GALASSIA FREUD
Materiali sulla psicoanalisi apparsi sui media
Gennaio 2015 II - Paura, illusione, speranza
VIOLENZA E FOLLIA: PREVENIRE SI PUÒ
di Silvia Vegetti Finzi, corriere.it, 8 gennaio 2014
Per continuare:
http://archiviostorico.corriere.it/2015/gennaio/08/violenza_follia_prevenire_puo_co_0_20150108_7221abb6-9700-11e4-b5fb-ab1df7571544.shtml
IL PENSIERO LUNGO DI IDA DOMINIJANNI
di Filippo Veltri, lametino.it, 9 gennaio 2015
Per continuare:
http://www.lametino.it/Filippo-Veltri/Il-pensiero-lungo-di-Ida-Dominijanni.html
IL RITORNO DEL BLASFEMO
di Jacques-Alain Miller, Le point, 10 gennaio 2015*
Si dice: “Sono dei barbari”. Senza dubbio. Tuttavia questo terrorismo non è affatto cieco, ha gli occhi aperti, è mirato. Non è neppure muto. Grida: “Abbiamo vendicato il profeta Maometto!”. Alla fine del secolo scorso ci si immaginava che nozioni come blasfemo, sacrilego, profanazione, non fossero che vestigia del passato. Non è così. Dobbiamo constatare che l'era della scienza non ha fatto svanire il senso del sacro; che il sacro non è un arcaismo. Senza dubbio non è niente di reale. È un fatto di discorso, una finzione, ma è quella che fa tenere insieme le insegne di una comunità, la chiave di volta del suo ordine simbolico. Il sacro esige riverenza e rispetto. Se mancano, è il caos. Così Socrate è invitato a bere la cicuta. Da quando vi sono degli uomini che parlano, in nessun luogo è mai stato lecito dire tutto.
Charlie Hebdo era tra noi come il testimone residuale di questa derisione fondatrice. Cabu, Charb, Tignoux, Wolinski, non erano destinati ad essere accostati al cavaliere de La Barre. Dal 1825, nessuno ha mai tentato, da noi, di ripristinare una legge sul blasfemo. Com'è accaduto che siano morti da martiri della libertà di stampa? Il fatto è che universi di discorso un tempo separati e impermeabili, ormai comunicano. Sono anzi intrecciati, dacché il sacro dell'uno e il “niente di sacro” dell'altro sono agli antipodi. Salvo poter riavvolgere il film dei tempi moderni, deportando ovunque gli allogeni, la questione - questione di vita o di morte - sarà di sapere se il gusto per la risata, il diritto di ridicolizzare, l'irriverenza iconoclasta, siano altrettanto essenziali al nostro modo di godere di quanto lo sia la sottomissione all'Uno nella tradizione islamica.
Per quel che riguarda il dibattito giuridico, esso ė complesso e agita ora l'insieme delle democrazie occidentali (vedi, a questo proposito, il dossier pubblicato tre mesi fa dall'Università della California, Profane: Sacrilegious Expression in a Multicultural World). Ogni anno, dal 1999, si negozia all'ONU su questo argomento, per iniziativa dell'Organizzazione della Cooperazione islamica. In Germania, Austria, Irlanda, delle leggi proscrivono gli attacchi al sacro. Il Regno Unito ha atteso il 2008 per cessare di proteggere la Chiesa anglicana dal blasfemo. La Francia si distingue per il rigore della sua dottrina laica. Per quanto tempo ancora? Questo non è scritto. Eh, Francia! Il tuo caffè se ne va. Che cosa vuoi veramente? Conflitto o compromesso?
* Testo reperito sulla pagina Facebook dell'Istituto Freudiano del 12 gennaio 2015
https://www.facebook.com/istituto.freudiano.3?fref=ts e anche qui:
http://www.artelier.org/il-ritorno-del-blasfemo/
Per il testo originale:
http://www.lacanquotidien.fr/blog/wp-content/uploads/2015/01/LQ-452.pdf
STALIN BATTE LENIN A SCACCHI
di Giorgio Dell’Arti, altrimondi.gazzetta.it, 11 gennaio 2015
Scacchi Stalin batteva regolarmente Lenin agli scacchi.
Bicicletta Lenin non riuscì mai ad insegnare a Stalin ad andare in bicicletta.
Acqua Albert Schweitzer, già laureato in Filosofia e Teologia, studiava con un secchio d’acqua fredda sotto la scrivania: quando temeva di addormentarsi, si sfilava i calzini, immergeva i piedi nell’acqua gelata e continuava a leggere.
Musil Robert Musil dedicava particolare cura alle scarpe, faceva un’ora al giorno di sollevamento pesi e flessioni, annotava ogni sigaretta fumata e tutti i rapporti sessuali con la moglie.
Figli Klimt dipingeva indossando solo un largo camice. Alla sua morte si presentarono quattordici sue modelle chiedendo un riconoscimento di paternità per i rispettivi figli.
Madre Bertold Brecht continuò a infilarsi nel letto della madre fino ai quindici anni.
