GALASSIA FREUD
Materiali sulla psicoanalisi apparsi sui media
Settembre 2015 I - Clinici, scrittori, artisti
12 settembre, 2015 - 15:25
LA SCOMPARSA DI OLIVER SACKS. La scomparsa del neurologo e scrittore. I casi clinici sono stati il bacino dal quale ha attinto per libri di successo su alcune patologie del cervello
di Gianluca Consoli, ilmanifesto.info, 1 settembre 2015
Neurologo e scrittore di fama, Oliver Sacks è stato uno degli intellettuali più noti e influenti degli ultimi decenni: l’esplosione della sua notorietà è datata almeno dal 1990, anno in cui uscì il film Risvegli, interpretato da due grandi attori come Robin Williams e Robert De Niro, e liberamente ispirato all’omonimo libro, uscito nel 1973 (ma in Italia solo nel 1987), nel quale Sacks racconta di un gruppo di pazienti sopravvissuti all’encefalite letargica che sperimentano una nuova cura. Il libro, del resto, era già stato oggetto di un pezzo teatrale, scritto nel 1982 da Harold Pinter, intitolato A kind of Alaska, e già da tempo Sacks era stato arruolato fra le firme del The New Yorker e della New York Review of Books. È evidente che la fama di Sacks dipende direttamente dalla sua straordinaria capacità di trasformare la propria esperienza di medico, in particolare di neurologo, in veri e propri racconti letterari: una capacità così rara e singolare che si deve pescare, per rintracciare quello che è probabilmente il suo unico antecedente, nel Freud dei casi clinici, anche quelli – come si è tante volte detto – non inferiori, quanto a narratività, a veri e propri racconti. Se non proprio come Freud, anche Sacks è stato piuttosto prolifico: tra i suoi libri più noti, L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello (1986), Su una gamba sola (1991), Un antropologo su Marte(1995), L’isola dei senza colori (1997), Allucinazioni(2013).
La materia dell’anima
Quel che insegna l’esperienza di Sacks è che questa profonda interrelazione tra la professione medica e la vocazione letteraria non va semplicemente ricondotta alla sua personalità poliedrica e multiforme. Certamente anche questo aspetto ha giocato un ruolo importante: Sacks ha coltivato forti passioni fuori dalla neurologia, prima di tutto per la chimica – della quale ha parlato nella sua autobiografia Zio Tungsteno – Ricordi di un’infanzia chimica (2002), poi per la musica, ben identificabile in uno degli ultimi libri: Musicofilia (2008). Tuttavia, proprio come i «racconti» di Freud erano in qualche modo intrinseci alla sua concezione della psicoanalisi, così l’interazione che lega in modo inscindibile la pratica medica di Sacks e i suoi racconti letterari ha la sua prima e più profonda ragione d’essere nella concezione che aveva dell’uomo e delle neuroscienze. Sul primo fronte, c’è da sottolineare la notevole importanza culturale che i testi di Sacks hanno avuto nella loro capacità di scuotere convinzioni secolari. In linea con un modo di pensare che oggi ha quasi lo statuto di un vera e propria ortodossia negli ambienti filosofici e scientifici (ma che non era affatto tale quando Sacks cominciò a sostenerlo già negli anni Settanta del secolo scorso), l’Io non è una cosa, una sostanza, un’anima immateriale che alberga nell’uomo. Tuttavia dice il neurologo Sacks, l’io non è nemmeno riducibile al cervello, alle sue connessioni neurali, a qualche area cerebrale. È piuttosto una narrazione, un insieme più o meno integrato e coerente di storie che ciascuno di noi racconta a se stesso e agli altri per comprendersi e interagire: dunque, per dare senso al passato, al presente e al futuro. Per capire chi si è, quali sono i nostri valori, dove puntano i nostri scopi.
