Ripensando a “La vita degli altri” Istituzioni, rapporti umani e cura

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1 ottobre, 2015 - 08:17
I – Premessa
Il film “La vita degli altri” di Von Donnersmarck è espressione di un’esigenza irrinunciabile (oltre che di una speranza, il più delle volte, vana): quella di poter credere che un rapporto propriamente umano, libero e costruttivo, sia comunque possibile; e questo anche nei regimi più oppressivi e da parte degli esseri umani che possono apparirci i peggiori. L’idea del film nacque da una lettura del regista, dalla quale egli apprese una confidenza di Lenin a Gorki: l’uomo politico disse di non poter più permettersi d’ascoltare la “Appassionata” di Beethoven, che pure amava, perché gli suscitava il desiderio di “accarezzare le teste” delle persone mentre, per poter condurre la rivoluzione, egli avrebbe dovuto “sfasciarle”. Lenin quindi, in nome dei suoi “princìpi”, si sforzava di soffocare la propria umanità. Partendo da questo fatto, comune a tanti uomini di potere ed a chi si pone al loro servizio, Von Donnersmarck si chiese se e come fosse possibile che potesse avvenire l’opposto; che, cioè, l’umanità potesse prevalere sui princìpi astratti. Di qui egli iniziò ad immaginare quelle che sarebbero diventate le vicende del’opera cinematografica [I, 2, pag. 812]. Lo scenario in cui le collocò è quello della Repubblica Democratica Tedesca (DDR) in un’epoca anteriore al crollo del muro di Berlino. Si tratta di uno dei regimi più oppressivi che la storia abbia mai conosciuto; un regime capace di penetrare nella vita e nei rapporti privati di quasi tutti o tutti: si è calcolato che, tra agenti della STASI (la polizia segreta) e informatori, esistesse un delatore ogni sette persone [I, 2, pag. 813]. Il protagonista, Wiesler, è uno dei peggiori esecutori di tali direttive liberticide: è un agente della STASI, e, per di più, un istruttore di reclute, ossia una persona talmente imbevuta dei “princìpi” del regime da operare, sugli allievi, una sorta di “lavaggio del cervello” volta a sopprimere i loro sentimenti umani. La sua conversione ad un libero rapporto di simpatia e solidarietà verso alcune persone “spiate” è stata giudicata, da alcuni, come ricostruzione di ciò che può essere effettivamente avvenuto; da altri, come una “bella favola” possibile solo nella fantasia. Comunque la si intenda, si tratta dell’illustrazione di un’ipotesi riguardo al modo in cui una persona può recuperare una capacità di rapporto costruttivo in un sistema politico totalitario tendente a soffocare umanità ed identità [I, 2, pag. 828]. Da qui può partire una riflessione su come (e se) è possibile una relazione interpersonale libera e favorevole in un regime istituzionale che (fatte le debite proporzioni con quello del film) tende ad ostacolarla. Particolarmente importante, a questo riguardo, è il problema della possibilità di un’autentica relazione terapeutica.
 

 
II – Punti significativi del film
In una delle scene iniziali della pellicola, assistiamo all’incontro dei principali personaggi della vicenda: il protagonista Wiesler, il suo diretto superiore Gübritz, il commediografo Dreyman, la compagna di quest’ultimo (l’attrice Christa), ed il ministro della cultura Hempf. Si tratta della rappresentazione teatrale di un’opera di Dreyman, che vi assiste, mentre Christa è sulla scena e gli altri tre sono tra il pubblico.
Nell’incontro che segue lo spettacolo, Hempf esprime a Dreyman una sua convinzione (cui le vicende successive del film, smentendola, daranno una risposta): secondo lui, un cambiamento positivo degli esseri umani, qual è descritto nell’opera teatrale rappresentata, nella realtà è molto difficile e forse “avviene solo nelle commedie”. Il cambiamento, qui, consiste in un’emancipazione dai rigidi princìpi astratti su cui si fonda ogni regime tirannico e nell’acquisizione di una capacità di rapportarsi agli altri in un modo più propriamente umano. Pare di sentire nelle parole di Hempf, uomo di potere, l’eco di quelle del Grande Inquisitore dostoewskiano: “… non c’è per l’uomo preoccupazione più ansiosa che di trovar qualcuno cui affidare al più presto quel dono della libertà, col quale quest’essere infelice viene al mondo” [II, 2, pag. 339]. Se, come ritengono questi personaggi, la paura della libertà è insopprimibile, allora l’essere umano non potrà far altro che piegarsi alle regole e ai princìpi imposti dall’autorità, e l’uso autonomo della sensibilità e della ragione, nei rapporti, sarà inevitabilmente messo in ombra; un cambiamento sarebbe, pertanto, impossibile. Nella stessa scena ed in quelle che seguono immediatamente, risultano evidenti le caratteristiche dei personaggi quali ci appaiono all’inizio della vicenda.
Wiesler, nel suo totale ed ottuso ossequio ai princìpi del regime, appare estremamente rigido. Appena gli viene presentato Dreyman come scrittore di successo, egli immediatamente lo definisce “arrogante”. Wiesler fa propria la tendenza dell’autorità tirannica, che vede con sospetto e ostilità chiunque sia dotato di capacità e meriti autonomi; in questo trovano spazio anche le manifestazioni della sua affettività immatura: a un uomo come lui, profondamente frustrato, l’esistenza di una persona appagata nella propria vita professionale e culturale (oltre che, come subito si accorge, in quella affettiva e sessuale) non può che suscitare aggressività e invidia.
Gübritz si presenta subito (e tale resterà per tutta la vicenda) come cinico opportunista: in un primo momento, sostiene la propria convinzione che Dreyman sia al di fuori di ogni sospetto riguardo alla lealtà verso il regime; tuttavia, quando Hempf, per scopi che nulla hanno a che vedere con le finalità ufficiali della STASI, lo incarica di sorvegliare (e “incastrare”) lo scrittore, Gübritz accetta senza batter ciglio: a lui interessa solo il proprio tornaconto e, a questo scopo, asseconda i potenti senza discutere; salvo, poi, tradirli appena se ne presenti l’opportunità.
Hempf appare preso dall’esaltazione del potere: egli è convinto di disporre, a proprio piacimento, di ogni cosa e persona. Christa lo attrae ed è per questo che, tramite un uso perverso della propria autorità, intende mettere Dreyman “fuori combattimento”, e di questo incarica Gübritz.
Dreyman manifesta, all’inizio, una grande ingenuità: egli è convinto di poter conciliare un atteggiamento di “non belligeranza” verso il potere con l’amicizia che lo lega ad alcune persone, apertamente dissidenti. La prudenza lo spinge, pur di non urtare i potenti, a zittire un amico che, durante la festa del suo compleanno, accusava un altro conoscente d’essere un informatore della STASI. Sembra condividere l’ingenua opinione iniziale di Don Abbondio, convinto che, usando cautela, si eviteranno “brutti incontri”. Dreyman, tuttavia, a differenza del personaggio manzoniano, rivelerà in seguito determinazione e coraggio.
Christa, all’inizio, si presenta come attrice di talento e donna profondamente innamorata del suo compagno. La sua fragilità si rivelerà soltanto in seguito.
