Dagli archivi de GLI ARGONAUTI: Scrivere di psicoanalisi

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14 marzo, 2016 - 12:53
NDR Articolo pubblicato nel numero 148 (Marzo 2016) de GLI ARGONAUTI - Carocci Editore

«Mi colpisce ancora
come qualcosa di strano il fatto che
le storie cliniche che scrivo
si leggano come novelle
e siano per così dire prive
dell'impronta severa della scientificità
»
S. Freud (dal caso di Elisabeth von R.)
 
Da qualche tempo a questa parte abbiamo l’abitudine di scrivere insieme: questa consuetudine nasce dall’aver condiviso l’esperienza formativa prima e in parte quella lavorativa poi; senz’altro l’amicizia che ci lega ha fatto da collante e in ogni caso affrontare un’operazione laboriosa come scrivere di psicoanalisi è più agevole se i pensieri e la fatica vengono condivisi passo passo. Per una di noi, inoltre, la partecipazione ad un gruppo di riflessione sulla scrittura è stata un’ulteriore fonte di spunti sull’argomento.
La scrittura per l’analista non è il mestiere principale, sebbene possa costituire un cardine importante della sua attività. Tante professioni condividono questa difficoltà: l’avvocato, il ricercatore, lo storico, solo per citarne alcuni. Anche tra gli scrittori con la S maiuscola, pochi sono quelli che sono riusciti a vivere solo del proprio mestiere: Kafka era impiegato in un ufficio, Eliot ha lavorato in banca e in una casa editrice, Fenoglio in una casa vinicola, Erri de Luca si è guadagnato da vivere a lungo facendo il muratore e riservando alla scrittura solo qualche ora al giorno. Dunque noi psicoanalisti, che scriviamo in studio tra una seduta e l’altra oppure nelle vacanze o nel fine settimana, siamo in buona compagnia.
Scrivere, per di più, è un’operazione complessa, non solo per lo psicoanalista: anche per lo scrittore di professione è una combinazione di talento e allenamento, dove la pratica quotidiana, l’esercizio delle proprie abilità descrittive e il contatto con il proprio mondo interno devono essere coltivati con dedizione e impegno costante. Anche gli scrittori apparentemente più noir e inquietanti hanno vite ordinate e predisposte alla scrittura: Ian McEwan, noto per i toni macabri e tormentati dei suoi libri, vive nella realtà una vita molto regolare, circondato dall’affetto delle persone care e da uno scenario del tutto normale. “Questa tranquillità – ha dichiarato in un’intervista - è il frutto di continuo impegno e di continui aggiustamenti. Per me è la condizione indispensabile per avere commercio con la mia immaginazione”. Del resto anche Flaubert in precedenza aveva descritto come dogma irrinunciabile per l’artista quello di “vivere come un borghese e pensare come un semidio”.
E gli analisti? Anche gli analisti attraversano questa dicotomia, perché vivono a contatto con il dolore e la sofferenza, con emozioni sottili, impalpabili eppure persistenti e profondamente infiltrate nell’assetto intrapsichico e relazionale della persona pur mantenendo una vita concreta fatta di una routine tutto sommato regolare. Viviamo, accanto ai nostri pazienti e in risonanza con loro, molte esistenze possibili ed è questo uno dei motivi fondamentali di fascino del nostro lavoro. Stiamo ore e ore sprofondati in poltrona, comodi e al riparo delle mura del nostro studio, eppure durante le sedute esploriamo paesaggi mentali diversissimi, seguiamo da vicino il dipanarsi dell’esistenza, dei ricordi e dei progetti di coloro che si rivolgono a noi per le ragioni più diverse: momenti di empasse, trasformazioni, formazione. Prestiamo la nostra mente, la nostra esperienza e la nostra sensibilità come casse di risonanza per le angosce dei nostri pazienti: la possibilità di vivere una vita sufficientemente ordinata non solo ci permette di garantire quella stabilità organizzativa per cui possiamo prenderci cura di loro con regolarità e costanza, ma fornisce all’analista un contenitore relativamente sicuro e saldo per esplorare territori impervi senza essere travolto dall’angoscia che potrebbe derivarne. 
Fin dagli anni della formazione siamo sollecitati a scrivere, a raccontare e a raccontarci: all’aspirante psicoanalista a più riprese viene richiesto di presentare curricula sotto forma discorsiva, resoconti clinici dettagliati, sunti teorici o semplici vignette cliniche. E qui veniamo alla prima difficoltà, perché la formazione analitica nasce nel solco dell’analisi personale, delle supervisioni, del training, di rapporti quindi orali, personali, vivi, per ognuno differenti e irripetibili. Il training e le esperienze di supervisione, di nuovo, sono segnate dalla peculiarità del rapporto maestro-allievo. Dobbiamo dunque compiere lo sforzo di muoverci tra i due versanti della parola detta e di quella scritta.