Pigiama Il pittore Oskar Kokoschka era così ossessionato dalla sua amante Alma, vedova di Gustav Mahler, da indossare tutti i giorni il suo pigiama rosso fuoco.
Freud Freud, dopo la morte di Gustav Mahler, scrisse al suo curatore testamentario per incassare il compenso di una chiacchierata fatta passeggiando con il compositore.
Compensi Compenso di Freud per ogni seduta psicoanalitica: 100 corone.
Pony «Portate subito il paziente al traumatologico e il cavallo dal professor Freud» (Arthur Schnitzler quando si vide arrivare in ambulatorio il figlio di un ricco industriale che era stato morso al pene da un pony).
Mano Franz Kafka chiese la mano di Felice Bauer con una lettera lunga venti pagine. Un passo: «Perderesti Berlino, l’ufficio che ti piace, le amiche, i piccoli divertimenti, la speranza di sposare un uomo sano, allegro, buono, di avere figli sani. Acquisteresti un uomo malato, debole, poco socievole, taciturno, malinconico, rigido, quasi disperato».
Giardiniere Per cercare di curare la propria nevrastenia, Kafka decise di andare a lavorare come giardiniere, ma scappò appena seppe che il figlio del proprietario, da cui aveva ereditato l’incarico, s’era ucciso per malinconia.
Bronchite Dal diario di Bertolt Brecht: «Stamattina è venuto il dottor Müller. Bronchite secca. Malattia interessante. Un raffreddore possono prenderlo tutti».
Paure Paure del filosofo tedesco Oswald Spengler: dei parenti, dei dialetti, delle donne che si spogliano, dell’entrare nei negozi, eccetera
Tende Per poter scrivere senza distrazioni, Marcel Proust si fece rivestire con fogli di sughero lo studio in Boulevard Haussmann 102, a Parigi, e fece montare tre strati di tende alle finestre.
Proust «La vita è troppo breve e Proust troppo lungo» (Anatole France).
Giornata Giornata tipo di Thomas Mann: sveglia alle otto, colazione alle otto e mezzo e alle nove inizio del lavoro. A mezzogiorno pausa per radersi, poi passeggiata e pranzo con i figli. Riposo dalle quattro alle cinque del pomeriggio, poi tè. Cena alle sette.
Paga «La grande guerra in Europa, da sempre una minaccia, non scoppierà mai. I banchieri non sborseranno il denaro necessario al conflitto, l’industria non lo alimenterà, mentre gli statisti non possono farlo. Non ci sarà nessuna grande guerra” (David Starr Jordan, presidente della Stanford University, nel 1913).
Notizie tratte da: Florian Illies, 1913. L’anno prima della tempesta, Marsilio, Venezia. Pagg. 304, € 19,50.
http://altrimondi.gazzetta.it/2015/01/11/stalin-batte-lenin-a-scacchi/
CHARLIE HEBDO: MI FA PAURA L’’INTELLIGENCE’, PREFERISCO LA ‘STUPIDENCE’
di Luciano Casolari, ilfattoquotidiano.it, 11 gennaio 2014
Come psicoanalista posso ipotizzare che i terroristi vivessero un conflitto interiore. Una parte cosciente che li portava alla decisione di uccidere ma, accanto, una componente inconscia che sapeva che uccidere è male. Sulle scene del crimine capita, quasi immancabilmente, che l’assassino lasci, “appositamente per essere ritrovata”, una traccia che permetta agli inquirenti di rintracciarlo. Il senso di colpa inconscio lavora per indurre l’uomo, che sa di commettere un atto malvagio, a ricercare l’espiazione di una pena. Il bisogno inconscio di essere bloccato nella propria furia distruttiva mette in atto una serie di “dimenticanze, atti mancati, sbadataggini” che sabotano in parte le intenzioni coscienti.
Soprattutto questi elementi di faciloneria, incapacità e balordaggine finalmente inducono in noi il senso del ridicolo. Nella profonda sofferenza complessiva di questa vicenda ci fanno sorridere i terroristi pasticcioni e le teste di cuoio maldestre. I giornalisti del giornale satirico avrebbero certo riso e disegnato una vignetta su questi comportamenti. L’ironia è l’antidoto più importante e psicologicamente efficace nei confronti del fanatismo e di tutti coloro che si prendono troppo sul serio. A proposito di costoro mi paiono veramente patetici i vari esponenti dell’“intelligence” intervistati nelle varie trasmissioni di intrattenimento. Il buon Dio ci guardi da costoro! Preferisco decisamente la “stupidence” e spero che, se mai ci sarà un terrorista nostrano, come nella migliore commedia all’italiana, un giorno scorderà la bomba e l’altro giorno l’innesco.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/01/11/charlie-hebdo-mi-fa-paura-lintelligence-preferisco-la-stupidence/1330020/
I FONDAMENTALISTI E GLI ULTIMI UOMINI*
di Slavoj Žižek, leparoleelecose.it, 12 gennaio 2015
Ora, mentre siamo tutti sotto choc dopo la furia omicida negli uffici di Charlie Hebdo, è il momento giusto per trovare il coraggio di pensare. Dovremmo, com’è ovvio, condannare senza ambiguità gli omicidi come un attacco alla sostanza stessa delle nostre libertà e farlo senza riserve nascoste (del tipo «comunque Charlie Hebdo provocava e umiliava troppo i Musulmani»). Ma questo pathos di solidarietà universale non è abbastanza. Dobbiamo pensare più a fondo.