Le vicende dei cinque personaggi, da questo momento in poi, s’intrecciano, influenzandosi vicendevolmente in diversa maniera. Gübritz e Hempf rimarranno sulle stesse posizioni. Wiesler e Dreyman, al contrario, andranno incontro a quel cambiamento che era ritenuto impossibile da Hempf; cambiamento che li porterà ad un’emancipazione interiore. Per Dreyman ciò avviene in modo più agevole: gli è sufficiente liberarsi dell’ingenuità. Due avvenimenti traumatici gli rivelano l’impossibilità di convivere pacificamente con il potere tirannico: la scoperta del tradimento di Christa, frutto (oltre che della fragilità della donna) dei soprusi del ministro Hempf, ed il suicidio dell’amico Albert. Quest’ultimo, un regista teatrale inviso al regime, era stato privato della possibilità di svolgere un lavoro che, per lui, era ragione di vita irrinunciabile.
Più complessa e radicale è la trasformazione cui assistiamo in Wiesler. Due episodi segnano in modo decisivo il suo cambiamento. Innanzi tutto, la scoperta dei reali motivi per cui è stato incaricato di sorvegliare Dreyman. Finora egli aveva svolto con grande solerzia il proprio lavoro perché convinto d’essere al servizio di una causa “sacra”: salvaguardare lo stato socialista dai suoi nemici. Ora s’accorge, senza possibilità di dubbio, che a muoverlo sono i capricci e la libidine del ministro ed il calcolo di Gübritz; quest’ultimo sicuro che, assecondando il potente, ne trarrà vantaggi di carriera. Il cinico opportunismo del suo diretto superiore si rivela a Wiesler fino in fondo: dopo aver disposto che non  sia messo a verbale tutto ciò che riguarda Hempf, Gübritz consiglia al protagonista del film di conservare tali informazioni; esse, in futuro, potranno tornare utili a scopo di ricatto. Il secondo avvenimento, decisivo nel promuovere l’evoluzione di Wiesler, è in parte conseguenza del primo: essendosi liberato del rigido ossequio ai suoi “doveri professionali”, egli ora può instaurare, con le persone spiate, un rapporto spontaneo e più propriamente umano. Dapprima prevalgono le tendenze ostili: invidioso della coppia, Wiesler utilizza i dispositivi di spionaggio per far sì che Dreyman scopra il tradimento di Christa con Hempf. Tuttavia, subito s’accorge che, nell’uomo, l’amore per la sua compagna prevale sulla gelosia: Christa è palesemente sconvolta e Dreyman cerca di confortarla con la sua dolcezza. Wiesler, perciò, inizia ad entrare in contatto (un contatto, a questo punto, partecipe) con la capacità d’amare del suo sorvegliato. Essa gli viene trasmessa con ancor maggiore vigore dal suo condividere i sentimenti suscitati da due opere d’arte care allo scrittore: una poesia d’amore e la “Sonata degli uomini buoni”.
Wiesler, da persecutore qual era all’inizio, diviene, nei confronti di Dreyman e Christa, una sorta di “angelo custode”. Egli protegge le attività contro il regime dello scrittore e cerca anche, purtroppo senza riuscirvi, di salvare Christa dalla sua fragilità. In un incontro tra i due in un bar, nel momento in cui la donna sta per raggiungere Hempf, Wiesler, sottolineando con forza a Christa quanto il suo talento di attrice dipenda da  lei stessa e non dalle autorità statali, le fa presente che commetterebbe una grave ingiustizia verso di sé “vendendosi per il teatro”. Christa gliene è riconoscente, definisce Wiesler un “uomo buono” e, rinunciando all’incontro con il ministro, ritorna dal suo compagno. Tuttavia, quando viene ricattata con la minaccia di escluderla dalle scene (anche per lei, come per Albert, il teatro è una ragione di vita), la donna crolla e finisce per denunciare e tradire Dreyman. Solo alla fine, quando è ormai troppo tardi, Christa si rende conto che l’amore e la fedeltà verso il suo uomo sono, per lei, ancor più importanti del teatro; sentendosi irrimediabilmente perduta, ella pone fine alla sua vita.
Alla fine della vicenda, la carriera di Wiesler è ormai compromessa: egli è degradato al ruolo di addetto alle poste, e tale rimarrà anche dopo il crollo del regime. Gli rimane solo un piccolo ma prezioso segno di riconoscenza da parte di Dreyman, ritornato scrittore di successo: un libro, intitolato “Gli uomini buoni”, e dedicato ad una persona denominata con una sigla; la sigla che apparteneva a Wiesler come spia.     
      
III – “La vita degli altri” in un’istituzione sanitaria
Cornice istituzionale e mondo interno degli operatori Come si suol dire, “la perfezione non è di questo mondo” e perciò possiamo spesso renderci conto che le istituzioni sanitarie, anziché attenersi strettamente al compito di organizzare e disciplinare attività preziose per la sopravvivenza, presentano anche aspetti politici estranei all’interesse comune. Questi, benché in misura ridotta (o in forma mascherata), presentano analogie con le caratteristiche del regime descritto nell’opera cinematografica. Data l’influenza di tali fattori sulla mentalità e sul comportamento delle persone, si possono trovare, tra gli operatori, personaggi simili a quelli del film. Seguendo, come guida, l’affermazione di S. Agostino (“non c’è nulla, nel mondo umano, che non appartenga un poco anche a me” [Citato in I, 11]), possiamo cogliere, in ciascuno di noi, un Wiesler (o un Hempf, o una Christa, ecc.) e cercare di capire, se ne sentiamo l’esigenza, come favorire in noi stessi un cambiamento.
I comportamenti antisociali (o, per meglio dire, criminali) di Hempf e Gübritz sono conseguenza del crollo di quell’istanza, denominata da Freud “Ideale dell’Io”, che dirige i nostri atti verso mete elevate (o che riteniamo tali) e che consente di convertire le frustrazioni narcisistiche in aspirazioni o desideri [I, 4, pag. 298]. Quest’istanza è sopraffatta, in Hempf, dall’ebbrezza del potere, frutto di una situazione in cui gli scopi ufficiali dell’esercizio dell’autorità sono soggetti a mistificazione e corruzione. Ciò provoca, nel personaggio, il risveglio regressivo di fantasie onnipotenti. La stessa istanza ideale, in Gübritz, ha ceduto il posto all’ambizione, spregiudicata e meschina, di “coltivare l’orticello” della propria carriera. Ad essa, egli sacrifica la dignità propria e del suo lavoro. Un modo d’essere di quest’ultimo genere è diffuso negli ambienti istituzionali in cui un autentico merito (tale in rapporto alle finalità ufficiali dell’ente) non è costantemente premiato o non lo è affatto. Qui, ai fini della carriera, l’astuzia e la spregiudicatezza contano più dell’intelligenza e della cultura. L’assenza di scrupoli e ideali rende le persone di questo genere pronte ad obbedire, senza discutere, a tutte le direttive; anche a quelle in contrasto con gli scopi ufficiali dell’istituzione. Per tale motivo, esse risultano particolarmente gradite a chi detiene il potere. I potenti simili a Hempf tendono a riporre fiducia in costoro e, per il loro narcisismo, non s’accorgono che, per lo stesso opportunismo per cui questi sottoposti li hanno obbediti, un domani li tradiranno. Persone in cui prevalgano nettamente i tratti caratteriali di Hempf o Gübritz non possono cambiare, soprattutto in un ambiente istituzionale che favorisce e premia le loro inclinazioni; non lo possono, innanzi tutto, perché non ne sentono l’esigenza interiore e l’opportunità. Un “Hempf” dirigente sanitario o amministrativo, se dovesse porsi unicamente al servizio dell’organizzazione e dell’efficienza delle prestazioni, ne trarrebbe solo frustrazioni e svantaggi. Lo stesso accadrebbe ad un operatore sanitario simile a Gübritz se, per la propria carriera, dovesse contare solo sulla qualità delle sue relazioni terapeutiche.