L’Io non è l’anima, né la rete neurale che la implementa: è la storia che noi stessi non smettiamo mai di riscrivere con l’aiuto e la complicità degli altri. Tanto che, come ormai dimostrano numerosissimi studi sperimentali, tra l’esigenza di corrispondere alla realtà e l’esigenza di raccontare una storia di noi accettabile e soddisfacente, propendiamo verso la seconda istanza, anche se si tratta di tacere, reinterpretare, inventare interi spezzoni di vita. È dunque evidente che se l’io è una storia (o meglio, come va di moda dire oggi, il centro di gravità narrativa delle storie che lo costituiscono), il neurologo che si confronta quotidianamente con le sindromi e le patologie neurologiche ha l’occasione di assistere a storie straordinarie, così fuori dal comune che premono per essere raccontate e divenire patrimonio di tutti. Proprio questo ha fatto Sacks: interpretare, restituire e condividere ciò che vedeva. In quello che molti considerano il suo libro più riuscito, L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, ventiquattro casi esemplificano le più disparate sindromi e patologie dando vita a esistenze così incredibili che solo l’autorità della scienza può garantirne la veridicità. Scegliendo a caso, prendiamo il terzo racconto, quello della Disincarnata: è la storia di una giovane donna in perfetta forma fisica che a seguito di un’infezione perde completamente la propriocezione, la capacità di avvertire l’appartenenza al proprio corpo attraverso il flusso di informazioni inconscio e automatico che proviene da muscoli, tendini e articolazioni. Il danno è così profondo che, come rivela la donna stessa, le accade di perdere le braccia, cioè di crederle in un posto mentre sono in un altro. Di punto in bianco, allora, la sua storia diviene quella formata da tutti gli espedienti artificiali a cui deve ricorrere per rendere la sua vita «possibile, ma non normale». Per esempio, sostituire fin dove può la propriocezione con la vista: se chiude gli occhi si accascia senza forza nei muscoli.
Segue qui:
http://ilmanifesto.info/la-scomparsa-di-oliver-sacks/
L’Io non è l’anima, né la rete neurale che la implementa: è la storia che noi stessi non smettiamo mai di riscrivere con l’aiuto e la complicità degli altri. Tanto che, come ormai dimostrano numerosissimi studi sperimentali, tra l’esigenza di corrispondere alla realtà e l’esigenza di raccontare una storia di noi accettabile e soddisfacente, propendiamo verso la seconda istanza, anche se si tratta di tacere, reinterpretare, inventare interi spezzoni di vita. È dunque evidente che se l’io è una storia (o meglio, come va di moda dire oggi, il centro di gravità narrativa delle storie che lo costituiscono), il neurologo che si confronta quotidianamente con le sindromi e le patologie neurologiche ha l’occasione di assistere a storie straordinarie, così fuori dal comune che premono per essere raccontate e divenire patrimonio di tutti. Proprio questo ha fatto Sacks: interpretare, restituire e condividere ciò che vedeva. In quello che molti considerano il suo libro più riuscito, L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, ventiquattro casi esemplificano le più disparate sindromi e patologie dando vita a esistenze così incredibili che solo l’autorità della scienza può garantirne la veridicità. Scegliendo a caso, prendiamo il terzo racconto, quello della Disincarnata: è la storia di una giovane donna in perfetta forma fisica che a seguito di un’infezione perde completamente la propriocezione, la capacità di avvertire l’appartenenza al proprio corpo attraverso il flusso di informazioni inconscio e automatico che proviene da muscoli, tendini e articolazioni. Il danno è così profondo che, come rivela la donna stessa, le accade di perdere le braccia, cioè di crederle in un posto mentre sono in un altro. Di punto in bianco, allora, la sua storia diviene quella formata da tutti gli espedienti artificiali a cui deve ricorrere per rendere la sua vita «possibile, ma non normale». Per esempio, sostituire fin dove può la propriocezione con la vista: se chiude gli occhi si accascia senza forza nei muscoli.
Segue qui:
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BALLERINI, ROSAI: “L’ESAME SI FA IN DUE. E L’ANSIA NON DEVE DIPENDERE DA NOI”
di Valeria Rosai, Luigi Ballerini, avvenire.it, 2 settembre 2015
Gentile dottor Ballerini, tra pochi giorni comincerò gli esami e mi sento dominata dall’ansia di non riuscire ad affrontarli al meglio, nonostante abbia lavorato seriamente in questi mesi estivi. La paura dell’insuccesso mi impedisce di essere lucida nel lavoro di ripasso di questi ultimi giorni. Forse è solo una questione di atteggiamento, forse si può imparare una sorta di autocontrollo che mi permetta di dominare l’ansia e la sensazione di non essere adeguata? Oppure è necessario un lavoro più profondo su me stessa per riuscire ad essere serena di fronte ad una prova così importante? Valeria Rosai
Cara Valeria, innanzitutto grazie per la tua lettera, così sincera e personale. Mi informi che stai per fronteggiare gli esami di settembre a scuola, e che ciò ti procura ansia, come la chiami tu. Anche il lavoro del ripasso finale sembra compromesso da questo tuo sentire. Vorrei innanzitutto dirti che nella tua situazione un certo stato di tensione è frequente e anche normale. Sai, deriva dal fatto che l’esito di un esame non è mai solo in mano nostra. Succederà così anche all’università, se la frequenterai più avanti. Si è sempre in due a fare l’esame, lo studente e l’insegnante, e le ragioni del suo risultato sono equamente distribuite. Intendo dire che entrambe le parti ci mettono del proprio, per questo non possiamo mai essere sicuri di come andrà. Però, mi scrivi anche che quest’estate hai lavorato e ti sei impegnata, quindi siamo sicuri che hai fatto la tua parte. A questo punto ti auguro di non trovarti davanti un insegnante che sia un cacciatore di lacune o un intercettatore di mancanze, il tipo che è contento solo di scovare quello che non sai. Che sia piuttosto un valorizzatore del lavoro svolto, ossia desideroso di avere e dare soddisfazione. Se hai lavorato, meriti questa soddisfazione.