Pensare più a fondo non ha nulla a che fare con la relativizzazione a buon mercato del crimine (il mantra «chi siamo noi occidentali, perpetratori di massacri terribili nel Terzo Mondo, per condannare atti simili»). Ha ancora meno a che fare con la paura patologica di molta sinistra liberal occidentale: rendersi colpevole di islamofobia. Per questa falsa sinistra ogni critica verso l’Islam è espressione di islamofobia occidentale: Salman Rushdie fu accusato di aver provocato inutilmente i Musulmani e quindi di essere responsabile, almeno in parte, della fatwa che lo ha condannato a morte, eccetera. Il risultato di una simile posizione è quello che ci può aspettare in questi casi: più la sinistra liberal occidentale esprime la propria colpevolezza, più viene accusata dai fondamentalisti di ipocrisia che nasconde odio per l’Islam. Questa costellazione riproduce perfettamente il paradosso del Super-io: più obbedisci a ciò che l’Altro ti chiede, più sei colpevole. Più tolleri l’Islam, più la pressione su di te è destinata a crescere.
Ecco perché trovo insufficienti i richiami alla moderazione sulla falsariga dell’appello di Simon Jenkins («The Guardian», 7 gennaio), secondo il quale il nostro compito è quello di «non reagire eccessivamente, di non pubblicizzare eccessivamente le conseguenze dell’accaduto. È invece quello di trattare ogni evento come un episodio di orrore passeggero». L’attacco a Charlie Hebdo non è stato un mero «episodio di orrore passeggero»: seguiva un preciso piano religioso e politico e, come tale, era parte di uno schema molto più ampio. Certo: non dobbiamo reagire eccessivamente se per questo si intende soccombere a una cieca islamofobia – dovremmo però analizzare questo piano in modo spregiudicato.
Non abbiamo bisogno di demonizzare i terroristi trasformandoli in fanatici eroi suicidi, ma di sfatare questo mito demoniaco. Molto tempo fa, Friedrich Nietzsche comprese che la cultura occidentale stava andando verso l’Ultimo Uomo, una creatura apatica senza grandi passioni o impegni. Incapace di sognare e stanco della vita, l’Ultimo Uomo non prende rischi; cerca solo comfort e sicurezza, tolleranza verso gli altri: «Un piccolo veleno di tanto in tanto: è quello che ci vuole per fare sogni piacevoli. E più veleno alla fine, per una morte piacevole. Hanno i loro piccoli piaceri diurni e i loro piccoli piaceri notturni, ma hanno riguardo per la propria salute. ‘Abbiamo scoperto la felicità’ – dicono gli Ultimi Uomini, e strizzano l’occhio». Può in effetti sembrare che lo iato tra il Primo Mondo permissivo e la reazione fondamentalista corra sempre di più lungo la linea divisoria fra chi conduce una vita lunga, soddisfacente e piena di ricchezza materiale e culturale, e chi invece dedica la propria esistenza a una qualche Causa trascendente. Non è forse questa l’antitesi fra ciò che Nietzsche chiama nichilismo «passivo» e «attivo»? Noi in Occidente siamo gli Ultimi Uomini nietzschiani, immersi in stupidi piaceri quotidiani, mentre i musulmani radicali sono pronti a rischiare tutto, impegnati nella lotta fino all’autodistruzione. La seconda venuta di William Butler Yeats sembra rendere a pieno la nostra situazione attuale: «I migliori sono privi di ogni convinzione, mentre i peggiori sono pieni di appassionata intensità». È un’eccellente descrizione della frattura tra i liberali anemici e i fondamentalisti appassionati: “i migliori” non hanno più la capacità di impegnarsi interamente; “i peggiori” si impegnano in un fanatismo razzista, religioso, sessista.
Ma i terroristi fondamentalisti corrispondono veramente a questa descrizione? Ciò di cui sono privi è un tratto che si ritrova facilmente in tutti i fondamentalisti veri, dai buddisti tibetani agli Amish americani: l’assenza di risentimento e invidia, la profonda indifferenza verso lo stile di vita dei non-credenti. Se i cosiddetti fondamentalisti di oggi davvero credessero di aver trovato la loro via per la Verità, perché dovrebbero sentirsi minacciati dai non-credenti, perché dovrebbero invidiarli? Quando un buddista incontra un edonista occidentale, a malapena lo condanna: si limita a notare con benevolenza che la ricerca di felicità dell’edonista si sconfigge da sola. A differenza dei veri fondamentalisti, i terroristi pseudo-fondamentalisti sono profondamente turbati, intrigati, affascinati dalla vita peccaminosa dei non-credenti. È facile intuire che, combattendo l’altro peccaminoso, combattano in realtà la loro stessa tentazione.