Diverso è il caso in cui tendenze opportunistiche e antisociali (presenti, almeno in tracce, in ciascuno di noi) dovessero rivelarsi egodistoniche, ossia in conflitto con altre istanze presenti nella personalità. In questi casi, considerazioni di ordine morale (o moralistico) si rivelano inefficaci. Un giovane terapeuta, in cura dal sottoscritto, avvertiva, riguardo soprattutto alla propria vita professionale, un malessere che non riusciva a vincere. Si rendeva conto che ciò aveva a che vedere con il suo modo di lavorare: spesso, in ossequio a quello che riteneva il volere dei superiori, tradiva la fiducia del paziente. Questo, ad esempio, succedeva in rapporto al rispetto del segreto professionale ed alla prescrizione di farmaci che gli erano stati raccomandati “dall’alto” e sulla cui efficacia (con qualche ragione) non era convinto. Esprimere una riprovazione sulla sua condotta sarebbe stato fuori luogo e inutile: era già il paziente che disapprovava se stesso. Un’associazione d’idee ricorrente consentì, al paziente e al sottoscritto, d’imboccare la strada più opportuna: il ricordo di quando, da ragazzino, non sapeva resistere alla tentazione d’ingerire una grande quantità di dolci, quando se li trovava a portata di mano, in occasione di feste o rinfreschi. Ne seguiva, naturalmente, un’indigestione. In queste circostanze, la golosità e la possibilità di soddisfarla facilmente, prendevano il sopravvento sulla considerazione di quanto il suo organismo avrebbe potuto assimilare. Fu facile collegare i dolci ai vantaggi di un’obbedienza acritica ai superiori, e l’indigestione all’impossibilità della sua natura d’accettarli, perché in contrasto con altre, più intime necessità. In altre parole: si rivelò efficace, ai fini di un cambiamento, non la considerazione di ciò che il paziente “doveva” fare (già lo sapeva), ma di ciò che egli “poteva” fare in rapporto ai suoi limiti ed alle esigenze insopprimibili che appartenevano al nucleo più autentico del suo essere. Il cambiamento, più che sulla base di considerazioni astratte, avvenne a partire dalle vive e spontanee sensazioni che il paziente avvertiva nel contatto con i suoi malati: sensazioni di qualcosa di stonato nella relazione con il malato e con se stesso, che si manifestava con disagio o impressioni spiacevoli. Ciò è tipicamente dovuto all’attrito con quell’Ideale dell’Io che, nel curante, sostiene motivazioni professionali autenticamente terapeutiche [I, 10, pag. 235, 236]. Come si è visto più sopra, una presa di coscienza analoga (ossia che il suo essersi “venduta per il teatro” era in contrasto con l’esigenza, per lei irrinunciabile, d’amare ed essere fedele al suo uomo) avviene, nel film, in Christa. Avviene, tuttavia, quando è troppo tardi e, anziché ad un cambiamento, la porta al suicidio. Suicidi veri e propri, probabilmente in circostanze e con motivazioni analoghe, avvengono frequentemente tra gli psichiatri. Più frequenti ancora sono i “suicidi” delle ambizioni e degli ideali professionali: la sindrome del “burn-out” che porta alla perdita delle motivazioni terapeutiche. Sull’argomento del suicidio si tornerà più sotto.
In Dreyman, come si è visto, il cambiamento verso un’emancipazione interiore avviene agevolmente: il suo Ideale dell’Io è solido e regge all’impatto delle delusioni. Quest’istanza ideale esige che egli, come Artista, non ponga alcun vincolo alla propria attività creativa. Egli perciò, una volta scoperta l’impossibilità di vivere e creare in un regime liberticida, trova in sé la forza e il coraggio di combatterlo. Il terapeuta che possiede capacità e cultura, difficilmente potrà contrastare un’istituzione che tende a ostacolare il suo lavoro, se non dispone anche degli stessi, solidi ideali e della stessa determinazione di Dreyman. Egli facilmente ripiegherà, appena può, su di un lavoro “di nicchia” dove gli si consente di agire indisturbato. Le “nicchie” di questo genere, tuttavia, sono spesso “fiori all’occhiello” che mascherano i reali scopi, politici e non terapeutici, dell’istituzione; pertanto, chi vi lavora se ne rende, più o meno consapevolmente, complice. Egli, anche qui, potrà uscire da questa situazione solo se s’accorge d’essere in conflitto con se stesso.
Anche in Wiesler il cambiamento è favorito da un solido Ideale dell’Io che resiste alle delusioni. Egli avrebbe potuto imboccare la strada del despotismo capriccioso di Hempf, visto che, come agente della STASI, i suoi poteri verso i presunti dissidenti erano pressoché illimitati. Avrebbe anche potuto seguire l’esempio di Gübritz, con il suo opportunismo e le sue meschine ambizioni, dato che le prospettive di carriera, fino al suo coinvolgimento con Dreyman, erano state promettenti. Tuttavia, la tenuta della sua istanza interiore lo porta a continuare a perseguire mete ideali, benché profondamente mutate nella loro natura: ai valori perversi inculcatigli dal regime, egli sostituisce un ideale di rapporti umani spontanei e capaci di evolversi. Poiché questo stesso ideale ispira ogni autentica relazione terapeutica, un cambiamento interiore che porta ad adottarlo merita una trattazione più ampia. È, qui, necessaria una premessa.      