Durante le sedute è vivamente sconsigliabile che l’analista prenda appunti, per fare sì che egli possa mantenere la propria attenzione liberamente fluttuante e non impegnata nel pedissequo reportage dei contenuti del paziente. Ascolto sospeso dunque, il più possibile libero da vincoli e aspettative e dalla necessità di rielaborare e sistematizzare che il resoconto scritto fatto sul momento imporrebbe al clinico. La scrittura, al limite, può intervenire in un secondo tempo, nel redigere un sunto della seduta o nel rielaborarla più compiutamente a fini specifici.
La psicoanalisi non può essere appresa solo attraverso libri e manuali: più che una professione, è un mestiere che s’impara andando a bottega dai maestri (Pellizzari), cogliendone lo stile, la peculiare modalità, le finezze del mestiere. Non è solo talking cure. È talking learning, anche, in buona parte.
Scrive Chianese (2004):
 
“La formazione analitica, così come l’analisi, si vorrebbe iscrivere nella carne viva di un essere, a partire dalla sua storia profonda, intrecciarsi con il suo passato, la sua sofferenza e le sue speranze e quando ciò accade pensi che la psicoanalisi sia viva. Da analista ad analizzando, da supervisore a supervisionato, da maestro ad allievo, un passaparola (corsivo nostro): ricordi, storie, racconti, umori, stanze. Ognuno con i suoi ricordi, le sue case, i suoi odori, i suoi dolori. La psicoanalisi, e con essa la formazione, non potrà mai depurarsi di questi aspetti familiari e intimi, non potrà mai diventare una scienza «seria». Nel migliore dei casi rimarrà un buon artigianato, che passa nel tempo da bottega a bottega.
Nonostante i suoi limiti io difendo tutto ciò che può essere definito «tradizione orale» della psicoanalisi, o come suggerisce Petrella «tradizione iniziatica». Sono orgoglioso che in quest’epoca di aziende e tecnologie avanzate la nostra sia tra le poche tradizioni orali rimaste in Occidente”(pag. 253).
 
Oltre alla pregnanza dell’aspetto di trasmissione orale, anche la specificità dell’oggetto psicoanalitico è tale da generare, nel nostro campo di studio, difficoltà peculiari. Raccontare un’analisi è un’impresa pressoché impossibile. Anche raccontare una storia d’amore può esserlo, si potrebbe obiettare, tuttavia scrittori e poeti hanno fornito dell’amore, in modi e forme diversi, rappresentazioni evocative, profonde e vibranti, mentre non sempre si può dire altrettanto degli scritti analitici. Ci ha colpito, ad esempio, il fatto che anche una scrittrice di grande levatura come Goliarda Sapienza (2003), che nel libro Il filo di mezzogiorno racconta la propria esperienza d’analisi, ottenga in questo romanzo un risultato decisamente imparagonabile all’efficacia descrittiva e rappresentativa di altri suoi scritti.
Come mai raccontare l’analisi è così difficile?
Pontalis (2001) scrive: “Un’analisi non si presta alla narrazione. Si rifiuta a essa, resistendole come un cavallo selvaggio che qualcuno cerchi inutilmente di domare. (…) Questo movimento che ci anima – il movimento del pensiero, della lingua, del sogno, della memoria, della parola, del desiderio -, non potrà raccontare se stesso, tutt’al più potrà essere evocato (c’è voce in questa parola). È possibile trasmettere il movimento di un’analisi? A questa condizione: che attraverso la mia voce si senta quella dell’altro” (pag. 52-53).
L’analisi dunque, come l’Es, è difficilmente addomesticabile proprio per la sua complessità, che deriva dall’intreccio di livelli molteplici: verbali e non verbali, antichi e presenti, consci e inconsci, simbolici e corporei. La scrittura fatica a contenere questa complessità e a illustrarla nelle sue molteplici sfumature.
Nella mente dei due partecipanti, infatti, s’intrecciano e si contaminano scene e personaggi afferenti a livelli molto diversi del funzionamento mentale (Meotti, 2004) e il medico della psiche si dispone ad accogliere tale movimento imprevedibile al fine di dare voce anche a quegli aspetti più labili e meno evidenti dell’esperienza della persona.
La possibilità di mescolare, di cogliere nessi anche apparentemente lontani tra loro, di armonizzare sonorità e affetti molto differenti e apparentemente dissonanti della vita interiore del paziente è prerogativa fondamentale per l’analista.