Segue qui:
http://www.avvenire.it/rubriche/Pagine/Giovani%20storie/L%20esame%20si%20fa%20in%20due.%20E%20l%20ansia%20non%20deve%20dipendere%20da%20noi_20150902.aspx?rubrica=Giovani+storie
Cara Valeria, innanzitutto grazie per la tua lettera, così sincera e personale. Mi informi che stai per fronteggiare gli esami di settembre a scuola, e che ciò ti procura ansia, come la chiami tu. Anche il lavoro del ripasso finale sembra compromesso da questo tuo sentire. Vorrei innanzitutto dirti che nella tua situazione un certo stato di tensione è frequente e anche normale. Sai, deriva dal fatto che l’esito di un esame non è mai solo in mano nostra. Succederà così anche all’università, se la frequenterai più avanti. Si è sempre in due a fare l’esame, lo studente e l’insegnante, e le ragioni del suo risultato sono equamente distribuite. Intendo dire che entrambe le parti ci mettono del proprio, per questo non possiamo mai essere sicuri di come andrà. Però, mi scrivi anche che quest’estate hai lavorato e ti sei impegnata, quindi siamo sicuri che hai fatto la tua parte. A questo punto ti auguro di non trovarti davanti un insegnante che sia un cacciatore di lacune o un intercettatore di mancanze, il tipo che è contento solo di scovare quello che non sai. Che sia piuttosto un valorizzatore del lavoro svolto, ossia desideroso di avere e dare soddisfazione. Se hai lavorato, meriti questa soddisfazione.
Segue qui:
http://www.avvenire.it/rubriche/Pagine/Giovani%20storie/L%20esame%20si%20fa%20in%20due.%20E%20l%20ansia%20non%20deve%20dipendere%20da%20noi_20150902.aspx?rubrica=Giovani+storie
ELVIO FACHINELLI: IL CLINICO CHE RIDEFINÌ L’OSCENO
di Pietro Barbetta, doppiozero.com, 2 settembre 2015
Tempo fa William Buckley rimproverava Allen Ginsberg di comporre opere oscene per via del suo linguaggio; invitato a una trasmissione televisiva gestita dallo stesso Buckley, Ginsberg rispose che oscene non sono le parole, ma le morti durante l’allora guerra del Viet-Nam. La biografia culturale di Elvio Fachinelli (1928-1989) sembra una genealogia Biblica. Il suo analista fu Cesare Musatti (1897-1989), il quale – considerato uno dei Padri della psicoanalisi italiana – si formò con Edoardo Weiss (1889-1970), il primo psicoanalista italiano. Weiss era, a sua volta, in supervisione dallo stesso Sigmund Freud. Nonostante le sue origini nobili e ortodosse, Fachinelli fu tra gli psicoanalisti che più cambiarono la psicoterapia in Italia.
In primo luogo rifiutò l’idea di “resistenza del paziente” a favore dell’accoglienza della “persona che frequenta l’analisi”, spostando la responsabilità della terapia sull'”esperto”. Negli anni Settanta nacque e si diffuse la strana idea che se c’è fallimento nella relazione tra il professionista e il suo utente, la responsabilità è del professionista, non dell’utente. Per esempio, se un tempo una persona moriva legata a un letto, si attribuiva la morte alla furia della persona. Basaglia per primo ebbe l’idea di invertire l’ordine delle responsabilità nei manicomi. Don Milani invertì l’ordine delle responsabilità nelle scuole. Lo stesso Fachinelli contribuì, con altri autori, a fondare una scuola libera, nell’epoca in cui veniva messo in discussione il ruolo dell’insegnamento. C’erano assonanze tra queste imprese. Quel che si ricorda meno di Fachinelli è il suo modo di ripensare il settting clinico, i limiti discorsivi e le pratiche inscritte in quel setting, la sua parte oscena.
Lo fece prima di quando Foucault pubblicò La volontà di sapere, nel novembre 1976. Foucault aveva indicato la psicoanalisi come luogo dove il desiderio incestuoso si trasforma in discorso, trattamento riservato alle élite borghesi, costantemente occupate a gestire perversioni e sentimenti di colpevolezza. Fachinelli aveva posto la medesima questione in modo ancor più radicale. A una conferenza nel 1975, parlando del Denaro dello psicoanalista, aveva contrapposto il contratto terapeutico classico – che vede il paziente nevrotico parlare di avversioni sessuali, ossessioni, manie e fissazioni – a un contesto sociale ampio, dove i soggetti possono raccontare storie di vita, di salari, politica, religione, lavoro, famiglia.