Cultura dominante, Superio ed evoluzione interiore La vita interiore del bambino ed i suoi rapporti sono, originariamente, dominati dai bisogni narcisistici. I suoi affetti, perciò, si rivolgono ai genitori (o ai loro sostituti), che soddisfano tali bisogni, ed ai coetanei, dai quali, per la loro somiglianza, egli trae una conferma del valore delle proprie qualità. Qualunque estraneo che non rientri in quest’area è oggetto di timore o di affetti ostili. L’altro, l’estraneo incomprensibile, colui che possiede qualità di cui il soggetto non dispone e che non ne rende partecipe; costui è visto come una minaccia. Infatti per una vita soggettiva individuale ancora fondata su basi fragili, chiunque non la sostenga è percepito come un pericoloso nemico capace di sopraffarla o annientarla. Quest’oggetto, fondamentalmente persecutorio, suscita pertanto desideri di fuga oppure, se si è costretti ad accettare la relazione, la fantasia di sopraffarlo o annientarlo per non esserne sopraffatti o annientati. Da qui si sviluppa il sentimento di avidità, fondato sulla fantasia d’impossessarsi delle qualità altrui (antenata dei desideri di esproprio o di sfruttamento); oppure il sentimento d’invidia, fondato sul desiderio d’annientare le qualità non possedute. Sentimenti di questo genere prevalgono, perciò, in menti patologicamente immature [I, 12]. Una tappa intermedia, nell’evoluzione del bambino, è rappresentata dall’interiorizzazione dei divieti e delle ingiunzioni che gli provengono dall’ambiente esterno: si forma un’istanza superegoica, di tipo primitivo e repressivo, che gli impone di escludere dal proprio comportamento (e spesso anche dalla propria coscienza) condotte e desideri di tipo antisociale. Un’evoluzione ulteriore è promossa dallo sviluppo di due facoltà. Innanzi tutto il progresso della capacità d’amore oggettuale: potendo l’altro costituire un oggetto d’amore, egli non è più necessariamente vissuto come nemico. In secondo luogo la nascita e l’evoluzione di una facoltà cognitiva: la “teoria della mente” tramite la quale è possibile formulare ipotesi realistiche su quel che passa nelle mente di un altro; un “altro” che, come tale, è sempre simile ma mai identico al soggetto [I, 8]. L’altro da sé è tollerato o accettato: può essere indifferente, oppure, se i suoi scopi sono comuni al soggetto e se dispone di qualità che il soggetto non possiede, egli può divenire oggetto di un rapporto di collaborazione. Da un tendenziale rapporto di sopraffazione, si passa ad uno caratterizzato da sottomissione ai divieti ed, infine, ad un più maturo rapporto di collaborazione.
La stessa evoluzione si può ravvisare nella psicologia delle collettività [I, 1]: nei gruppi terapeutici, si passa da un’iniziale tendenza alla fuga dei partecipanti (tendenza che porterebbe alla dissoluzione del gruppo) ad una coesione mantenuta tra le persone attraverso la comune sottomissione ad un leader. Quest’ultimo fonda la sua autorità sul suo farsi portavoce di un affetto primitivo che, in un dato momento, anima tutti i partecipanti: un sentimento di dipendenza, oppure di ostilità e di paura verso un nemico esterno, oppure di attesa promettente riguardo ad un futuro migliore. Si tratta dei “gruppi in assunto di base”. In essi le differenze individuali scompaiono ed i rapporti tra i membri del gruppo si caratterizzano per il loro comune agire in funzione dello “assunto” fondato sul sentimento condiviso che prevale in un dato momento. Un aumento del livello di consapevolezza dei partecipanti (favorito dall’intervento del terapeuta) promuove il costituirsi del più evoluto “gruppo di lavoro”. Qui le differenze individuali ricompaiono e ciascuno può sentirsi valorizzato, nelle qualità che gli appartengono, dal rapporto di collaborazione per scopi realistici (in questo caso, terapeutici) che s’instaura tra i partecipanti. Anche qui, dunque, si passa da una potenziale fuga o sopraffazione, ad un rapporto di sottomissione, ad uno di collaborazione.               
Se consideriamo l’umanità nel suo insieme, dobbiamo ammettere che tale evoluzione è ancora incompleta. Un rapporto di collaborazione (che non richiede leader stabili e neppure regole codificate) si è affermato soprattutto nei piccoli raggruppamenti: nei gruppi di amici, in alcuni rapporti di lavoro, e soprattutto nelle famiglie. Se, infatti, la nostra specie non si è ancora estinta, ciò è perché le famiglie, per la maggior parte, funzionano come “gruppi di lavoro” abbastanza sani; gruppi, fondati su rapporti di collaborazione, il cui scopo principale è la procreazione e la formazione di nuovi individui. Nella maggior parte dei raggruppamenti più ampi, al contrario, la coesione tra le persone viene mantenuta dalla comune sottomissione ad un’autorità. Nel migliore dei casi, si tratta di un’autorità liberale “super partes”, il cui unico scopo è vigilare affinché le tendenze antisociali di qualcuno non turbino i rapporti di leale collaborazione  tra  gli altri. In altri casi, il potere assume carattere autoritario: anziché tutelare i rapporti di autonoma collaborazione tra gli individui, tende a combatterli “ingabbiandoli” in regole e controlli rigidi, oppure a sostituirsi ad essi. Qui la sopraffazione, anziché essere contrastata dall’autorità, è divenuta essa stessa autorità.
La mentalità, o cultura, di un vasto raggruppamento di persone non è da intendersi come una sorta di blocco monolitico. Esistono, in essa, diverse componenti (alcune evolute, altre più primitive) spesso in contrasto tra loro. Le istituzioni sono espressione della componente dominante e tendono, a loro volta, a plasmarla e cristallizzarla. Riguardo ai riflessi di tale componente sulla vita interiore di chi nelle istituzioni opera, Talcott Parsons espresse un’osservazione di grande importanza:
“… il ruolo del Superio, quale parte della struttura della personalità, dev’essere inteso come relazione tra la personalità e la cultura dominante nel suo complesso. Tramite esso, diviene possibile uno stabile sistema d’interazione sociale. Freud pose correttamente l’accento sui valori morali di cui il Superio è il depositario, ma la sua concezione fu troppo ristretta: non solo i valori morali, ma tutte le componenti della cultura condivisa sono interiorizzate come parte della struttura della personalità…” [citato in I, 11, pag. 287].
Le convinzioni, i princìpi e i valori condivisi in una collettività governata da un regime autoritario non solo plasmano i ruoli istituzionalizzati, ma vengono anche interiorizzati nel Superio di chi ricopre tali ruoli. Qui, nei nuclei più primitivi di tale istanza, essi si traducono in divieti e ingiunzioni che limitano la libertà interiore.
Tale è la situazione interiore di Wiesler, all’inizio del film: egli si è completamente assoggettato alle ingiunzioni di un Superio di tipo primitivo che ha assorbito i princìpi del regime tirannico, divenendo, quasi con tutto il suo essere, un esecutore delle direttive liberticide che gli vengono impartite. Trovano spazio, in questo tipo d’esistenza, solo gli aspetti più primitivi della sua vita affettiva: sentimenti di ostilità ed invidia verso chi possiede meriti e capacità; sentimenti perfettamente in linea con lo spirito dell’ istituzione in cui opera.  L’emancipazione interiore, al contatto con Dreyman, produce una sorta d’effetto autoterapeutico: egli, divenuto più recettivo agli influssi benefici che la presenza dello scrittore esercita su di lui, scopre in se stesso un bisogno d’affetto ed una capacità d’amare che, probabilmente, pensava d’aver perso del tutto. Il primo indizio di tale scoperta si manifesta nel momento in cui Wiesler “spia” le espressioni di dolcezza di Dreyman verso la sua compagna: ascoltando quelle tenere effusioni, egli assume lo stesso atteggiamento posturale e la stessa espressione beata della coppia [I, 2, pag. 816]. Si tratta di un fenomeno imitativo che prelude ad una piena identificazione con le qualità dello scrittore. Subito dopo, con la squallida prostituta che frequenta, manifesta un insolito bisogno di vicinanza e tenerezza. È, tuttavia nell’ulteriore corso degli eventi che Wiesler, con il suo atteggiamento da “angelo custode”, esprime la sua (probabilmente ritrovata) capacità di provare affetto per qualcuno. Nel contempo, il suo Ideale dell’Io si è radicalmente modificato nei suoi contenuti ed il suo iniziale rapporto di sopraffazione verso i sorvegliati si è mutato in uno di collaborazione: Wiesler ora, anziché intercettare le attività contro il regime, le favorisce e le protegge.