Dunque la possibilità di evocare il dialogo tra la voce dell’analista e quella del paziente, di descrivere l’intreccio di risonanze e rimandi, di dare conto dello stratificarsi progressivo di una relazione che vorrebbe e dovrebbe trasformare, di illustrare la natura così rarefatta eppure così pregnante delle emozioni in gioco, non è affatto scontata. L’analisi sonda l’inconscio, quindi di per sé costituisce un ponte verso ciò che è sommerso e irrappresentabile: lo scritto, dunque, non può che evocare un derivato, senza contare che la trascrizione della seduta è già di per sé una traduzione. La scrittura analitica, dunque, si presenta già come traduzione di una traduzione.
Inoltre, l’analisi e il procedere psichico dell’analista in seduta viaggiano su frequenze poco descrivibili con le parole proprio perché intrecciate non solo all’aspetto inconscio, ma anche a quello preconscio: come segnala Bolognini (2010) “un aspetto speciale della vita psichica preconscia è quello economico. Il funzionamento preconscio, quando possibile, consente di solito un notevole risparmio energetico, perché i passaggi (più o meno segreti) permettono di bypassare senza dazi, controlli e controversie le dogane dell’Io difensivo e del SuperIo. Meno lungaggini, minor fatica, minor interdizioni”(pag. 605).
Forse è proprio per questa natura così stratificata, allusiva ed ellittica che l’analisi è così difficile da descrivere. Di nuovo Pontalis (2001) sottolinea la necessità di usare, nella scrittura psicoanalitica, proprio le parole giuste: “Quando si tratta di analisi, il rispetto per l’esattezza si sposta, esige modalità diverse. Si chiama, tra l’altro, rispetto per la parola giusta, per la parola che viene a proposito. Esso si adopera, con lo scritto, a trasporre il movimento e il ritmo della parola nel movimento e nel ritmo della frase, così come i momenti di rottura. In ciò è fedele al sogno: un sogno non è mai vago nella sua scelta delle immagini per dire ciò che lo muove, non potrebbe essere più preciso, è il suo racconto a renderlo vago. Rigore, precisione estrema della poesia, anche se non è di Mallarmé” (pag. 85). Cercheremo in seguito di capire se e come sia possibile trovare le “parole giuste”, ma per ora vorremmo soffermarci su un primo momento fondamentale per la scrittura, ossia la scelta dell’argomento e del territorio di ricerca.
La scelta di un argomento ci sembra affine al processo con cui nasce un’interpretazione. In analisi accade che, in un procedere a volte fluido e a volte stentato, sempre oscillatorio e mutevole, talvolta emerga un elemento che individuiamo come speciale, importante: d’improvviso, secondo traiettorie del pensiero non sempre spiegabili, una configurazione si staglia nella nostra mente riformulando significati e nessi. Gli elementi in gioco si rimodellano intorno ad un nuovo focus che imprime di volta in volta pulsazioni e direzioni al lavoro analitico. Ancora Pontalis (2001) segnala come l’oggetto specifico di un’analisi sia un’invenzione, nel duplice significato della parola, sia il ritrovamento di ciò che è qui, “un tesoro, talvolta nascosto”, sia una creazione inedita e originale, frutto di due inconsci che entrano in risonanza l’uno con l’altro (pag. 84).
Così come nella fluidità del procedere analitico si seleziona un fatto scelto capace di agglutinare rappresentazioni e significati, ci siamo chieste come, nel processo che ci avvicina alla scrittura, si giunga a individuare un argomento, una vignetta, un concetto che contenga lo spunto creativo da cui iniziare a riflettere e lavorare.
Ci sembra, dunque, importante soffermarci su questo particolare attimo in cui cogliamo e troviamo un appiglio creativo, originale, degno, appunto, di essere messo per iscritto perché testimonia un movimento di appropriazione creativa dell’oggetto di studio.
Catturiamo un pensiero, un’intuizione, qualcosa di prezioso. Il desiderio che nasce è proprio quello di conservare quel momento, quel pensiero, quell’intuizione speciale e di poterli rendere permanenti.
Jorge Luis Borges ci sembra descriva questo speciale istante con grande nitidezza nella poesia Nostalgia del presente:
 
In quel preciso momento l’uomo si disse:
cosa non darei per la gioia
di stare al tuo fianco in Islanda
sotto il gran giorno immobile
e condividere l’adesso
come si condivide la musica
o il sapore di un frutto.
In quel preciso momento
l’uomo stava accanto a lei in Islanda.