“Nell’analisi – scriveva Fachinelli – qualcuno, l’analista, offre a pagamento una prestazione, un servizio, un’assistenza, chiamatelo come volete, qualcosa che nella sostanza è dell’ordine del lavoro, mentre qualcun altro, l’analizzando, chiede contro denaro qualcosa che è sempre nell’ordine di eros e della sua storia”.
Segue qui:
http://www.doppiozero.com/rubriche/336/201508/elvio-fachinelli-il-clinico-che-ridefini-losceno
In primo luogo rifiutò l’idea di “resistenza del paziente” a favore dell’accoglienza della “persona che frequenta l’analisi”, spostando la responsabilità della terapia sull'”esperto”. Negli anni Settanta nacque e si diffuse la strana idea che se c’è fallimento nella relazione tra il professionista e il suo utente, la responsabilità è del professionista, non dell’utente. Per esempio, se un tempo una persona moriva legata a un letto, si attribuiva la morte alla furia della persona. Basaglia per primo ebbe l’idea di invertire l’ordine delle responsabilità nei manicomi. Don Milani invertì l’ordine delle responsabilità nelle scuole. Lo stesso Fachinelli contribuì, con altri autori, a fondare una scuola libera, nell’epoca in cui veniva messo in discussione il ruolo dell’insegnamento. C’erano assonanze tra queste imprese. Quel che si ricorda meno di Fachinelli è il suo modo di ripensare il settting clinico, i limiti discorsivi e le pratiche inscritte in quel setting, la sua parte oscena.
Lo fece prima di quando Foucault pubblicò La volontà di sapere, nel novembre 1976. Foucault aveva indicato la psicoanalisi come luogo dove il desiderio incestuoso si trasforma in discorso, trattamento riservato alle élite borghesi, costantemente occupate a gestire perversioni e sentimenti di colpevolezza. Fachinelli aveva posto la medesima questione in modo ancor più radicale. A una conferenza nel 1975, parlando del Denaro dello psicoanalista, aveva contrapposto il contratto terapeutico classico – che vede il paziente nevrotico parlare di avversioni sessuali, ossessioni, manie e fissazioni – a un contesto sociale ampio, dove i soggetti possono raccontare storie di vita, di salari, politica, religione, lavoro, famiglia.
“Nell’analisi – scriveva Fachinelli – qualcuno, l’analista, offre a pagamento una prestazione, un servizio, un’assistenza, chiamatelo come volete, qualcosa che nella sostanza è dell’ordine del lavoro, mentre qualcun altro, l’analizzando, chiede contro denaro qualcosa che è sempre nell’ordine di eros e della sua storia”.
Segue qui:
http://www.doppiozero.com/rubriche/336/201508/elvio-fachinelli-il-clinico-che-ridefini-losceno
TUTTO ALDIQUÀ?
di Umberto Silva, ilfoglio.it, 2 settembre 2015
La decadenza dell’Europa non è colpa dei migranti né della crisi economica, ma ha inizio con il crollo della credenza nell’Aldilà, predica Alain Finkielkraut, certo non l’ultimo arrivato sulla scena filosofica. Una tesi sostenibile: la vita terrena da sola non regge quell’irrimediabile malessere che fin dalla nascita tormenta gli umani; privati di una seconda chance, ci diamo un gran daffare per rendere attraente la prima, ma l’indaffaramento produce avidità e disastri. Tres medici duo athei, si diceva un tempo lontano; ora atei senza futuro sono anche i rassegnati pazienti. La medicina ci ha regalato cinquant’anni di vita in più ma miliardi ce ne ha tolti: l’eternità. Una perdita enorme in sicurezza e speranza, un buco nero al quale Papa Francesco si sta sforzando di mettere una mondana pezza; ma ormai “Paradiso” è diventata una parola tanto compromettente quanto priva di sex appeal.