È qui che la diagnosi di Yeats non è all’altezza della situazione attuale: l’intensità passionale dei terroristi testimonia una mancanza di vera convinzione. Quanto dev’essere fragile la fede di un musulmano se si sente minacciata da una stupida caricatura in un settimanale di satira? Il terrore fondamentalista non si fonda sulla certezza della propria superiorità e sul desiderio di salvaguardare l’identità religiosa e culturale dall’assalto della civiltà consumistica globale. Il problema dei fondamentalisti non è che noi li consideriamo inferiori, ma che loro stessi si sentono segretamente tali. Ecco perché le nostre rassicurazioni condiscendenti e politicamente corrette li rendono solo più furiosi, e nutrono il loro risentimento. Il problema non è la differenza culturale (il loro sforzo di preservare la propria identità), ma praticamente l’opposto: i fondamentalisti sono già come noi; segretamente hanno già introiettato i nostri parametri, alla luce dei quali misurano se stessi.
Paradossalmente, quello che manca ai fondamentalisti è proprio una dose di vera convinzione ‘razzista’: la certezza della propria superiorità. Le recenti vicissitudini del fondamentalismo islamico confermano la vecchia intuizione di Benjamin per cui «ogni ascesa del fascismo reca testimonianza di una rivoluzione fallita»: l’ascesa del fascismo rappresenta il fallimento della sinistra, ma al tempo stesso è la prova che c’era un potenziale rivoluzionario, il malcontento, che la sinistra non è stata capace di mobilitare. La stessa cosa vale per il cosiddetto ‘fascismo islamico’ di oggi? L’ascesa dell’islamismo radicale non è il correlativo esatto della scomparsa della sinistra laica nei paesi musulmani? Quando, nella primavera del 2009, i Talebani conquistarono la valle dello Swat in Pakistan, il «New York Times» scrisse che avevano organizzato «una rivolta di classe che sfrutta divisioni profonde fra un piccolo gruppo di latifondisti ricchi e i loro affittuari senza terra». Se, «approfittando delle condizioni difficili dei contadini», i Talebani stavano «sollevando l’allarme sulle condizioni sociali del Pakistan, che rimane largamente feudale», che cosa impedisce ai democratici liberal in Pakistan, così come negli Stati Uniti, di approfittare allo stesso modo di questa situazione e provare ad aiutare i contadini senza terra? La triste conseguenza di tutto questo è che le forze feudali in Pakistan sono le «alleate naturali» della democrazia liberale…
Che dire dei valori fondamentali del liberalismo: la libertà, l’uguaglianza, eccetera? Il paradosso è che il liberalismo stesso non è abbastanza forte per proteggerli dall’attacco fondamentalista. Il fondamentalismo è una reazione (una reazione falsa, mistificante, com’è ovvio) a un difetto vero del liberalismo, e per questo viene generato di continuo dal liberalismo. Lasciato a se stesso, il liberalismo si indebolirà lentamente da solo: la sola cosa che può salvare i suoi valori fondamentali è una sinistra rinnovata. Per far sopravvivere la sua eredità-chiave, il liberalismo ha bisogno dell’aiuto fraterno della sinistra radicale. È questo l’unico modo per sconfiggere il fondamentalismo, per togliergli il terreno da sotto i piedi.
Pensare in risposta agli assassinii di Parigi significa abbandonare la soddisfazione autocompiaciuta del permissivismo liberale e accettare che il conflitto fra il permissivismo liberale e il fondamentalismo è, in ultima analisi, un falso conflitto – un circolo vizioso fra due poli che si generano e si presuppongono l’uno con l’altro. Ciò che Max Horkheimer disse del fascismo e del capitalismo negli anni Trenta – quelli che non vogliono parlare in modo critico del capitalismo dovrebbero tacere anche sul fascismo – dovrebbe essere applicato anche al fondamentalismo di oggi: quelli che non vogliono parlare in modo critico della democrazia liberale dovrebbero tacere anche sul fondamentalismo religioso.
http://www.leparoleelecose.it/?p=17394#more-17394
*Il pezzo è apparso il 9 gennaio in un diverso formato su repubblica.it:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/01/09/il-vero-complesso-di-inferiorita-dei-fondamentalisti-fragili-e-confusi16.html?ref=search
L'ILLUSIONE LIRICA
di Jacques-Alain Miller, lepoint.fr, 12 gennaio 2015*
Chi l’avrebbe creduto? Chi l’avrebbe detto? La Francia in piedi come un solo uomo, o una sola donna. La Francia divenuta o ridivenuta una. La Repubblica, coraggiosa, intrepida, che ha scelto la resistenza. Finiti gli auto-rimproveri! I Francesi improvvisamente usciti dalla loro depressione, dalle loro divisioni e anche, a sentire un accademico, tornati a essere "i soldati dell'anno II". I Francesi che nuovamente suscitano l’ammirazione del mondo. Il presidente Hollande, ciondolando la testa, accoglie con la sua aria da prima comunione i pochi uomini che hanno nelle loro mani i destini del pianeta. Perché precipitarsi così a Parigi? Si direbbe che vengano per rigenerarsi, ravvivare il loro potere, legittimarlo, lustrarlo. Un pianeta stesso quasi unito, unanime, percorso da uno stesso brivido, che forma come una sola folla, in preda a una pandemia emotiva senza precedenti, se non, forse, il Giorno della Vittoria che mise fine alla Prima Guerra mondiale, la Liberazione di Parigi l’8 maggio 1945.