Per un operatore sanitario dominato da un Superio di tipo primitivo (come Wiesler all’inizio della vicenda), un’autentica relazione terapeutica è impossibile. I valori e i princìpi che egli ha interiorizzato sono quelli, in parte mistificati, dell’istituzione cui appartiene: ciò che, in realtà, è interesse di un potere politico che agisce prevalentemente per se stesso (nell’ambito di una mentalità di tipo autoritario) è fatto passare come interesse del paziente. Tutto ciò che nel paziente (soprattutto quello psichiatrico) metterebbe in discussione l’istituzione e la cultura dominante, diviene oggetto d’interventi sostanzialmente repressivi, non terapeutici; e l’operatore nutre l’intima convinzione della loro opportunità. La maggior parte delle affezioni (psichiatriche, ma non solo queste) nasce dall’incontro tra la fragilità del paziente ed un fattore ambientale o sociale sfavorevole; il paziente non viene aiutato a rendersi conto né dell’una, né dell’altro, se gli si somministrano solo “terapie” che si limitano a sopprimere le manifestazioni esteriori del suo malessere. Che nasca un tipo di consapevolezza in contrasto con le opinioni dominanti viene, così, evitato. La stessa cura per la dimensione soggettiva della vita del paziente richiederebbe un radicale cambiamento dell’organizzazione sanitaria; ad esempio, sarebbero necessari investimenti (per la formazione e per l’incremento numerico del personale) che l’istituzione pubblica non può, o non vuole, permettersi. Ciò viene fatto passare come “irrilevanza”, ai fini terapeutici, della conoscenza e della cura della vita interiore ed il curante assorbe, anche nel suo intimo, una certa refrattarietà ad occuparsene. L’intolleranza per i rischi che il rapporto terapeutico può comportare è una caratteristica, presente in misura crescente, dell’attuale mentalità comune. Essa, congiuntamente ad esigenze di contenimento della spesa, fa sì che il rapporto terapeutico sia “ingabbiato” da regole e controlli sempre più rigidi. Ciò, nel curante, si traduce in ingiunzioni e severi divieti interiorizzati che soffocano le ambizioni e gli ideali di tipo terapeutico. L’imperativo di seguire i protocolli codificati tende a prendere il posto del desiderio di curare, e la sensibilità dell’operatore viene paralizzata dalla paura di trasgredire.
Una crisi dell’operatore può portarlo al crollo del “burn-out”, oppure a un cambiamento positivo. Quest’ultimo, come si è visto, può avvenire solo se questa persona è dotata di un solido Ideale dell’Io capace di resistere a delusioni e a contrasti. Il punto di partenza della crisi, come nell’esempio clinico sopra riportato, è la sensazione sgradevole di attrito con una parte di sé che il curante avverte nel suo contatto con il malato. Se il terapeuta sente l’esigenza di superare tale disagio migliorando la relazione con l’altro, egli può trovare qualcosa di utile in alcune delle variazioni che continuamente e spontaneamente si verificano nell’atmosfera affettiva dell’incontro con il paziente. Si tratta di ciò che avviene nella “personalità condivisa” che nasce dalla fusione di una parte della mente di due persone legate da un rapporto stretto ed intimo [I, 11]. Una parte di essa costituisce il “Superio condiviso” che, come quello individuale, è depositario dei princìpi e dei valori della cultura cui si appartiene. Come quella individuale, quest’istanza possiede nuclei più primitivi, a carattere autoritario e repressivo, ed altri più evoluti, con una funzione di sostegno. Un’apertura all’inatteso, definita come “capacità d’andare incontro alla sorpresa” (“courting surprise”), permette al terapeuta di cogliere e rendere stabile, al momento opportuno, una svolta liberatoria che consente, a lui ed al paziente, di sprigionare la capacità di capirsi e collaborare [I, 10, pag. 237]. Ciò si verifica quando, nella relazione, prevalgono i nuclei superegoici condivisi più evoluti, depositari delle componenti più progredite della nostra cultura. Essi favoriscono il libero rapporto tra due individualità separate e indipendenti le quali, comunicando, si definiscono e si rafforzano vicendevolmente. Viene attivata o rafforzata l’autocoscienza, che consente, dapprima al terapeuta e successivamente al paziente, di cogliere introspettivamente le analogie e le differenze fra sé e l’altro e, quindi, di capirsi. Il desiderio di aiutare ed essere aiutato in modo autentico rafforza il valore della ricerca della verità. La tolleranza del dubbio che essa comporta libera dalla sudditanza alle certezze “assolute”, ai dogmi, ed alle limitazioni alla libertà di pensiero che essi implicano. I vantaggi di questa “libertà relazionale terapeutica” aiutano, quindi, a combattere la paura della libertà e la sottomissione acritica alla “autorevolezza” del potere; aiutano anche ad accettare la responsabilità che la libertà comporta. Tutto questo si può riassumere come recupero o conquista di un rapporto “privato” (personale, intimo ed autonomo) all’interno del quale domina la collaborazione tra individui e non la sopraffazione degli individui tra loro, o di loro da parte di un terzo. Si tratta dello stesso rapporto che, nelle famiglie sane, promuove la crescita di individui autocoscienti, consapevoli delle proprie qualità individuali, capaci di dare realtà alle proprie aspirazioni tramite rapporti di collaborazione e non disposti a divenire esecutori della sopraffazione altrui. I nuclei più evoluti del Superio rappresentano il sedimento interiorizzato di quest’antico rapporto
Un potere politico autoritario, come la DDR descritta nel film, non può accettare l’esistenza di un rapporto autonomo, di grande valore, capace di dar vita ad individui quali quelli descritti. L’autorità tirannica pretende di ascrivere ogni valore e merito unicamente a se stessa e non tollera l’esistenza d’individui fieri di sé; di qui la connotazione negativa che le parole “privato” e “individuale” assumono nelle ideologie dei regimi totalitari. Ogni tipo di rapporto tra individui deve essere assoggettato al controllo dell’autorità e viene sabotato dallo spionaggio e dalla delazione. Nelle istituzioni sanitarie di questi regimi, ogni relazione autenticamente terapeutica è impossibile. In quelle appartenenti ad altri sistemi politici, esiste un’ampia gamma di possibili situazioni. Dal caso più favorevole, in cui l’istituzione si attiene al compito di tutelare il rapporto terapeutico da interferenze negative, si passa, senza soluzione di continuità, ad altre situazioni in cui, in misura crescente, è l’istituzione stessa a rappresentare un’interferenza negativa. La “libertà relazionale terapeutica”, qui, viene sabotata in un modo meno appariscente e brutale, ma altrettanto insidioso rispetto ai regimi francamente autoritari. L’obbligo di sottoporsi a controlli, a seguire rigidi protocolli, e la burocratizzazione ne rappresentano gli strumenti principali. La mistificazione e la confusione riguardo a concetti e parole rappresentano, anch’esse, una parte importante di questo sabotaggio. Qui sotto, se ne riportano due esempi.
