferi, ed è in grado di influenzare il nostro comportamento».
Passando ad analizzare alcune relazioni tra i disturbi gastrointestinali e quelli psicologici, Scuotto ha sottolineato che «capitano spesso casi di depressione in soggetti sensibili al glutine ma non celiaci e che in soggetti autistici si presentino facilmente problematiche gastrointestinali».
«Andando via di qui - ha tenuto a precisare Scuotto - non dobbiamo pensare che tutte le malattie si possano curare con il cibo ma dobbiamo essere consapevoli che un lavoro orientato alla buona alimentazione può agire sulla fisiologia del nostro organismo».
Quando “alimentazione” fa rima con “relazione” entra in gioco quello che è il ruolo sociale e culturale del consumo di cibo.
«Nei neonati - ha esordito Comelli - il nutrimento è una grande forma di relazione, la prima che genera “abbozzi di pensieri”. La comunità scientifica si è chiesta quale relazione esiste tra noi e chi ci passa il nutrimenti. Anche in questo caso molte volte il corpo è in grado di comunicare ciò che le parole non dicono.
Un esempio emblematico è quello che ho riscontrato in un neonato anoressico: aveva smesso di assumere cibo perché la babysitter, per farlo addormentare, era solita fargli respirare il gas metano».
I casi di anoressia e bulimia sono stati, senza dubbio, i più utilizzati da Comelli per spiegare quanto il cibo e la nutrizione vadano rapportati alle relazioni tra esseri umani.
«Di fronte ad una malattia come l’anoressia ci si chiede cosa c’è di così forte che riesce a variare gli istinti. Mi è capitato di dovermi occupare di una ragazza anoressica che, pur avendo fame, non mangiava se non quando la mamma la imboccava.
Inizialmente la ragazza era ostile alle mie visite e la soluzione è arrivata solo quando ho incontrato tutta la famiglia. Ho scoperto che nei primissimi anni di vita i genitori, pur di farla smettere di piangere, l’hanno fatta dormire nel loro letto. Tutto ciò è durato fino a quando la ragazza ha compiuto 14 anni. Rotto questo legame l’adolescente ha iniziato a rifiutare il cibo ed accettarlo solo quando era la mamma ad occuparsi di darglielo».
«Spesso - ha continuato Comelli - si incorre nell’equivoco di pensare che dare cibo significhi dare amore. Oggi la società è molto diversa rispetto a pochi anni fa e per curare una persona affetta da patologie come anoressia e bulimia è necessario fare uno studio su tre generazioni».
Alla domanda “Perché è difficile cambiare comportamento?” Comelli ha risposto che «spesso gli atteggiamenti non sono altro che il modo per mantenere intatto un legame. Il medico che analizza il paziente deve saper instaurare un rapporto che non sia solo un rapporto da tecnico ma sia un concreto ascolto della persona che ha di fronte».
http://www.coratolive.it/news/Attualit%C3%A0/293805/news.aspx

“I FIGLI NON SONO VITI STORTE DA RADDRIZZARE”. MASSIMO RECALCATI CHIUDE I DIALOGHI DI REPUBBLICA DELLE IDEE. “Cosa significa amare un figlio” incontro nel cortile di Palazzo Reale con lo psicanalista e con la scrittrice napoletana Valeria Parrella