 
La nostalgia del presente è un sentimento che tutti possono provare, ma che ci sembra catturare un momento significativo, in qualche modo unico: quello in cui si riconosce l’importanza costitutiva di ciò che stiamo vivendo. Nel flusso continuo dell’esperienza, e in particolare dell’esperienza analitica, qualcosa viene individuato come denso di significato, fondante, unico e, in quanto tale, prezioso da conservare.
Quando quelle circostanze così particolari si verificano, può nascere il desiderio di conservarle e ripensarle, di trasmettere ad altri il senso e la pregnanza di quell’evento. A volte, come sottolineato da Bolognini (1995 pag. 567), anche i momenti esteticamente brutti di un’analisi meritano di essere descritti, ma proprio perché la loro natura dissonante cela qualcosa di importante. Ma sebbene questi ultimi godano decisamente di minor favore negli scritti psicoanalitici, chi trova il coraggio di parlarne riconosce loro un valore pregnante.
Se sappiamo conservare quella sensazione di soggettivo valore dell’esperienza vissuta e se siamo stati bambini la cui creatività è stata sufficientemente amata e apprezzata, riusciamo a tenerci stretto quel momento e quel pensiero, a coltivarlo, a custodirlo nella mente il tempo necessario affinché diventi qualcosa di formato ed esprimibile.
Creiamo qualcosa di nostro, di nuovo, un argomento scelto appunto, dando voce alle nostre intuizioni e al nostro mondo interno, e ci assumiamo creativamente la responsabilità di ciò che stiamo creando. Ci riferiamo all’esperienza vissuta ma anche a ciò che noi, grazie alla nostra capacità di soggettivazione unica e irripetibile, aggiungiamo a quella esperienza.
D’altro canto, l’analista che si cimenta nello scrivere su un argomento si comporta come il bambino che sceglie un oggetto transizionale: sceglie appunto, tra tanti possibili, il suo preferito. Lo scrittore, dunque, attribuisce un valore speciale al suo testo, che acquisisce un alto valore referenziale in virtù di qualcosa che lo scrittore stesso gli assegna, al di là della reale pregnanza dello scritto. E’ in fondo un rapporto di predilezione che non può dipendere solo dalla bontà oggettiva del testo, ma dal fatto che il valore aggiunto lo attribuisce chi lo crea.
Rinunciare a questo aspetto personale significherebbe sacrificare la parte autentica di sé e comporterebbe una decapitazione del nucleo del sé originario.
Ma se nello scrivere un testo ci permettiamo una certa dose di libertà, attingendo al nostro valore, riusciamo ad andare oltre il livello di mera documentazione di ciò che è accaduto e apriamo lo spazio all’elaborazione originale e creativa: ci affacciamo su quell’ignoto che non è il rimosso, ma la possibilità di entrare in contatto con il nucleo originario del sé, possibilità che ci sembra rimandare al concetto di persona dell’analista, così come è stato delineato da Davide Lopez.
Questo concetto rimanda proprio all’idea del per-sonare, ossia “quella ricca risonanza individuale dell’analista come essere umano che sembra per molti versi agli antipodi del concetto piuttosto francese dell’analista-personne ("nessuno") (Séchaud, 2003), e che non si riconosce dunque nel mito dell’analista come sacerdote di una pura, impersonale funzione analizzante in perenne decifrazione del transfert” (Bolognini, 2003 pag. 775).
Quando finalmente abbiamo delineato il nostro argomento di interesse e messo a fuoco almeno alcuni spunti a partire dai quali iniziare a scrivere, nella nostra esperienza accade qualcosa di particolare: un filone di pensieri inizia a prendere forma, gli uni scaturiscono dagli altri in un dipanarsi a più vie che in principio sembra difficile da organizzare. È l’inizio della fase creativa della scrittura, che ci sembra richiamare l’esperienza di gioco nel senso winnicottiano del termine, di “matrimonio dell’onnipotenza dei processi intrapsichici con il controllo del reale da parte del bambino […] Il gioco è immensamente eccitante […] non perché primariamente siano coinvolti gli istinti. La cosa importante del gioco è sempre la precarietà di ciò che si svolge tra la realtà psichica personale e l’esperienza di controllo degli oggetti reali” (Winnicott, 1974 pag. 92-93).
Scrivere di psicoanalisi, seppure nelle inevitabili difficoltà, può essere un’esperienza appagante e costruttiva, dove pensiero e azione si saldano in un aspetto gioiosamente creativo. Un’esperienza di creatività naturalmente non artistica, ma legata alla creatività cosiddetta “normale”.