A questo tragico punto, per rialzare le sorti dell’Aldilà ci vorrebbe un autorevolissimo quanto sorprendente intervento da parte di qualcuno che di parte non è e il cui solo nome fa drizzare le orecchie; ma chi? Galassi, presidente dell’editore Farrar Straus and Giroux, la casa editrice di Jonathan Franzen, di recente ha definito “Purity”, il messianicamente atteso Grande Romanzo, “un’epica multi-generazionale americana che abbraccia decenni e continenti”. Un’annunciazione che colpisce: se nelle sue predicazioni Franzen fa un endorsement all’Aldilà, forse è la volta che tutti torniamo a confessare i nostri peccati invece di passare il tempo a giustificarli. Franzen, non altri. Se a Trump-Trump viene in mente di perorare la causa dell’Aldilà, siamo fritti; al Papa ormai si fa pat pat sulla spalla, come a dirgli: vabbè tu ce l’hai messa tutta, pazienza, diventeremo polvere; ma se è Franzen a prendere partito, un uomo cui la meritata ricchezza fa un baffo tanto è soffuso di gloria, veggenza e saggezza, siamo pronti a seguirlo. Se ai politici non crediamo più, ai grandi scrittori sì.
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2015/09/02/tutto-aldiqu___1-vr-132335-rubriche_c145.htm
SERGIO BENVENUTO. IL FONDO OPACO DEL REALE
di Leeanne Minter, doppiozero.com, 3 settembre 2015
Nel presentare l’ultimo lavoro di Sergio Benvenuto La psicoanalisi e il reale. “La negazione” di Freud (Orthotes 2015) vogliamo qui proporre una lettura che partendo dalle considerazioni finali avanzate dall’autore risalga il testo in un movimento a contropelo tramite cui l’argomentazione esplicatava trovi una propria “negazione”, in termini freudiani, ed elevazione, nel senso dell’Aufhebung, all’interno di quella che riteniamo sia la proposta sottaciuta e al contempo svelata in filigrana di un’etica della pratica analitica. Etica che si fonda sulla volontà e capacità della psicoanalisi fin dalle sue origini di occuparsi in termini filosofici e genealogici dell’archè, ossia di quell’elemento trascendentale, identificato da Freud con Eros, che fonda l’essere del soggetto ponendosi come causa e fine del suo agire a tutti i livelli. Senza fare i conti con Lust, che Benvenuto propone di tradurre con desiderio-godimento, non è possibile alcuna etica, come ricorda anche Lacan nel suo Seminario settimo, se non quella mercantile che corrisponda ad un soggetto completamente inserito in un immaginario tipico di una filosofia utilitarista il cui assunto di base, in ciò identico al discorso del capitalista, è che ciascun individuo usando le proprie credenze miri a soddisfare edonisticamente i propri desideri giungendo così alla felicità.
Per Freud così come per Lacan che porta alle estreme conseguenze gli assunti avanzati dal padre della psicoanalisi, le cose sono evidentemente più complesse in quanto il desiderio stesso è un’entità complessa, o per usare le parole di Benvenuto, originariamente contraddittoria. Sarebbe questa l’acquisizione fondamentale a cui si perviene tramite la lettura del brevissimo, ma denso saggio freudiano del 1925 “La negazione” (Die Verneinung): Lust in quanto desiderio-godimento è al contempo se stesso e il suo contrario Unlust. Per affermare questo, scrive Benvenuto, lo stesso Freud si affida, in questo testo così come in altri, a un linguaggio che rischia costantemente, soprattutto secondo l’ottica di un lettore superficiale o di un suo dichiarato detrattore, di cadere in contraddizione. Dalla prospettiva di un approccio positivista si può dunque vedere in questo una debolezza del pensiero freudiano oppure come fa Benvenuto, sulla scia di Lacan, ritenere che questo uso del linguaggio sia il solo in grado di porsi all’altezza dell’oggetto che designa, attraverso una corrispondenza che non è meramente di ordine significante, bensì si potrebbe dire di carattere ontologico. La parola di Freud, afferma Lacan, è una parola piena nel senso che svela qualcosa di fondamentale della soggettività, ragion per cui possiamo affermare non può che ripetere svelandola quella contraddizione strutturale su cui si fonda la stessa soggettività. È questo, a nostro avviso, il gesto etico fondamentale di Freud che tenta di fondare una genealogia del soggetto a partire dal desiderio-godimento (Lust). Gesto etico e politico che ripete Benvenuto nel momento in cui facendo un lavoro certosino di scavo etimologico sui termini utilizzati da Freud s’impegna, attraverso un approccio che egli stesso definisce “pietà decostruttiva”, a dilatarne il testo sino al punto di mostrarne tutte le implicazioni in tutti i loro aspetti, compresi come dicevamo quelli apparentemente contraddittori.