di Cristina Zagaria (@cristinazagaria), napoli.repubblica.it, 8 giugno 2014
“Il nostro tempo è il tempo di Telemaco. I figli si devono mettere in moto per riportare la legge a Itaca. Il vero viaggio non è quello dei padri. Il ruolo dei genitori è solo dare fiducia”. Un mondo di figli che non devono essere “viti storte da raddrizzare”, ma uomini e donne fatti di “debolezze e stramberie in cui credere”. Incanta Napoli lo psicanalista Massimo Recalcati, che parla di “genitorialità”, di “presenza”, di “dono della parola” e di “coraggio dell’abbandono”.
Nell’ultimo dei Dialoghi di Repubblica delle Idee si discute su “Cosa significa amare un figlio” con Massimo Recalcati e Valeria Parrella, con la guida di  Laura Pertici. Apre l’incontro la scrittrice napoletana, Valeria Parella: “Un figlio si ama senza accorgersene”. Per la Parrella si ama un figlio nell’“assenza” e nella “distrazione” e legge alcuni brani di “Spazio bianco” e “Tempo di imparare”.
Poi la parola passa a Recalcati. Nel cortile di Palazzo Reale, nonostante l’ora pomeridiana e il caldo, è tutto esaurito. In tanti seguono l’incontro in piedi, poggiati al colonnato.
“Coloro che pensano di amare un figlio non sono nella migliore posizione. I peggiori genitori sono quelli che ritengono di essere bravi genitori. La psicanalisi, non a caso, nutre molti dubbi sugli educatori di professione. Insomma, diciamola in un altro modo, più diretto: i migliori sono quelli che hanno percezione dell’impossibilità di essere genitori». Recalcati conquista subito l’attenzione e la fiducia del pubblico.
“La vita di un genitore si può scandire in due tempi — continua lo psicanalista — C’è il tempo della presenza e dell’assenza. Quando un bambino nasce c’è il grido, un grido a cui il genitore deve rispondere con l’offerta della presenza illimitata. Quando si assiste alla nascita di un figlio non si assiste solo a una vita che viene al mondo, ma al mondo che nasce una seconda volta. Quel grido è una domanda d’amore. Il bambino vuole sapere che è venuto al mondo e perché è stato voluto».
A questo grido Recalcati risponde con l’assunzione di responsabilità illimitata dei genitori. (“Attenzione i bambini reali sono sempre diversi dai bambini ideali che una mamma si attende”), con l’offerta della presenza, che non è solo “offerta di sé, di un dono, del nutrimento e dell’accudimento, ma che deve essere dono della parola che diventa lievito. Ai bambini bisogna parlare”. E Recalcati racconta l’aneddoto della nipotina di Sigmund Freud che quando va a letto dice alla mamma: “Mamma spegni pure la luce, ma rimani qui e parlami”.
Se l’infanzia è marcata dalla presenza dei genitori che diventano parafulmini delle angosce dei bambini, l’adolescenza è il tempo dell’assenza e Recalcati cita il libro di Michele Serra Gli sdraiati.
“I figli possono trovare il loro cammino quando la nostra mano ha la fede sufficiente per perderli”. La platea non trattiene l’applauso. E Recalcati conclude: “Attenzione nessuno ha verità. Non ci sono esperti, ma amare significa donare a lui il nostro ritrarsi è il sacrificio della proprietà. Il dono più grande che possiamo fare ai nostri figli non è dargli tutte le risposte, non è spiegargli il senso della vita, ma dimostrargli, con il nostro esempio quotidiano – e non attraverso la retorica – che la vita ha senso… e mostrare loro tutta la nostra fragilità».
Recalcati, che non vuole dare insegnamenti chiude però con un consiglio e la citazione di una canzone: “Il dono più grande della genitorialità è non ricondurre vita del figlio a uno standard di normalità. Il dono più grande della genitorialita è amare le storture, le bizzarrie. Non raddrizziamo le viti storte, scommettiamo tutto invece sulle diversità. Io genitore voglio che tu sia quello che desideri. E chi lo ha spiegato meglio forse è giovanotti con la sua canzone Io mi fido di te”.
http://napoli.repubblica.it/cronaca/2014/06/08/news/i_figli_non_sono_viti_sorte_da_raddrizzare_massimo_recalcati_chiude_i_dialoghi_di_repubblica_delle_idde-88412557/  

AUGURI PAPERINO PERDENTE DI SUCCESSO PROPRIO COME TUTTI NOI. Compie ottant’anni il personaggio Disney più amato di sempre. Lavativo, iroso, squattrinato, simpatico (e anche molto italiano)