Ci sentiamo, da questo punto di vista, abbastanza lontane dalla concezione kleiniana che vede la creatività legata alla riparazione e al bilanciamento tra impulsi distruttivi e impulsi libidici.
L’aspetto creativo della scrittura ci sembra più proficuamente collegabile al concetto che Bion (1973) evidenzia parlando di megalomania: contrapponendosi al concetto di onnipotenza, essa allude alla possibilità di congiungere il pensiero e l’azione accettando la possibilità di essere maturi, responsabili e creativi.
Quando finalmente prendiamo in mano la penna, o il computer, e scriviamo, abbiamo superato l’aspetto di empasse, depressivo - quello che ci fa pensare, ad esempio, che tutto sia già stato scritto - e abbiamo fronteggiato la paura della megalomania, rendendoci capaci di un atto responsabile, creativo, e dell’espressione di un pensiero che, almeno per noi che in quel momento lo stiamo formulando, è autentico e prezioso. Nel vedere la nostra creatura-scrittura che prende forma, avvertiamo il piacere della creatività nella sua sfumatura più infantile e arcaica, quella che Luisa Panarotto (2012) descrive efficacemente nell’indagare la natura “emotivo-esperienziale del creare: forse solo recuperando lo stato emotivo del bambino nei suoi primi esperimenti con il movimento, di sé, di parti di sé, di oggetti, esperimenti accompagnati tutti dalla percezione che la realtà appena precedente è stata da lui stesso modificata […] ritroviamo il trionfo e l’estasi di percepirsi modificatori, trasformatori, attori di nuovi assetti della realtà, propria e di quella circostante […]” (pag. 218).
La persona dell’analista, quindi, permea e connota profondamente non soltanto il lavoro clinico, ma anche quello di scrittura. Bolognini (2003, pag.776) sottolinea che chi si occupa di clinica dovrebbe “disporre di apprezzabili doti naturali, quali sensibilità, tatto, pazienza, capacità di scambio e di gioco creativo, di facile evocazione di ricordi, di connessione associativa, di fluidità nel rapporto col preconscio; essi hanno la fortuna di poter contare su una chiara distinzione (e su un buon orientamento) tra aspetti vitali e mortiferi, e su un assetto interno prevalentemente generativo. Sono insomma persone sostanzialmente abbastanza sane, con in più una qualche dose individuale di talento terapeutico” che permette di captare le frequenze preconsce della vita emotiva propria e altrui, e con una certa attitudine alla curiosità e all’utilizzo a 360° della propria esperienza.
In fondo, scrivendo, non utilizziamo solo l’ultimo articolo letto o il nostro bagaglio teorico, ma anche una mostra, un libro, un film, un ricordo d’infanzia, un’immagine catturata in televisione o sul web. Solo così gli scritti possono risultare vivi.
La possibilità di scrivere e di farlo davvero creativamente è inscindibile dalla comunicazione di questi aspetti privati, facenti parte dell’ombelico del sé, e della parte più nascosta della relazione clinica. Il passaggio tra privato e pubblico è dunque uno snodo fondamentale: lo scritto psicoanalitico, infatti, rappresenta da un lato un’esperienza privata, perché attinge al mondo interno, alla persona, alla vibrazione di quelle corde inevitabilmente soggettive che abbiamo a lungo descritto, ma quest’amalgama trova poi, nella scrittura, la possibilità di trasformarsi in un’esperienza condivisa.
La necessità di condivisione - che costituisce, non solo per l’analista, la base del desiderio di scrivere - fa parte della natura umana ed è espressione del bisogno di appartenere a un gruppo, dal momento che anche il senso di appartenenza sostiene la nostra identità. Essere psicoanalisti oggi, come sostiene Corbella (2014), significa essere consapevoli non solo delle ricadute che il mondo intrapsichico ha nella nostra quotidianità, ma anche della continua interazione dialettica tra intrapsichico e interpersonale. Questa consapevolezza, ricorda sempre l’Autrice, può essere intesa anche come il lopeziano sapere insieme.
La scrittura psicoanalitica esige dunque, per essere pregnante e significativa nella sua valenza di trasmissione e comunicazione, una grande cura, prima di tutto delle parole. Come accennato in precedenza, servono le “parole giuste”. Ma come trovarle?
Per farlo è necessario fare appello sia al principio di piacere, sia a quello di realtà: la scrittura analitica è, infatti, da un lato una scrittura scientifica che deve fare riferimento alle teorie, ma è anche una scrittura estetica che deve risultare accattivante e seducente.
Perché questo accada deve integrare i due differenti registri del pensiero, quello primario e quello secondario. Come il sogno che prende forma ma perde qualcosa quando viene raccontato, anche un pensiero o un resoconto clinico possono perdere qualcosa nel momento in cui vengono riorganizzati attraverso il processo di scrittura per divenire comunicabili.