La Francia, l’umanità, sembrano non essere più delle astrazioni, sembrano prendere carne, incarnarsi sotto i nostri occhi, nei nostri cuori, nei nostri corpi. Noi avremmo dunque conosciuto ciò: “l’illusione lirica”. Impossibile orientarvisi senza Freud e la sua Psicologia delle masse, o anche la sua dottrina della cura. L’evento fa rottura; riconfigura il soggetto, o piuttosto lo fa emergere in una forma inedita. Tuttavia le Borse, finora, non si sono mosse, a differenza dell’11 settembre. Ora, è lì ciò che funge oggi da prova del reale. Finché esse non avranno registrato la scossa, si resta nell’immaginario.
Tutto è stato messo in movimento da tre uomini, non uno di più, che hanno dato la vita in nome del Profeta. Tuttavia, non si è raggiunto questo entusiasmo universale in suo nome, ma in quello di Charlie che sorge al posto. Charlie! Un settimanale che prima che la sua redazione fosse sterminata era già, in mancanza di lettori, all’agonia. Il residuo, lo scarto, di un’epoca dello spirito da tempo superata. È lì che verifichiamo ciò che insegna la psicoanalisi, la potenza che racchiude la funzione del resto. Charlie muore assassinato il mercoledì; la domenica, è la sua resurrezione. La sua trasformazione, la sua sublimazione, la sua Aufhebung, in simbolo universale. Il nuovo Cristo. O, per essere misurati, il Here Comes Everybody di James Joyce.
Dobbiamo questo effetto ai nostri tre jihadisti, questi cavalieri dell’Apocalisse, questi soldati dell’Assoluto. Saranno riusciti in questo: spaventare, gettare nel panico una buona parte del pianeta. Come scriveva ieri in un tweet quella vecchia canaglia di Murdoch, “Big jihadist danger looming everywhere from Philippines to Africa to Europe to US”. È nel numero che ciascuno metterà al riparo la sua paura e la sublimerà in ardore. Il numero è la risposta democratica all’Assoluto. Basterà?
Nessuna religione ha esaltato la trascendenza dell’Uno, la sua separazione, come lo ha fatto il discorso di Maometto. Di fronte all’Assoluto, né il giudaismo, né il cristianesimo lasciano sola la debilità umana. Essi offrono al credente la mediazione, il soccorso di un popolo, di una Chiesa, laddove l’Assoluto islamico non è mitigato, resta sfrenato. È il principio del suo splendore. La certezza è dalla sua parte, laddove si discute della definizione di Ebreo, le Chiese protestanti si accapigliano, il Vaticano stesso è colpito, a dire del Papa, da un “Alzheimer spirituale”. Un altro accademico prescrive all’Islam di sottomettersi alla “prova della critica” per raggiungere la sua vera grandezza. In effetti, tutto sta lì. Quando gli asini voleranno…
Quando si manifesta, come faremo tra qualche ora, ci si rivolge ad un potere che si tratta di piegare. I cortei che tra poco convergeranno su place de la Nation non lo sanno, ma essi si preparano a celebrare il padrone di domani. Qual è? “Ma come, mi si dirà, veniamo a incensare la Repubblica, i Lumi, i Diritti dell’Uomo, la libertà d’espressione” ecc., ecc. Credete veramente, risponderei, M. Poutine, M. Viktor Orban, i Grandi del mondo solidali di questi “valori”? È molto più semplice. Di valore non ne hanno che uno: l’ordine pubblico, il mantenimento dell’ordine. E su questo i popoli si accordano con loro. Il legame sociale, ecco il Bene Supremo. Non ve ne è altro. Si onorano le vittime, senza dubbio. Ma innanzitutto, e ovunque, si conta sulla polizia.
Povero Snowden! Sì, noi vogliamo essere sorvegliati, ascoltati, vigilati, se la vita è a questo prezzo. Grande corsa verso la servitù volontaria. Che dico, volontaria? Desiderata, rivendicata, pretesa. All’orizzonte, il Leviatano, “Pax et Priceps”. Venne un momento a Roma, notava un tempo Ronald Syme, in cui anche i Repubblicani consideravano come male minore “submission to absolute rule”. Houellebecq su questo punto non ha torto: la tendenza oggi, contrariamente alle apparenze, non è la resistenza, ma la sottomissione.