di Raffaella Silipo, lastampa.it, 8 giugno 2014
«Chi io? Oh no, io ho un gran mal di pancia». Le prime parole pronunciate da Paperino, ottant’anni fa, sono già una scusa per non lavorare. Era il 9 giugno 1934, e in un cinema della California si proiettava «La gallinella saggia», versione americana dell’annosa questione tra cicala e formica. Paperino, anzi Donald Duck, era naturalmente la cicala e il suo «mal di pancia» un modo per non aiutare l’operosa gallinella nelle sue faccende.
In ottant’anni è cambiato il suo aspetto fisico (allora gli animatori Dick Huemer e Art Babbit lo avevano disegnato bassissimo, con il becco molto più lungo e i piedi palmati più grossi) ma la sua voglia di lavorare non è affatto aumentata: indolente, collerico, squattrinato e schiavizzato dal ricco Zio Paperone nel tentativo di estinguere l’inesauribile lista di debiti, Paperino è il più umano dei personaggi Disney, un perdente che non si rassegna mai alla sconfitta, in netta contrapposizione con il vincente Topolino.
Al pessimo carattere si accompagna la sfortuna: se la sua data di nascita ufficiale è il 9 giugno, quella disneyana è la tempestosa notte di un venerdì 13. E i segni del destino avverso si ripetono: abita al numero 13, ha un’auto targata 313. Una sorte talmente simbolica da sconfinare dalle strisce disegnate per abitare l’inconscio individuale e collettivo.
«Paperino è un personaggio ad altissima capacità di identificazione – spiega infatti la psicologa Stefania Andreoli – perché ha molte sfaccettature. È sfortunato, ma anche simpatico. Lavativo, ma generoso. Ha un carattere ricco di chiaroscuri, proprio come tutti, nella vita reale. Per qualcuno rappresenta il bambino che si nasconde dietro ognuno di noi, io lo vedo piuttosto come un eterno adolescente, sfrontato e insicuro, alle prese con grandi potenzialità e contraddizioni altrettanto grandi. Ha profondità, nonostante sia un personaggio dei fumetto: lo vedrei bene sul lettino dell’analista».
A ulteriore testimonianza delle felici contraddizioni che l’hanno generato, il vero successo di Paperino arriva con la guerra: Walt Disney concede al Dipartimento della Difesa l’uso gratuito del personaggio per la campagna di arruolamento. Immagini «guerriere» del Papero finiscono dipinte sulle ali dei caccia americani e cucite sulle mostrine dei militari. Si moltiplicano i film di propaganda: uno di questi, «Der Fuhrer’s Face», nel 1943 vincerà l’Oscar. Nel cartone – dove compaiono le caricature di Hitler, Hirohito e Mussolini – Paperino sogna di essere un tedesco, costretto a fare il passo dell’oca. L’incubo diventa insopportabile quando ha una visione di se stesso nei panni di Hitler, con tanto di baffetti e occhio spiritato. Al risveglio, bacia la riproduzione della statua della Libertà che tiene sul comodino. Se non è materia da psicanalisi questa…
Sempre durante la guerra, nel 1942, Paperino incontra il suo vero padre, Carl Barks, un cartoonist Disney che ha appena lasciato gli studios. «Non mi piaceva che ci fossero tanti capetti che ti sorvegliavano da dietro le spalle – avrebbe raccontato poi – per controllare come lavoravi, criticando di continuo quello che facevi». Proprio in quel momento la casa editrice Western ha ottenuto l’autorizzazione a pubblicare avventure con i personaggi Disney: ingaggia Barks, che trasforma Paperino nella stella di un universo di paperi, Duckburg (in italiano Paperopoli), città dominata dallo zio miliardario Paperon de’ Paperoni, minacciata dalla banda Bassotti, ingentilita dalla capricciosa Paperina.
Al trionfo di Paperino collaborano anche molti autori italiani: Luciano Bottaro, Giovanni Battista Carpi (che nel 1969 inventa Paperinik), Romano Scarpa. Non a caso oggi la Disney Italia lo celebra con un libro «Paperino – Una vita a fumetti», che comprende le più famose storie «italiane». In fondo chi meglio di noi italiani si può identificare con lo squattrinato Paperino e quel suo misto di audacia e insicurezza?
Siamo tutti Paperini, alle prese con figli Qui Quo Qua più svegli di noi e che ci fanno dannare, capi e genitori Paperone sempre scontenti del nostro lavoro, biondi ed eleganti cugini Gastone che ci fanno impazzire di invidia per la loro buona sorte, Paperine con cui litigare e che tocca riconquistare di continuo. «Ma siamo anche pronti a metterci la mascherina e trasformarci in Paperinik – conclude la Andreoli – dentro di lui, come dentro tutti i perdenti del mondo, c’è il potenziale per diventare eroi».
http://www.lastampa.it/2014/06/08/cultura/fumetti-e-cartoons/auguri-paperino-perdente-di-successo-proprio-come-tutti-noi-CuqP0M0TrTa8Ns0nyAKbqL/pagina.html  