Empatia, simpatia e rapporto terapeutico Il potenziale terapeutico della capacità di comprensione empatica può essere annullato se si confonde l’empatia con la simpatia e se si perde di vista il ruolo che l’una e l’altra svolgono in un processo di cura. Un rapporto esclusivamente empatico non ha necessariamente effetti terapeutici, mentre uno di pura simpatia non ne ha affatto. Se si considera l’intima struttura delle due facoltà è facile comprenderne il motivo.
Un’Autrice recente ha posto in evidenza gli stretti rapporti tra ciò che comunemente s’intende con il termine “empatia” e l’identificazione. Secondo la sua opinione, solo quest’ultima consente di accedere alla vita interiore del paziente, mentre la prima si presta ad un uso difensivo [I, 13]. Se si può concordare sul possibile uso difensivo di una comprensione empatica parziale, tuttavia il ricondurre la capacità di capire la mente altrui alla sola identificazione appare riduttivo. Un’identificazione si verifica effettivamente nella “personalità condivisa”, ossia in quella dimensione intersoggettiva che nasce dalla fusione di una parte della mente del terapeuta con una parte di quella del paziente [I, 11]. E’ coinvolta, appunto, solo una parte; l’altra parte della mente del terapeuta ne rimane libera. Si tratta, pertanto, di un’identificazione periferica, che non incide sul nucleo centrale dell’esistenza soggettiva del curante. Ciò gli consente di preservare la propria vita soggettiva autonoma dai rischi di una “invasione identificatoria” e, nello stesso tempo, di mantenere quelle capacità d’auto-osservazione e d’elaborazione cognitiva con cui egli può distinguere ciò che appartiene al paziente da ciò che appartiene a lui stesso.
L’empatia, quindi, è una funzione complessa che subordina ai propri scopi, integrandole, altre funzioni come la capacità d’auto-osservazione, la comprensione “unipatica” nell’ambito dell’identificazione parziale con l’altro e l’elaborazione cognitiva [I, 7]. Il non coinvolgimento del nucleo centrale della vita soggettiva di chi osserva, spiega il carattere neutrale dell’empatia: essa può essere utilizzata tanto a scopi benefici (o terapeutici), quanto a scopi ostili. Si è fuorviati (e quindi portati a confondere empatia e simpatia) dal fatto che un ambiente privo d’empatia produce effetti ancora peggiori di un rapporto di odio “empathy-informed” [I, 5, pag. 530]. Tuttavia non si può negare che anche le persone più crudeli posseggono una capacità di comprensione empatica: Wiesler, all’inizio, (come tutti gli altri agenti della STASI), sa comprendere empaticamente i punti deboli delle sue vittime ed il modo con cui “piegarle”. Si tratta, è vero, di una comprensione parziale, subordinata agli scopi dell’istituzione autoritaria, ma è evidente che essa non ha nulla a che vedere con la simpatia.
A differenza dell’empatia, la simpatia colloca la persona che ne è oggetto in una posizione più vicina al nucleo centrale dell’esistenza soggettiva di chi la nutre. Si tratta del “Sé Nucleare”, sede delle configurazioni narcisistiche fondamentali che caratterizzano ciascuno di noi [I, 6]. La persona simpatica costituisce, innanzi tutto, un “oggetto-sé” che soddisfa i bisogni narcisistici tipici di ciascun individuo. Ci è “simpatico” chi ci stima, se prevale in noi il bisogno di una conferma del nostro valore. Oppure, proviamo simpatia per la persona che stimiamo, se essa ci rende partecipi delle sue buone qualità; come pure avvertiamo lo stesso sentimento per chi condivide con noi attitudini ed interessi, in quanto ci si offre reciprocamente una testimonianza della validità di ciò di cui ci occupiamo. La simpatia, quindi, ci porta a percepire nell’altro in modo esclusivo (o, quanto meno a privilegiare) gli aspetti della sua personalità che ci offrono un appagamento narcisistico. Questo espone facilmente al rischio dell’inganno. Talora, poi, si crede di percepire nell’altro qualità o attitudini che, in realtà, sono le nostre e non le sue. Ciò accade, ad esempio, quando una persona cara si comporta in modo sconveniente, e noi proviamo vergogna “al posto suo”; oppure quando una persona cui vogliamo bene ha perso “i lumi della ragione” e noi avvertiamo quanto sia penoso il trovarsi in tale situazione [II, 4, pag. 766]. In entrambe i casi, attribuiamo all’altra persona sentimenti verso se stessa che questa, di fatto, non avverte. La pura e semplice simpatia, quindi, non permette alla persona che ne è l’oggetto di capirsi meglio né a noi di capirla: è espressione di una nostra esigenza che può anche essere altruistica (negli esempi sopra riportati, il desiderio di vedere la persona dotata di una consapevolezza di sé che, in realtà, non possiede), ma che non necessariamente coincide con l’esigenza altrui. Un rapporto di semplice simpatia, benché benefico per altri aspetti, tuttavia non accresce il livello di consapevolezza e non promuove alcuna evoluzione.
Un rapporto più costruttivo, soprattutto se di tipo terapeutico, richiede che un poco di simpatia si coniughi con l’empatia, ma solo quanto basta per conferire a quest’ultima scopi riparativi. Se, viceversa, la simpatia predomina, la comprensione empatica ne risulta limitata: non si è più in grado di cogliere quanto c’è realmente nella mente dell’altro, sia che si tratti di qualcosa di gradevole, sia di “antipatico”. Un’effettiva capacità di amore oggettuale si basa su di un equilibrio del genere suddetto (tra benvolere e capacità di capire): l’altro viene considerato e amato per quel che è, e non solo per quanto soddisfa i bisogni narcisistici del soggetto. Il bisogno di giovarsi di un amore di questo genere, capace d’integrare i vari aspetti della personalità, è espresso chiaramente dal Poeta:
  Et pourtant aimez-moi, tendre cœur ! soyez mère,
                       Même pour un ingrat, même pour un méchant ; [II, 1, pag. 102].
Un rapporto di pura simpatia tra le persone è tollerato da qualsiasi potere autoritario, come pure è accettato un rapporto di comprensione empatica, purché subordinato agli scopi del regime. L’uno e l’altro sono posti sotto stretta sorveglianza, allo scopo di evitare che si crei, tra due individui, una relazione feconda che coniughi empatia e simpatia. Sia nei regimi francamente tirannici, sia nelle istituzioni tendenzialmente autoritarie, s’impedisce che qualcuno sia totalmente assorbito nel compito d’aiutare un’altra persona, come richiederebbe un’adeguata “immersione empatica” nel mondo interno del paziente. In ogni momento l’istituzione interpone protocolli e incombenze burocratiche tra paziente e terapeuta, e quest’ultimo finisce per entrare in rapporto più con i propri compiti istituzionali che con la persona che dovrebbe aiutare. Esclusa la possibilità d’immersione empatica, rimane solo uno sterile rapporto di simpatia con il paziente, e la confusione tra l’una e l’altro, da un punto di vista concettuale, impedisce al curante di rendersi conto dell’impossibilità di un’autentica relazione terapeutica.