Chi scrive si muove su un crinale sottile e disagevole, tra il desiderio di rendere la ricchezza di ciò che ha vissuto nel lavoro clinico, e l’esigenza di ripulire e semplificare per rendere l’esperienza comunicabile e intellegibile. Questa seconda e imprescindibile necessità talvolta può prendere il sopravvento, a scapito della possibilità di approfondire e rispettare la ricchezza dei rimandi e delle evocazioni che possono nascere dal materiale clinico.
Questo è ciò che può rendere alcuni scritti psicoanalitici piatti, privi di risonanze per il lettore: d’altronde è diffusa l’idea, come sottolinea Giuffrida (2004), che raccontare la clinica generi sovente un sentimento diffuso di insoddisfazione nel narratore-scrittore, come se questi non riuscisse mai a comunicare veramente ed efficacemente il vissuto della seduta.
Fusini (2003) parla, a questo proposito, di passione per l’ignoranza, intesa non tanto come una passione per l’assenza di sapere, quanto come una difesa da un eccesso di conoscenza: il concetto stesso d’inconscio, secondo Giuffrida (2004), risponderebbe, più che ad un bisogno di carattere conoscitivo, a questo tentativo di difendersi. L’inconscio ci protegge dall’eccesso dei suoi contenuti, proprio in quanto inconoscibile per definizione: Freud con questo concetto ha delineato il paradosso più potente, ossia l’idea di un luogo familiare ed estraneo, fondante e inconoscibile allo stesso tempo, che resta sottratto alla coscienza, pena la scomparsa del concetto stesso.
Le leggi atemporali dell’inconscio e del processo primario del pensiero sfidano dunque le leggi della scrittura e della comunicabilità.
Giuffrida (2004) sottolinea come l’analista sia esposto, nel contatto con il paziente a quello che lei definisce un eccesso di vissuto e, in effetti, se pensiamo ai momenti di maggiore pregnanza e contatto con i pazienti, ci accorgiamo che essi avvengono quando le nostre difese si abbassano. Solo se siamo particolarmente in contatto con le nostre parti più primitive possiamo accogliere le proiezioni delle parti meno strutturate, più dirette e inconsce del paziente.
Scrivere, quindi, implica sempre e comunque un’ammissione d’incolmabile separatezza tra sé e l’oggetto della propria riflessione, della propria scrittura e della propria esperienza, che contengono un nucleo inconoscibile. Il processo conoscitivo in senso lato si basa su questo riconoscimento: per quanto la conoscenza sia un’operazione di avvicinamento e di maneggiamento dell’ignoto, all’oggetto in sé non arriviamo mai. Taluni parlano dell’intero processo di scrittura come di un tentativo di elaborazione di un lutto.
Se l’analista ha tuttavia interiorizzato in modo sufficientemente vivo i momenti, gli stati d’animo, gli affetti avvenuti in seduta, può rappresentarli al lettore a patto che operi una sorta di “transfert” che contempli l’accettazione della perdita. Così come il transfert analitico è una riedizione mai identica del rapporto con gli oggetti primari, lo scritto descrive ciò che è avvenuto in un altrove, un evento dal quale ci siamo separati e che possiamo rivivere e far rivivere attraverso le parole, che rappresentano di fatto un “transfert”.
Solo a patto che lo scrittore “operi un transfert […] e sia consapevole e rispettoso di rappresentare un altrove egli potrà permettere al lettore di entrare in quelle trascrizioni, favorendo o meno in quest’ultimo un’attività di pensiero “immaginaria”, visiva e uditiva, per vivere, certo soggettivamente, quei momenti, quegli eventi, quelle descrizioni o quelle formulazioni teorico cliniche che lo scritto non riproduce ma che ha già piuttosto trasformato.” (Racalbuto 2004, pag. 391).
Già Freud, in una lettera a Lou Salomè del 25 maggio 1916, esprimeva l’idea della necessità, nella scrittura, di accostarsi a questo elemento ignoto: “Io so che nello scrivere devo accecarmi artificialmente per poter dirigere tutta la luce su un punto oscuro”.
La posizione di Bion in merito al sapere (trasformazioni in K) è lontana dal positivismo freudiano. Bion ci invita, per quanto possibile, a sospendere memoria, desiderio, bisogno di comprendere: cerchiamo di avvicinare la nostra O, l’assetto basale inconoscibile, l’inconscio, per intercettare l’O del paziente. Nell’analisi a questo movimento segue quello conoscitivo, interpretativo, di trasformazione in K, ma la possibilità di viaggiare vicino a O ci sembra particolarmente importante anche nella scrittura, o almeno in una scrittura che voglia essere effettivamente viva, evocativa, pulsante.