MATTEO IL GIÀ-EX-MAGNIFICO 
di Marina Terragni, blog.iodonna.it, 9 giugno 2014

Scanalare stamattina radio e tv - analisi dei ballottaggi- e sentire dappertutto il mantra che forse l’effetto Renzi è finito mi ha precipitato in un misto di sconforto e incazzatura. Non perché io tifi pro o contro il suddetto effetto, ma perché mi pare incredibile che in 15 giorni, dicasi 15, si possa passare dalle ole, dagli squilli di tromba e dai carri del trionfo -e chi lo ferma più, è il lìder maximo, scaravolterà l’Italia come un calzino, anzi, pardon, l’Europa, è il nostro toreador- ai quasi-coccodrilli politici -visto? era solo paura di Grillo, era un risultato drogato, tutto è tornato com’era prima, etc. etc.-.
Dico proprio gli stessi sbandieratori di due settimane fa che ora si esercitano in mesti necrologi. Le nostre vite sono una cosa seria, il destino del nostro Paese è una cosa seria, sarebbe bello che anche le analisi politiche fossero una cosa seria, e non una semplice appendice dello showbiz. Senza la notizia da strillare di volta in volta e da far scandagliare al carrozzone degli ospiti -anche loro, quasi sempre gli stessi- i talk diventano una palla pazzesca. E allora vai con l’ottovolante,dalle stelle alle stalle a breve giro per fare un po’ di share.
Ma natura non facit saltus, la realtà nemmeno: se uno era l’Imperatore-mondo il 26 maggio non può trovarsi in affanno il 9 giugno. O si esagerava prima o si sta esagerando ora. Questa isteria crea un problema. Anzi: fa strutturalmente parte del problema. Come insegna la psicoanalisi con i suoi tempi canonici, se ci sono voluti trent’anni per costruire il guaio in cui ti trovi, difficile pensare di poterne uscire in un mese.
Vale anche per la politica: diamoci i tempi giusti per fare le cose (giuste) e per giudicarle. E basta con le strida. Basta con il consumo compulsivo di qualunque cosa. Se poi la gente la prima domenica d’estate invece che a votare va al mare è anche perché delle strida ha fatto il pieno. E non le si può certo dare torto.
http://blog.iodonna.it/marina-terragni/2014/06/09/matteo-il-gia-ex-magnifico/  

IL MESE DELL’ORGOGLIO. Giugno, il mese delle manifestazioni omosessuali. E quello in cui le aziende in cerca dei pink money si fanno sentire. Non solo Facebook e Google, anche in Italia, dalla Findus a Vitasnella, qualcosa si muove 
di Redazione, wired.it, 14 giugno 2014

Dicembre è il mese del Natale, aprile il mese più crudele, e giugno è il mese dell’orgoglio. E non stiamo parlando  dell’orgoglio generato dalla giornata nazionale delle ciambelle o quello perpetrato della festa della musica (troppe giornate mondiali, si diceva?). Giugno è anche questo, ma è soprattutto il mese di un tipo d’orgoglio molto specifico: l’orgoglio gay. Ma prima di scoprire il perché ed il percome, una riflessione della saggia Hannah Arendt:
E qualsiasi cosa l’uomo faccia, conosca o esperimenti, può avere significato solo nella misura in cui se ne può parlare. Ci possono essere verità oltre il discorso, e possono essere di grande importanza per l’uomo al singolare, cioè per l’uomo nella misura in cui non è un essere politico, qualsiasi altra cosa possa essere. Ma gli uomini vivono nella pluralità, cioè, gli uomini in quanto vivono, si muovono e agiscono in questo mondo, possono fare esperienze significative solo quando possono parlare e attribuire reciprocamente un senso alle loro parole“.

Come tutto ha avuto inizio
Correva l’anno 1969, siamo a New York, mese di giugno, giorno 28. Greenwich Village, Christopher Street, presso lo Stonewall Inn. Se volete la versione poetica, questa storia è anche un po’ merito diJudy Garland. Altresì, vi basti sapere che la comunità lgbtqnewyorkese era stanca di venire vessata su base quotidiana dalla polizia locale, e, nella serata del 27 giugno, decisamente sfiancata, passò al contrattacco. Come? Bene o male come iniziano parecchie rivoluzioni:  Sylvia Rivera lanciò una bottiglia al poliziotto che la stava malmenando,  il resto è storia. Il locale prima e la strada tutta poi iniziò a reagire, e  ben presto circa 2.000 persone al grido di “Gay Power! Gay Power!” fronteggiarono 400 poliziotti. I moti durarono tre giorni, e diederono il via ad un movimento di rivendicazione dei diritti che ancora non si è fermato.