Il suicidio Il modo in cui s’intendono e si trattano le tendenze suicidarie e il suicidio è, anch’esso, soggetto a possibile mistificazione e confusione. I regimi autoritari impongono la censura sui suicidi. È dall’assenza di dati ufficiali sui gesti autosoppressivi che parte la denuncia di Dreyman riguardo alle mistificazioni della dittatura. Nella DDR non solo le segnalazioni di suicidi erano assenti dai giornali del regime, ma succedeva anche che chiunque avesse richiesto, al riguardo, dati statistici agli uffici competenti, sarebbe stato immediatamente segnalato alla STASI. Doveva essere bandita qualsiasi notizia in contrasto con l’immagine di uno stato assolutamente protettivo, capace di tutelare i cittadini persino da quei problemi esistenziali e da quelle patologie della vita familiare che da sempre hanno causato gesti autosoppressivi. Dreyman, tuttavia, conosce le tragiche vicende di Albert e di casi simili; sa perfettamente che il regime, lungi dall’aver offerto protezione all’amico, è stato esso stesso causa della sua decisione di togliersi la vita. Possiamo facilmente immaginare il modo in cui, nelle istituzioni sanitarie della DDR, veniva trattata la tendenza al suicidio. Questa, come ogni altro tipo di patologia (nella misura in cui è effettivamente da considerarsi come patologia), dipende dall’incontro della fragilità del paziente con un fattore ambientale o sociale sfavorevole. Non solo il fattore sociale doveva essere censurato (in una società “perfetta”, nulla può esistere di sfavorevole), ma la stessa fragilità del suicida doveva essere posta in una dimensione estranea alla sua vita di relazione, ossia nel corpo. Da qui il prevalere di tendenze organicistiche nella psichiatria dei regimi totalitari. Anche nelle istituzioni meno autoritarie (o meno palesemente tali) esistono mistificazioni, più sottili e meno evidenti, riguardo al suicidio. Anche qui, l’inesattezza dei concetti si riflette sul tipo di trattamento.
Il suicidio nasce sempre da un contrasto (talora presunto, ma il più delle volte reale) tra l’individuo e l’ambiente familiare o sociale. Il paziente, nelle figure parentali o nei loro sostituti (quali le autorità che governano le istituzioni), anziché un necessario sostegno alla sua vita soggettiva, vede, al contrario, un ostacolo al soddisfacimento di proprie necessità vitali. Di fronte al vero o presunto fallimento dei propri sforzi di lottare, il soggetto ripiega sulla riattivazione regressiva della “identificazione narcisistica” con l’oggetto e rivolge verso di sé quell’aggressività che prima era diretta all’esterno. Il suicidio è un “mancato omicidio” tramite il quale il paziente sfugge una situazione intollerabile [I, 3]. Gli scopi di un trattamento delle tendenze suicidarie sono il favorire una deflessione verso l’esterno dell’aggressività (ossia, in ultima analisi, verso l’oggetto che l’ha originariamente suscitata) ed un rafforzamento dell’esame di realtà. Quest’ultimo consente al paziente d’accertare la natura e le effettive dimensioni del conflitto con l’ambiente, chiarire le sue reali possibilità di lotta e, nel caso in cui questa si riveli davvero perdente o impossibile, verificare quanto egli sia in grado di rinunciarvi e ripiegare su altri scopi. È soprattutto qui che operano le influenze antiterapeutiche e mistificanti di una cultura dominante repressiva e di una mentalità conformista del curante e di chi lo circonda.
Lo scopo fondamentale di ogni cura della psiche è aumentare la libertà interiore del paziente; ciò implica, per lui, la possibilità d’entrare in contatto con le proprie più intime aspirazioni e lo sforzo di realizzarle lottando contro un ambiente sociale sfavorevole, anziché contro se stesso. Per Wilhelm Reich, ciò cozza inevitabilmente contro il conformismo dominante. Per questo motivo, il terapeuta che promuove un tale cambiamento “andrà incontro all’inimicizia, al disprezzo e alla calunnia, a meno che non preferisca, a spese delle sue convinzioni teoriche e pratiche, fare concessioni ad un ordinamento sociale che è in diretta e insolubile contraddizione con le esigenze della terapia… Si giunge anche a snaturare il senso del principio di realtà e dell’adattamento alla realtà, intendendo con esso la totale sottomissione alle esigenze sociali” [Citato in I, 9, pag. 32]. Anche per Romolo Rossi succede spesso che il terapeuta-analista, per gli stessi motivi evidenziati da Reich, “tradisca i suoi principi… e soffochi per rispetto del sistema sociale… la rivoluzione che egli stesso ha messo in moto” [I, 9, pag. 32].
Come suggeriscono Reich e Rossi, è facile che, anche nel trattamento del tentativo di suicidio, un curante conformista intenda come “dominio del principio di realtà” e acquisizione di  “capacità di adattamento” quella che, di fatto, è una resa incondizionata del paziente. La sua rinuncia a lottare contro ciò che contrasta le proprie esigenze vitali, la sua sottomissione a realtà sociali oppressive e liberticide; tutto questo gli viene rinviato come segno di “miglioramento” o di “guarigione”. Ad essere contrastata non è la tendenza patologica dell’aspirante suicida a rivolgere l’aggressività verso di sé, ma l’aggressività stessa, anche quando essa assume la forma di una sana combattività; e questo anche tramite “trattamenti” farmacologici o, come qualcuno suggerisce, elettro-convulsivanti. Il paziente, come risultato di queste “cure”, è ridotto ad un automa obbediente, che ha rinunciato a soddisfare le sue esigenze vitali (ad esempio, che ciò che è frutto del suo lavoro non sia oggetto di sfruttamento o di esproprio) e che è incapace di vivere la propria vita nella sua pienezza. Egli potrà uscire da questa situazione solo con un nuovo gesto autosoppressivo.
Anche nel trattamento delle tendenze suicidarie, quindi, la mistificazione di concetti, come “principio di realtà” e “capacità di adattamento”, agisce in senso anti-terapeutico e repressivo.
 
IV – Individuo, dimensione “privata”, istituzione
Come Orwell ci ha insegnato, anche il linguaggio può costituire uno strumento di potere. La “newspeak” di “1984” è il linguaggio creato dal regime autoritario con lo scopo esplicito di ridurre le possibilità del pensiero [II, 3]. Sarebbe, tuttavia, riduttivo ritenere che quanto descrive l’Autore britannico si riferisca soltanto ai sistemi politici totalitari del suo tempo. Anche le odierne forme di potere, meno palesemente autoritarie, usano gli stessi strumenti, sebbene essi siano meno evidenti e, per questo, anche più insidiosi.
Una delle forme di mistificazione del linguaggio consiste nel fondere il significato originario di certe parole con le connotazioni  attribuite ad esse dalla cultura autoritaria, come se queste costituissero parte integrante della definizione dei termini. Parole o espressioni come “individuo” (da cui “individualismo”) e “rapporti privati” (soprattutto quelli economici) assumono un significato negativo; esse sono intese come sinonimi di “egoismo” e di tendenza ad affermare interessi particolari ai danni di quelli della collettività. Al contrario, la parola “istituzione” assume il significato positivo di entità che si colloca al di sopra degli “individui” ed il cui scopo è il “bene comune”. Tutto questo è in contrasto con quanto insegnano lo studio di ciò che è alla base di un’autentica relazione terapeutica e la pratica della psicoterapia di gruppo. In quest’ultima, come si è visto, è proprio la ricomparsa di individui definiti che segna il passaggio alla forma più evoluta d’interazione tra i partecipanti: quella del “gruppo di lavoro”. In essa, e solo in essa, la collaborazione (che richiede la ricomparsa di specifiche caratteristiche individuali) prende definitivamente il posto della sopraffazione o della fuga; e questo senza che sia necessaria alcuna imposizione da parte di autorità superiori, né alcuna “istituzionalizzazione” dei ruoli e dei rapporti. Qualcosa di analogo si verifica nella relazione terapeutica tra due persone, e ciò, di solito, accade meno agevolmente negli ambienti istituzionali.