L’analisi è arte dello scomporre nessi apparentemente logici e ricomporne altri sulla base di frequenze differenti, sganciate dal pensiero secondario. Tutto questo lavoro di scomposizione e ricomposizione è complesso ma piacevole e al tempo stesso va ritrovato anche nella scrittura.
Pensiamo ora al processo di concreta stesura di uno scritto: la realizzazione stilistica che rende il testo fruibile necessita di tagli e rielaborazioni, di rinunciare ad alcuni pensieri o renderli secondari per potere dare ordine e intelligibilità al discorso. Ma non si tratta solo di questo: nello stendere un testo bisogna anche “esprimere” quindi “trasformare”, con l’ascolto interno di tutte le voci in campo, un dato che è affettivamente e/o rappresentativamente informe in una forma di comunicazione viva (sempre Racalbuto, 2004). Bisogna quindi trasformare da anima della parola a corpo delle lettere scritte .
Per evitare uno scritto noioso è necessario mantenere le parole vive, la pulsionalità da cui esse scaturiscono, poiché la qualità e l’efficacia delle comunicazioni dipendono da come si ascoltano e trascrivono le “voci” interne che presiedono ai nostri pensieri nella scrittura (Racalbuto, 2004). In questa traduzione deve, dunque, esserci una corrispondenza significativa tra le parole espresse e l’affetto che le ha informate.
Talvolta le parole scritte (come quelle dette in analisi) possono risultare vuote quando la traccia mnestica che le collega alle cose è interdetta oppure indebolita: la parola non ci dice niente in questi casi, sembra un suono freddo, disconnesso dalle rappresentazioni affettive. Nominare una madre, un padre, un fratello, un amico, in seduta come in un testo, diventa pregnante solo se noi abbiamo almeno un po’ in mente la madre, il padre, il fratello del paziente, e anche i nostri oggetti di riferimento in tal senso. Se dare parole alle cose è una formula molto utilizzata tra gli analisti, lo è molto meno il dare cose alle parole, rendendole evocative e dotate di una sostanza sottostante (Bolognini, 2010). Possiamo pensare che Racalbuto alluda proprio a questo quando sostiene che la scrittura non è concepibile senza la sessualità (Racalbuto, 2004b), nel senso che per diventare comunicabile affettivamente, comprensibile e condivisibile, fa necessariamente appello a eros, creatore di legami. Egli si pose questo problema quando, neodirettore della Rivista di Psicoanalisi, s’interrogò sul problema dei criteri di pubblicabilità e sottolineò come la scrittura psicoanalitica debba essere in grado di sedurre e di non annoiare.
 La noiosità di certi scritti origina proprio dalla perdita del legame con gli aspetti libidico-emotivi della vita affettiva. Eros smette di pulsare nelle parole, lasciando spazio a una pignoleria esagerata, che trova la propria ragion d’essere nel feticistico tentativo di mantenere nello scrivere uno stato di eccitazione o di soddisfacimento narcisistico, rinunciando alla possibilità di condividere autenticamente e liberamente il proprio pensiero.
Accettare che la parola debba in parte perdere di “precisone” per evocare affetti, vissuti e contaminazioni - come la parola della poesia “che dice ma fa anche sognare” - non significa accettare una sorta di approssimazione che riduca il senso e la responsabilità del contenuto dello scritto, in una sorta di relativismo che permette di dire tutto e il contrario di tutto. Al contrario, la differenza tra un testo letterario e un testo analitico risiede proprio nel fatto che il secondo deve mediare tra intuizione dell’evento e indagine teorica, dando un significato agli accadimenti, cercando spiegazioni e legami alla luce delle teorie che l’analista scrittore ha in mente. 
L’analista, in qualità di esperto della mente umana, scrivendo fornisce un resoconto delle proprie indagini, compiute attraverso strumenti idonei nella cura e nella comprensione del funzionamento della mente umana. Il suo compito, tuttavia, non è solamente legato alla descrizione di una situazione contingente e specifica. Scrivendo di psicoanalisi ci si assume la responsabilità di esprimersi in merito al funzionamento della mente; l’utilizzo nel lavoro clinico di strumenti legati alla propria soggettività non implica una perdita di oggettività e scientificità.