Traduzione di Rosanna Tremante. Revisione di Giuliana Zani
*Testo reperito sulla pagina Facebook dell'Istituto Freudiano del 12 gennaio 2015
https://www.facebook.com/istituto.freudiano.3?fref=ts
Testo originale:
http://www.lacanquotidien.fr/blog/wp-content/uploads/2015/01/LQ-454.pdf
http://www.lepoint.fr/invites-du-point/jacques-alain-miller/jacques-alain-miller-marche-republicaine-l-illusion-lyrique-12-01-2015-1895804_1450.php
QUELLA PIAZZA ILLUMINISTA CHE HA SALVATO LA VERA IDEA D'EUROPA
di Julia Kristeva, repubblica.it, 13 gennaio 2015
Per continuare:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/01/13/quella-piazza-illuminista-che-ha-salvato-la-vera-idea-deuropa13.html?ref=search
MOSÈ ALLA LOTTA ARMATA. IL «MEZZO NECESSARIO»
Al cinema. Preceduto da polemiche, divieti nei paesi musulmani e critiche in America sul casting, arriva in sala «Exodus. Dei e Re», il peplum biblico di Ridley Scott in 3D
di Cristina Piccino, Giona A. Nazzaro, ilmanifesto.info, 14 gennaio 2015
Sulla veridicità storica Scott è stato criticato anche da molta stampa occidentale, così come sulla scelta degli attori — nessun African-American se non per le parti di schiavi — a cominciare dal ruolo principale, Mosè, interpretato dal Batman Christian Bale. «Scott non è Mel Brooks, Exodus è grottesco solo a suo discapito» ha scritto il New York Times dopo l’uscita americana il mese scorso. Variety, invece, pur condividendo le critiche relative al casting, ne ha apprezzato gli aspetti meramente spettacolari. La critica d’oltralpe (Libération, Le Monde) lo ha stroncato duramente a sua volta, sostenendo che Scott riduce la Bibbia a un blockbuster (Le Monde), cosa che di per sé non sarebbe poi così disprezzabile. È vero, Ridley Scott si prende molte libertà, nel dialogo ad esempio con l’utilizzo, almeno nella versione italiana, di termini contemporanei, come quando alla ragazza madianita che diverrà sua moglie, Zippora (o Sefora) — Maria Valverde — Mosè parlando della corte dei faraoni dice che lì sono senz’altro «più civilizzati» rispetto a Madian, l’oasi di pastori sperduta nel deserto in cui ha trovato rifugio durante la sua fuga.
In questo senso, pur essendo chiaramente un film «politico», sia rispetto a quanto dichiara sulla Hollywood di oggi, sia riguardo alla posizione che assume non tanto nei confronti dei testi sacri, quanto al classico di De Mille, Scott si premura soprattutto di fare un film «à la Ridley Scott». Pertanto taglia senza problemi i quarant’anni nel deserto in attesa di entrare a Canaa, le lotte interne degli israeliti, elimina il vitello d’oro e le orge, anche se si intuisce, osservando il finale vagamente «tronco», che forse il regista progettava una durata ancora maggiore delle quasi tre ore (150′) attuali. Tutto questo comunque fa parte della tradizione del peplum cui Exodus. Dei e re — kolossal in 3D con due anni di lavorazione, e nel cast attori come Ben Kingsley che nel frattempo sono scomparsi — aderisce. A cominciare proprio dalla «modernizzazione» dei miti di partenza, la Bibbia e il cristianesimo del dio crudele delle antiche scritture rigenerato poi dall’avvento di Gesù Cristo. Non è la prima volta per Scott, che si è già cimentato con l’antica Roma ai tempi di Gladiator, e che nelle possibilità tecnologiche trova un buon mezzo per ripercorrere il genere mischiando le carte.Da calligrafo impertinente e ormai fuori tempo massimo, avendo raggiunto a suo modo una classicità atemporale (come notava su queste pagine Giulia D’Agnolo Vallan a proposito di The Counselor), ultimo esponente di quel post-moderno chic che con il celebrato Blade Runner ha mietuto migliaia di vittime fra la critica che l’ha elevato agli onori della politique des auteurs, Scott trova oggi, paradossalmente, più che ieri, una sua bizzarra necessità, come fautore di un gesto cinematografico olimpicamente gratuito. Ed è proprio nei suoi film più facilmente attaccabili, come Le crociate, tanto per restare in ambito di temi «caldi», che si ritrova anche un indizio di sguardo sul mondo del regista (proprio come The Counselor non era altro che la crisi della finanza occidentale ridotta a un’ossessione del principio di piacere).
Più che l’interpretazione religiosa, al regista sembrano interessare altre questioni nella storia di Mosè, il ragazzo cresciuto alla corte del Faraone (John Turturro) che lo predilige al proprio figlio, intuendo in lui una intelligenza e una forza morale assenti nella prole, ma che si scopre a un certo punto di essere israelita. Anzi di più, di essere colui che gli israeliti schiavi degli egiziani ormai da secoli aspettano per compiere il loro riscatto. Ed è proprio questo il nodo cruciale su cui Scott costruisce il «suo» Mosè: «Si deve combattere o restare per sempre schiavi» ripete l’uomo al suo popolo che addestra militarmente, e spinge alla lotta armata, unico «mezzo necessario» per farcela (quasi una retrodatazione dell’immagine nuova dell’ebreo sorta dal sionismo dopo la Shoah), seppure con l’aiuto di dio — che non è indifferente allo scontro e che invia le dieci piaghe e apre il Mar Rosso per lasciare passare il popolo ebraico, richiudendolo sull’esercito di Ramses (Joel Edgerton).