Come vanno le cose, adesso?
Dipende da quale angolazione guardate la cosa. Negli Stati Uniti, anche se non in tutti gli stati, decisamente bene. In India, per citarne una su tutti,  non tanto bene. In Italia, tutto fermo, grazie. Il resto del mondo è agilmente consultabile qui, in una pratica mappa interattiva. La mappa riassume non solo le eventuali civil partership o matrimoni, ma anche adozioni, leggi a tutela delle aggravanti d’omofobia e situazione discriminatorie sul luogo di lavoro. Una completa visione sul mondo lgbtq nel mondo “reale”. E poi c’è quello “virtuale.”

Il magico mondo di Internet
Se cercate un qualsiasi termine che a che fare con il mondo gay, questo è quello che avrà da offrirvi Google durante giugno:


E Facebook, dopo aver inserito oltre 50 possibili opzioni per la casellina “gender” e aver creato delle icone ad hoc per i matrimoni dello stesso sesso, nel mese di giugno dà  libero spazio alla fantasia creando svariati sticker (le immagini fruibili all’interno dei messaggi privati) dedicati al mese più gay dell’anno. Una versione ampliata del Feeling Pride dell’anno passato (opzione tutt’ora selezionabile):


Che il computer da cui state leggendo questo articolo sia un Pc o un Mac non fa nessuna differenza: sia Microsoft che Apple, due grossi nomi fra i tanti grossi nomi, sostengono e finanziano le cause a favore dei diritti lgbtqIl che ci porta a:

Money Money Money. Pink, Money
Era solo il settembre del 2013 quando Guido Barilla, nell’ormai celeberrima intervista alla Zanzara, dichiarando “Non faremo pubblicità con omosessuali, perché a noi piace la famiglia tradizionale” dava il via ad un’impressionante, e omnicompresniva, campagna di boicottaggio.

Le folle insorsero, competitor realizzarono a spron battuto efficaci e gustose immagini e presidiarono ogni social possibile con un acume ed una precisione quasi commovente:
Misura @MisuraWeb Segui
Lavoriamo per le intolleranze, ma solo quelle alimentari. #Barilla
3:44 PM – 26 Set 2013
 96 RETWEETS 50 FAVORITES

E così Barilla, nell’arco di pochi giorni battè in ritirata. Scuse ufficiali su Twitter, video di scuse ufficiali, e il recente ingresso, nel mese più gay dell’anno, dell’azienda parmense all’interno dellarete Parks, con l’intento di ricoprire un ruolo di avanguardia nella creazione, anche in Italia, di una cultura delle differenze e del rispetto. Ma in questo afoso mese dell’orgoglio le aziende italiane che strizzan l’occhio alla comunità gay e al suo corredo di “pink money” non son poche. Apre letteralmente le danze Vitasnella, acqua ufficiale del Roma Pride:


Prosegue Findus, con uno spot che unisce alla sopresa per i tagliolini la sorpresa per il coming out dell’amato figliolo.
Bene, abbiamo acqua da bere e surgelati da mangiare. Ma i diritti?

Gay Rights are Human Rights
Amnesty International, storica ong attiva nella difesa dei diritti umani conduce da diversi anni una campagna contro lediscriminazioni verso le persone lgbt. Partendo da un semplice assunto: l’idea che i “diritti gay” siano semplicemente dei diritti umani. E quando questi diritti non vengono rispettati, o ancor peggio, calpestati, le sofferenza che si genera è variamente quantificabile.
Se pensate che non sia così, e avete un mese da investire in un facile esperimento, non vi resta che provare questo:
“Lo psicanalista Mark Blechner ha provocatoriamente suggerito un esperimento cui le persone esterosessuali farebbero bene a sottoporsi: per un mese provare a non menzionare mai il marito/la moglie o i figli nelle loro conversazioni, a descrivere un’esperienza che hanno condiviso con il/la partner come se l’avessero vissuta da soli, a dire sempre io anche quando dovrebbero dire noi. Fare insomma le cose che molti gay e lesbiche fanno per tenere segreta la propria omosessualità. Gli eterossessuali che hanno sperimentato questa condizione l’hanno trovato molto debilitante”(Vittorio Lingiardi, Citizen Gay)
Ed ecco il senso della citazione di Hannah Arendt là sopra: se non lo puoi raccontare, se non lo puoi condividere, è come se non fosse veramente esistito.
Buon mese dell’orgoglio.
http://www.wired.it/attualita/politica/2014/06/13/ogoglio-lgbt-giugno/
 
 (Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)

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