Segue qui:
http://www.doppiozero.com/materiali/contemporanea/il-fondo-opaco-del-reale
Per Freud così come per Lacan che porta alle estreme conseguenze gli assunti avanzati dal padre della psicoanalisi, le cose sono evidentemente più complesse in quanto il desiderio stesso è un’entità complessa, o per usare le parole di Benvenuto, originariamente contraddittoria. Sarebbe questa l’acquisizione fondamentale a cui si perviene tramite la lettura del brevissimo, ma denso saggio freudiano del 1925 “La negazione” (Die Verneinung): Lust in quanto desiderio-godimento è al contempo se stesso e il suo contrario Unlust. Per affermare questo, scrive Benvenuto, lo stesso Freud si affida, in questo testo così come in altri, a un linguaggio che rischia costantemente, soprattutto secondo l’ottica di un lettore superficiale o di un suo dichiarato detrattore, di cadere in contraddizione. Dalla prospettiva di un approccio positivista si può dunque vedere in questo una debolezza del pensiero freudiano oppure come fa Benvenuto, sulla scia di Lacan, ritenere che questo uso del linguaggio sia il solo in grado di porsi all’altezza dell’oggetto che designa, attraverso una corrispondenza che non è meramente di ordine significante, bensì si potrebbe dire di carattere ontologico. La parola di Freud, afferma Lacan, è una parola piena nel senso che svela qualcosa di fondamentale della soggettività, ragion per cui possiamo affermare non può che ripetere svelandola quella contraddizione strutturale su cui si fonda la stessa soggettività. È questo, a nostro avviso, il gesto etico fondamentale di Freud che tenta di fondare una genealogia del soggetto a partire dal desiderio-godimento (Lust). Gesto etico e politico che ripete Benvenuto nel momento in cui facendo un lavoro certosino di scavo etimologico sui termini utilizzati da Freud s’impegna, attraverso un approccio che egli stesso definisce “pietà decostruttiva”, a dilatarne il testo sino al punto di mostrarne tutte le implicazioni in tutti i loro aspetti, compresi come dicevamo quelli apparentemente contraddittori.
Segue qui:
http://www.doppiozero.com/materiali/contemporanea/il-fondo-opaco-del-reale
SIGMUND FREUD AVEVA RAGIONE: LE NUOVE RICERCHE LO ‘RIABILITANO’. Le nuove tecniche di neuroimaging provano gli effetti sul nostro cervello delle terapie psicoanalitiche. E confermano le teorie del maestro viennese
di Paola Emilia Cicerone, espresso.repubblica.it, 4 settembre 2015
Saranno le neuroscienze a salvare la psicoanalisi? Se fino a qualche anno fa le teorie di Freud sembravano in procinto di soccombere sotto il peso del progresso scientifico, oggi proprio le tecniche di neuroimaging le rivalutano, confermandone la validità. E dando vita a un nuovo filone di ricerca che indaga le basi fisiologiche dei cambiamenti prodotti nel cervello dalle terapie psicoanalitiche, con l’obiettivo di individuare le radici fisiologiche dei concetti base della psicoanalisi. Come racconta la scrittrice americana Casey Schwartz nel saggio “In the Mind Fields: Exploring the New Science of Neuropsychoanalysis”. Una novità radicale? In realtà Freud stesso nasce come neurologo, interessato a studiare la struttura del cervello. Anche se all’epoca le neuroscienze erano appena agli inizi, e l’esistenza stessa dei neuroni ancora in discussione. Oggi, osserva lo psicoanalista Amedeo Falci, coordinatore del gruppo Psicoanalisi e Neuroscienze della Società Psicoanalitica Italiana, «sono sempre di più gli psicoanalisti convinti che gli strumenti offerti dalle neuroscienze siano indispensabili per il futuro della psicoanalisi».
Segue qui:
http://www.scienzaevita.org/wp-content/uploads/2015/09/LEspresso_04_09_15_Neuroscienze_una_foto_da_ragione_a_Freud.pdf
Oppure qui:
http://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2015/09/04/news/le-nuove-ricerche-sulle-neuroscienze-riabilitano-le-teorie-di-sigmund-freud-1.228043
MA SI PUÒ CHIAMARLA MADRE?
di Andrea Beolchi, avvenire.it, 4 settembre 2015
«Vecchia madre, sei viva? Vivo anch’io…». Basta una manciata di parole con cui si apre la Lettera alla madre di Sergej Esenin per sentire tutto il respiro dell’azzurra Rus e come un doppio registro, quello di sapore quotidiano che sofferma lo sguardo doloroso sulla «vecchia giubba fuori moda» che si innesta sul rumore di fondo di una memoria ctonia: l’uno e l’altro non si sfuggono, non si respingono, ma danno vita a una inestricabile realtà pulsante nella quale ogni individuo ha confini superindividuali. Era il 1924, solo un anno prima che venisse scattata una foto emblematica del secolo che fa da sfondo alla mostra prodotta dalla Fondazione Nicola Trussardi a cura di Massimiliano Gioni in corso a Palazzo Reale (catalogo Skira), e che ritrae Sigmund Freud con la madre Amalia: qui la prospettiva appare visibilmente rovesciata: l’inventore della psicanalisi che ha rappresentato il rapporto madre/figlio come un grumo di desideri sessuali e di pulsioni represse, vi appare come trattenuto da quella figura “stante”, antidinamica, un Kronos dalle sembianze femminili, per la verità poco rassicuranti, che imbastisce il suo turpe progetto di divorarlo.