Mutando il segno però l’immagine delle armi contro l’oppressore può adattarsi anche a altro: le piazze arabe in rivolta di questi ultimi anni, o nella caccia agli israeliti messa in atto dall’esercito di Ramses, si possono vedere i tank israeliani a Gaza… L’azione (armata) assume la forma di una guerriglia: attacchi ai convogli alimentari, alle risorse del popolo egizio ecc. Con una differenza: senza la fede, senza cioè l’intervento divino, tutto questo si risolve in poca cosa. (Exodus ci dice infatti che tutte le guerre, al di là delle eventuali ragioni di Stato, anche quelle di emancipazione, sono diventate guerre di religione. La modalità di lotta degli israeliti che seguono Mosè potrebbe far pensare alle azioni dei gruppi sionisti in Palestina. Del sionismo, d’altra parte, questo Mosè incarna lo spirito, l’idea dell’uomo fisicamente e mentalmente all’altezza delle sfide, l’Uomo nuovo cresciuto nei kibbutz che si contrapponeva alla figura debole dell’intellettuale europeo che era stato massacrato dal nazismo. Lo sconforto spaesato e passivo a cui erano stati piegati i tanti cittadini europei ebrei chiusi prima nei ghetti e poi uccisi, non doveva più essere possibile, andava contrastato coltivando il corpo, le armi, la capacità di combattere. Non c’è giudizio in questo, ma solo chiavi di possibile accesso legando appunto il mito alla storia, ed ecco che diventa tangibile l’evocazione dell’erranza associata al popolo ebraico: una moltitudine di persone costrette al moto perpetuo.
È l’aspetto più interessante del film: Scott ci ricorda che una volta anche gli ebrei erano dei palestinesi. E Mosè, da condottiero militare, vede anche nel futuro i conflitti che avranno come protagonista il suo popolo. La guerra non finisce mai. Senza contare che lo stesso Mosé venne rimproverato per essersi sposato con una donna «straniera». L’iconografia novecentesca della Storia d’Israele rimane comunque il riferimento principale che Scott innesta nel suo racconto biblico. Dio che viene mostrato nelle sembianze di un ragazzino implacabile, somiglia ai bimbi ebrei chiusi nei lager hitleriani (e quando Ramses scatena la sua repressione nel ghetto degli schiavi israeliti non si può non pensare ai rastrellamenti nei ghetti dell’Europa della seconda guerra mondiale).
Ed è proprio il dio bambino l’aspetto più curioso del film. Stando allo schema delle cinque fasi freudiane, il dio immaginato da Steven Zaillian e dal suo pool di sceneggiatori sarebbe un bambino che si trova nella «fase di latenza», il quarto periodo di sviluppo psicosessuale. In questa fase la libido è dormiente e le pulsioni sublimate in altre direzioni. Freud suggerisce che questa fase serve per sviluppare la socializzazione e dare vita a rapporti di amicizia con soggetti dello stesso sesso. É quando il gioco diventa sempre più serio e privo di implicazioni sentimentali e, soprattutto, si sviluppa il senso di dominio e di moralità. E il bambino inizia a identificarsi con il padre. Come dire che dio si vede come… Dio. Per questo suscitano molto interesse le modalità attraverso le quali Scott rievoca la scrittura delle tavole della legge. Mosè, ricurvo sulla pietra come San Gerolamo nel suo studio, scrive mentre Dio gli parla. Ma Dio gli parla d’altro.
Mosè è l’amico di Dio (il bambino che sviluppa la sua capacità di socializzazione). Ed è da questo dialogo, tenero e rude, brusco, che scaturisce la legge, precetti che servono per tenere unito un popolo in cammino. La scrittura, ossia la parola resa disponibile, riproducibile, diventa uno strumento per creare da un popolo una società. Scott non dice che la legge è la parola di Dio. (Potrebbe anche essere la dolce allucinazione di un uomo che ha combattuto per tutta la vita e s’immagina una tregua…). Si limita a suggerire che Mosè, in quanto militare giunto alla fine della sua carriera, ha bisogno di uno strumento più potente delle armi per tenere unito il suo popolo: la parola diventa scrittura.
http://ilmanifesto.info/mose-alla-lotta-armata-il-mezzo-necessario/
NUOVA EUROPA: SPERANZA RINATA CON LA MARCIA DI PARIGI
di Michele di Schiena, quotidianodipuglia.it, 14 gennaio 2015
Gli attentati di Parigi e i massacri che quotidianamente si consumano in Medio Oriente, in Africa e in altre parti del mondo sono atti criminali di natura terroristica del tutto estranei al concetto di guerra. Ma dal momento che, a dispetto di tale evidenza, si continua a parlare di scontro di civiltà e di stato di guerra da parte di esponenti di alcune forze politiche e, sia pure con spirito diverso, da parte di alcuni osservatori forse suggestionati dalla gravità dei fatti, vale la pena ricordare che la guerra consiste in un complesso di operazioni attraverso il quale si sviluppa la lotta armata tra Stati o coalizioni di Stati per la soluzione di conflitti economici o politici mentre per terrorismo si intende una lotta scatenata, sempre per motivi politici o ideologici, da gruppi clandestini impegnati a provocare uccisioni e disastri mediante violenze indiscriminate e destabilizzanti.