È spesso il paziente che ci rimanda ad una dimensione più personale e privata del rapporto. Una domanda tipica che ci pone è, ad esempio: “Chi mi sta parlando? Il “dottore” o lei personalmente?”. Oppure ci sentiamo rivolgere questo invito: “Dimentichi per un attimo d’essere il medico dell’ospedale. Lei, “personalmente”, che impressione ha della mia situazione? Che cosa farebbe al posto mio?”. Ecco, questo è un tipico segno di quella “svolta liberatoria” cui si accennava più sopra; svolta che, di solito, inaugura un’autentica relazione terapeutica. Il paziente, sollecitando un rapporto tra due persone, tra due individui definiti, anziché tra due ruoli istituzionalizzati, sta cercando di emancipare se stesso e il terapeuta da una “stretta mortale” (“stranglehold”), paralizzante che tiene in ostaggio entrambi [I, 10, pag. 288], ossia dall’ingiunzione superegoica condivisa di “dover sottostare a quanto stabilito dalla scienza ufficiale e dall’istituzione”. Egli vuole avere un rapporto con l’individuo particolare che lo sta curando, e non con il semplice portavoce di una scuola accademica e di una struttura istituzionale, ossia con l’esecutore di direttive e voleri altrui. Questa svolta coincide con l’attivazione, nel Superio condiviso, dei nuclei più evoluti, quelli che consentono ai membri della coppia terapeutica di porsi come individui liberi d’essere se stessi, d’esprimersi e, comunicando, entrare in un rapporto di collaborazione [I, 10, pag. 290].
Come c’illustra quanto accade in un ambito terapeutico, la comparsa d’individui liberi e il loro porsi in una dimensione di rapporto privata (personale, riservata, intima, autonoma) costituiscono le condizioni per realizzare quanto di più fecondo producono gli esseri umani. Ciò può essere esteso a tutti i rapporti (ad esempio, quelli di lavoro), che rendono possibile e arricchiscono la nostra esistenza. Tra di essi spicca, per il suo carattere fondamentale per la nostra specie, il rapporto d’amore sano tra uomo e donna. Come si spiega, allora, che nei regimi e nelle culture autoritarie, le parole “individuo” e “privato” abbiano assunto il significato di realtà negative? Il motivo è che, in tali regimi,  è reso impossibile all’individuo realizzare le proprie potenzialità tramite liberi rapporti di collaborazione: tutto deve svolgersi seguendo le direttive e sotto lo stretto controllo dell’autorità. Mancando altre possibilità, l’unico mezzo che resta all’individualità d’esprimersi sono le condotte antisociali e trasgressive. Ecco, quindi, come “individualismo” diviene sinonimo di “egoismo” e di “inclinazione a condotte antisociali”. Queste, anziché essere intese come reazione dell’individuo ad un regime repressivo, sono imputate all’individuo in quanto tale, come se egli non potesse agire in altro modo.
Condotte antisociali, è vero, possono verificarsi in raggruppamenti umani ampi, anche in un regime di libertà. Tuttavia, se l’autorità è di tipo liberale, essa esercita forme di controllo selettive, il cui scopo è proteggere la libertà dei più. In un’involuzione di tipo autoritario, i controlli si fanno più stretti e si estendono ad ogni rapporto, e lo scopo del potere non è più tutelare la libertà (che viene soppressa), ma estendere e rafforzare il potere stesso. In questi regimi, se un individuo non vuole rinunciare ad essere se stesso e ad avere rapporti riservati (privati) con alcuni dei suoi simili, ciò rappresenta di per sé una “trasgressione”. Questo è il motivo per cui, nella parola “individualismo” vengono designati come comportamenti antisociali (ed accomunati ad essi) quei rapporti di collaborazione autonoma che, in realtà, sono l’opposto dei comportamenti antisociali.
Un’ultima riflessione merita il concetto di “istituzioni”. Di esse, come si è visto, esiste un’ampia gamma che si estende dalle più liberali a quelle più autoritarie e repressive. La migliore istituzione sanitaria è quella che favorisce e tutela, al suo interno, “gruppi di lavoro” impegnati in attività terapeutiche; favorisce e tutela tali gruppi, ma non è essa stessa un “gruppo di lavoro”. Infatti l’istituzione, come tale, è fatta di regole codificate e di gerarchie rigide, vale a dire di elementi che non appartengono al tipo più evoluto di rapporto tra individui. Sinora, gli esseri umani non sono riusciti ad escogitare di meglio per contrastare le proprie imperfezioni, ossia le tendenze antisociali di alcuni. Tuttavia, le istituzioni sono da considerarsi una conseguenza (e un’espressione) di tali imperfezioni, un rimedio che si rivela esso stesso imperfetto; e, in caso d’involuzione autoritaria, altamente imperfetto. Disconoscere questo fatto, “sacralizzarle” e considerarle, per definizione, come espressione del “bene comune” significa privarci della possibilità di farle evolvere e, quando possibile, superarle.   
 
 
 
Bibliografia
 
I – Lavori scientifici
  1. Bion Wilfred R. (1961) Esperienze nei gruppi (Armando Armando 1971)
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  3. Freud Sigmund (1915) Lutto e melanconia (O.S.F. Vol. 8 – Boringhieri 1976)
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  7. Nanni Sabino (2015) Nel “paese del ciechi” Viaggio nel mondo della “psichiatria senza psiche” (Psychiatry on line, 2015, XXI http://www.psychiatryonline.it/node/5821 )
  8. Rossi Romolo (2007) I paradossi dell'empatia (In: Atti del convegno “Conosco le tue intenzioni. Empatia in Psichiatria” - Casa di cura "Villa S. Chiara" - Verona 2007)
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  10. Stern Donnel B. (2013) Relational freedom and therapeutic action (Journal Amer. Psychoanal. Assn. Vol. 61, N° 2, pag. 227)
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  12. Symington Neville (2007) A technique for facilitating the creation of mind (Int. J. Psychoanal. Vol. 88, N° 6, pag. 1409)
  13. Urtubey Louise de (2004) Freud et l'empathie (Revue Française de Psychanalyse Vol. 68, N° 3, pag. 853)
 
II – Opere letterarie e filosofiche
  1. Baudelaire Charles (1861) I fiori del male (Garzanti 1981)
  2. Dostoevskij Fëdor (1880) I fratelli Karamazov (Einaudi 1970)
  3. Orwell George (1949) Nineteen eighty-four (Penguin Books) [Traduzione italiana: 1984 - Mondadori 1982]
  4. Smith Adam (1759) De la synpathie (Primo capitolo de “La teoria dei sentimenti morali”) (Revue Française de Psychanalyse Vol. 68, N° 3, pag. 763 – 2004)

 
 

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