Segue qui:
http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/ma-si-puo-chiamarla-madre.aspx
Segue qui:
http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/ma-si-puo-chiamarla-madre.aspx
FESTIVAL DELLA MENTE: AMMANITI E WESTERMAN A SARZANA. Punti di vista, storie e empatia. Due interventi molto diversi convergono sul potere dell’immaginazione. E su come essere noi è più naturale che essere io
di Laura Santini, laspezia.mentelocale.it, 5 settembre 2015
Prima, il neuropsichiatra infantile Massimo Ammaniti. Poi, il giornalista-scrittore olandese Frank Westerman. Il primo, parlando dell’importanza della relazione con l’altro, e il secondo della difficoltà di stabilire un’unica versione delle cose del mondo. Ammaniti e Westerman, sabato 5 settembre, al dodicesimo Festival della Mente di Sarzana convergono sull’importanza dell’immaginazione come strumento per accedere alla dimensione empatica da cui nasce l’identità, ma anche ogni narrazione. Prima dell’ego, ci ricorda Ammaniti, c’è la cosiddetta we-ness. Il percorso è dunque contrario a quanto comunemente si crede: La nascita del senso del noi, titolo dell’intervento, è un gioco di parole che guarda appunto indietro alla condizione neonatale e alle prime forme di interazione tra madre e feto e madre e neonato. Non si tratta certo di una teoria nuova, ma di un pensiero che va controcorrente rispetto a un individualismo che l’ha fatta da padrone non solo recentemente, presentandosi nella forma più moderna di una «finanza rapace», ma ha avuto eminenti teorici alle sue spalle, tra cui Ammaniti ricorda l’homo hominis lupus di Hobbs, il cogito ergo sum di Cartesio e una «visione autistica sul lattante» di Freud.
«Che cosa vede il lattante quando guarda negli occhi della madre? Si era chiesto Winnicott. Vede la costruzione che la madre ha di lui, in un processo di rispecchiamento reciproco». Per parte sua il filosofo Merleau-Ponty aveva segnalato l’importanza del corpo nell’intersoggettività, «perché è il corpo che ci aiuta ad andare verso e a conoscere l’altro, da cui il tema della vicinanza. Questo è qualcosa che Freud, come certe caratteristiche del neonato e del lattante, non aveva colto. Per Freud il lattante è come un uovo, trova tutte le sostanze nutritive al proprio interno». Sulla rivista Nature già nel 1978, fu dimostrato che il neonato poche ore dopo la nascita è in grado di mimare le espressioni di un adulto a una distanza di 20/25 centimetri. «Quindi non è vero che si nasce chiusi. Si entra nel mondo e si innesca un meccanismo di equivalenza, che è uno stimolo innato e l’inizio della mentalizzazione»: processo che ci consente di metterci nei panni di un’altra persona sia dal punto di vista motorio che emotivo.
Ammaniti recupera Freud, o almeno, dopo averne descritto alcuni limiti, ritorna al pensiero del padre della psicanalisi, in particolare per gli scritti più sociali, tra cui Psicologia delle masse e analisi dell’io: «in cui Freud parla di identificazione, altro modo di descrivere questo processo di immedesimazione o empatia, attraverso cui comprendiamo l’io estraneo di altre persone». I processi imitativi sono embedded nel cervello, prosegue Ammaniti, e questo è il risultato sulle ultime scoperte relative ai neuroni specchio (Rizzolati/Gallese): «io capisco l’altro perché attivo dentro di me dei circuiti cerebrali in risposta all’altro, in una risonanza più o meno immediata. D’altra parte attraverso la mentalizzazione attivo un processo cognitivo che mi permette di comprendere perché l’altro è sorridente o meno. Lo stato epistemico, ovvero conoscitivo dell’io, non è solo quello della prima persona, ma c’è uno stato epistemico anche in terza persona, e c’è n’è anche uno del tu, quel Ich und du di un celebre saggio di Martin Buber, (1923). Anche, in chiusura Ammaniti si rifà a Freud: «La società non crea solo disagio, ma apre orizzonti nella compressione e condivisione con gli altri», perché, per quanto diverse, la psicologia dell’individuo e quella delle masse, raccontano che l’essere umano singolo non riesce a prescindere dall’altro neanche nel perseguimento dei propri obiettivi, per cui la psicologia individuale è fin dall’inizio anche psicologia sociale.