Sia la guerra che il terrorismo colpiscono diritti essenziali di persone indifese e innocenti ma mentre per la guerra ciò accade come conseguenza non direttamente voluta (i cosiddetti effetti collaterali) ma pur sempre accettata come rischio e perciò frutto di una intenzionalità di secondo grado definita in dottrina giuridica “dolo indiretto”, nel terrorismo l’attacco alla vita e ad altri diritti essenziali di civili innocenti è chiaramente voluto ed è quindi l’effetto di una intenzionalità di primo grado (denominata “dolo diretto”). E non basta, perché le guerre sono sempre in qualche modo soggette ad alcune regole di diritto internazionale mentre le operazioni di terrorismo si pongono fuori dall’ambito del diritto bellico e costituiscono perciò atti di indubbia natura delinquenziale. Ne discende che quando si parla di guerra con riferimento agli eccidi del terrorismo islamico si commette un duplice errore: si applica a tali atti l’etichetta bellica coprendone la natura terroristico-criminale e, ciò che è ancora più grave, si finisce per riconoscere soggettività internazionale a organizzazioni criminali sanguinarie che perseguono proprio tale obiettivo per accrescere il loro sinistro prestigio.
La lotta al terrorismo islamico va portata avanti con la massima determinazione su due fronti: quello dell’impegno per mettere in cantiere all’interno delle democrazie occidentali e nel mondo politiche di maggiore giustizia combattendo le intollerabili disuguaglianze sociali che sono il terreno di coltura di tutti i terrorismi e di tutte le organizzazioni criminali e quello di potenziare i servizi di polizia nazionali, europei e a livello mondiale, sia sul versante preventivo, affinando e coordinando le attività delle strutture di intelligence e sia sul versante repressivo, potenziando i servizi di protezione e di investigazione. E a questo riguardo va ricordato che lo Statuto dell’Onu affida al Consiglio di Sicurezza la responsabilità di intraprendere le azioni necessarie (compreso il ricorso all’uso della forza) per mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Ma c’è di più e cioè che nel settembre del 2005 in sede di Assemblea Generale delle Nazioni Unite un vertice di capi di Stato e di Governo approvò un documento (denominato “Responsabilità di protezione”) che estendeva il potere di intervento del Consiglio di Sicurezza anche all’interno di singoli Stati quando questi dovessero venire meno al dovere di proteggere le loro popolazioni da “genocidi, crimini di guerra, pulizie etniche e crimini contro l’umanità”.
Norme queste malinconicamente rimaste solo sulla carta mentre in Medio Oriente, in Africa e in altre parti del mondo si commettono indicibili eccidi. Per combattere il terrorismo islamico e tutte le violenze che seminano morte e dolore occorre quindi più democrazia, più partecipazione e più inclusione. E occorre anche un’Europa che riaffermi il primato della politica su quello dei mercati e realizzi la sua unità politico-istituzionale così come è necessario dare all’Onu maggiore autorità, poteri effettivi e necessari mezzi. Ma ciò che soprattutto occorre è un radicale cambiamento di mentalità che abbia l’ambizione di tradurre in scelte concrete la logica della parabola del Buon Samaritano evocata dallo psicoanalista laico Luigi Zoja (“La morte del prossimo” Einaudi, 2009) il quale afferma che in tale parabola “Cristo propose un salto morale rivoluzionario. Al tempo stesso impose un ideale elevatissimo, sentito dai circostanti come poco realizzabile, e in parte antipsicologico: amare lo straniero” e si può più ampiamente aggiungere amare il prossimo e specialmente gli ultimi. Un “salto morale” per il quale la “liberté” non sia solo libertà di fare ciò che non nuoce agli altri ma anche libertà dal bisogno e da tutti gli asservimenti, la “legalité” non si esaurisca nelle pari opportunità ma includa anche l’impegno civile per assicurare ai più deboli una vita libera e dignitosa e infine la “fraternité” non sia soltanto un generico sentimento di benevolenza verso gli altri ma anche la scelta di costruire il bene comune con politiche ispirate alla “regola d’oro” di tutte le grandi tradizioni culturali e religiose, quel principio di reciprocità espresso nell’esortazione: “fate costantemente agli altri il bene che vorreste ricevere”.
http://www.quotidianodipuglia.it/pensierieparole/nuova_europa_speranza_rinata_con_la_marcia_di_parigi/notizie/1118378.shtml
I più recenti pezzi apparsi sui quotidiani di Massimo Recalcati e Sarantis Thanopulos sono disponibili su questo sito rispettivamente a questi link:
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4545
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4788
(Fonte dei materiali proposti: http://rassegnaflp.wordpress.com)