«Che cosa vede il lattante quando guarda negli occhi della madre? Si era chiesto Winnicott. Vede la costruzione che la madre ha di lui, in un processo di rispecchiamento reciproco». Per parte sua il filosofo Merleau-Ponty aveva segnalato l’importanza del corpo nell’intersoggettività, «perché è il corpo che ci aiuta ad andare verso e a conoscere l’altro, da cui il tema della vicinanza. Questo è qualcosa che Freud, come certe caratteristiche del neonato e del lattante, non aveva colto. Per Freud il lattante è come un uovo, trova tutte le sostanze nutritive al proprio interno». Sulla rivista Nature già nel 1978, fu dimostrato che il neonato poche ore dopo la nascita è in grado di mimare le espressioni di un adulto a una distanza di 20/25 centimetri. «Quindi non è vero che si nasce chiusi. Si entra nel mondo e si innesca un meccanismo di equivalenza, che è uno stimolo innato e l’inizio della mentalizzazione»: processo che ci consente di metterci nei panni di un’altra persona sia dal punto di vista motorio che emotivo.
Ammaniti recupera Freud, o almeno, dopo averne descritto alcuni limiti, ritorna al pensiero del padre della psicanalisi, in particolare per gli scritti più sociali, tra cui Psicologia delle masse e analisi dell’io: «in cui Freud parla di identificazione, altro modo di descrivere questo processo di immedesimazione o empatia, attraverso cui comprendiamo l’io estraneo di altre persone». I processi imitativi sono embedded nel cervello, prosegue Ammaniti, e questo è il risultato sulle ultime scoperte relative ai neuroni specchio (Rizzolati/Gallese): «io capisco l’altro perché attivo dentro di me dei circuiti cerebrali in risposta all’altro, in una risonanza più o meno immediata. D’altra parte attraverso la mentalizzazione attivo un processo cognitivo che mi permette di comprendere perché l’altro è sorridente o meno. Lo stato epistemico, ovvero conoscitivo dell’io, non è solo quello della prima persona, ma c’è uno stato epistemico anche in terza persona, e c’è n’è anche uno del tu, quel Ich und du di un celebre saggio di Martin Buber, (1923). Anche, in chiusura Ammaniti si rifà a Freud: «La società non crea solo disagio, ma apre orizzonti nella compressione e condivisione con gli altri», perché, per quanto diverse, la psicologia dell’individuo e quella delle masse, raccontano che l’essere umano singolo non riesce a prescindere dall’altro neanche nel perseguimento dei propri obiettivi, per cui la psicologia individuale è fin dall’inizio anche psicologia sociale.
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http://laspezia.mentelocale.it/66631-spezia-sarzana-festival-mente-ammaniti-westerman-sarzana/
MA LA VITA PSICHICA NON SI SPIEGA CON I NUMERI
di Massimo Recalcati, la Repubblica 7 settembre 2015
Il nostro tempo è assillato dal culto della cifra: tutto dovrebbe essere misurato, pesato, tradotto in numeri, quantificato. Il mito dell’oggettività al di là di ogni interpretazione non anima solo alcune recenti correnti filosofiche, ma sembra essere diventato una sorta di imperativo “morale” diffusosi in tutte le aree del sapere. Nemmeno la psicologia può sfuggire a questa tendenza. Anzi, essa sembra sposare con sempre più determinazione l’idea propria delle scienze “dure” — come la matematica o la fisica — che una ricerca per essere considerata degna di scientificità non solo debba galileianamente essere riproducibile in termini sperimentali ma, soprattutto, produrre numeri, percentuali, cifre attendibili. Nemmeno la dimensione labirintica della vita psichica deve costituire una eccezione al nuovo impero dell’oggettività. L’impeto della valutazione — oggi diffuso in tutti gli ambiti del sapere — sospinge gioco forza la psicologia verso la psicometria: misurare atteggiamenti, conoscenze, abilità, credenze, sentimenti, personalità.
Segue qui:
http://rassegna.unipi.it/ (vai alla sezione Terza pagina)
o qui:
http://unipi.waypress.eu/cgi/ImageCgi.cgi?f=20150907/SIX1437.TIF&t=PDFOCR
I più recenti pezzi apparsi sui quotidiani di Massimo Recalcati e Sarantis Thanopulos sono disponibili su questo sito rispettivamente ai link:
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4545
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4788
Da segnalare le seguenti rubriche: "Laicamente, Dialoghi su psichiatria, arte e cultura" di Simona Maggiorelli, al link
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/5673
"Mente ad arte, percorsi artistici di psicopatologia nel cinema ed oltre, di Matteo Balestrieri al link
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4682
(Fonte dei pezzi della rubrica: http://rassegnaflp.wordpress.com)
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