Analogamente a quella tensione etico-terapeutica (Mariotti, 2013) che deve spingere il clinico a sospendere il giudizio e l’adesione ai valori assoluti delle questioni di principio, assumendosi comunque la responsabilità di rompere le collusioni patologiche del paziente con le proprie parti distruttive, esiste per chi scrive di psicoanalisi una responsabilità specifica. Egli non si ritiene portatore di una verità assoluta, ma inscrive la specificità dell’osservazione clinica, unica e irripetibile, in un quadro esplicativo più ampio, informato anche dalle teorie, implicite ed esplicite, alle quali fa riferimento, senza che diventino per lui questioni di principio teoriche. Lasciare che gli affetti e la soggettività facciano da filtro anche nelle scelte teoriche non implica, dunque, una deriva relativistica e una rinuncia alla scientificità.
In questa stessa direzione ci sembra che debba declinarsi il legame con le teorie.
Sebbene la psicoanalisi sia una scienza giovane - la cui nascita viene ricondotta alla figura di Freud-, nel corso di poco più di un secolo ha visto il fiorire di un vivacissimo dibattito teorico e clinico. Ciascuno psicoanalista nel corso della propria formazione e dalla propria pratica professionale individua i propri riferimenti teorico-clinici, che fanno da sostrato ai possibili sviluppi creativi di quelle stesse teorie. Ma curiosamente gli psicoanalisti, in una misura che ci sembra molto maggiore di altri scienziati, sembrano dover iniziare ogni lavoro citando Freud e i sacri progenitori. Una piccola offerta alle divinità del passato? Una naturale riconoscenza nei confronti dei propri predecessori, in fin dei conti nemmeno troppo lontani nel tempo?
Come illustra Bolognini (2010 pag. 604) “la relazione con gli autori costituisce per ognuno di noi un ulteriore luogo di declinazione interna del transfert, con cui tutti dobbiamo fare i conti: abbiamo il compito interminabile di coltivare il nostro legame con questi oggetti interni psicoanalitici, relazionandoci con essi intensamente e creativamente ma senza farli diventare sostitutivi rispetto al nostro sé: ammirandoli e amandoli, dialogando con loro, imparando e arricchendoci di introiezioni parziali, ma rispettandone l’alterità.”
Nello scrivere, così come nel nostro operare clinico, il dialogo con i nostri riferimenti teorici si rinnova nell’integrazione tra il vecchio e il nuovo. Di fronte alla pagina bianca dovremmo potere ascoltare molte voci dentro di noi: quelle che parlano dei nostri maestri, di ciò che da loro abbiamo imparato, e quelle che parlano di noi, delle novità e delle cose non dette da loro che sentiamo come originali e nuove.  Ogni parola risulta, quindi, essere una mediazione tra il contatto originario della nostra capacità di farci accudire, permettendoci di recuperare i maestri - letti, conosciuti o esperiti- e la nostra capacità di restare da soli. Colui che riesce ad avere con gli autori un rapporto non dogmatico né adesivo, ma di identificazione libera e creativa, può partire da essi per esplorare nuovi campi del sapere psicoanalitico, spingendosi nei territori liminari e meno frequentati, o viceversa approfondendo con originalità ciò che è stato già descritto nel passato.
 
 
CONCLUSIONI
 
Il testo rappresenta, per l’analista che lo crea, un oggetto con il quale entrare in continua relazione: con esso ci sentiamo un tutt’uno, dal momento che è un nostro prodotto, ma da esso bisogna anche continuamente separarsi; da esso ci lasciamo penetrare e in esso penetriamo. Il rapporto con questo particolare oggetto non può costituire un’esperienza “noiosamente felice” in cui tutto sgorga naturalmente, ma, al contrario, può svilupparsi creativamente solo se attinge a un ventaglio di esperienze in cui si alternano vissuti di pieno e di vuoto, di dolore e di gioia, di eccitazione e rilassamento, di comprensione e non comprensione.
L’autore per realizzare un testo vivo e piacevole deve riuscire a scrivere libera-mente (Zucca, 1998), vivendo tutto il ventaglio di esperienze e declinazioni per poi riordinarle, mettendo da parte le regole accademiche pedisseque e l’adesione rigida a verità teoriche ideologiche, che renderebbero le parole dello scritto noiose e sempre  uguali a se stesse. Lo scritto dovrebbe essere sempre relativo, non assoluto (Zucca, 1998): relativo nel senso di “in relazione”, cioè un’entità in cui possono entrare in gioco sentimenti, emozioni e tutto il mondo affettivo a essi connesso. Deve essere vero, non nel senso scientifico del termine, ma ancorato a un vissuto libidico-emotivo che permetta un riconoscimento reciproco.
 
Concludiamo queste pagine con le belle parole di Pontalis (2001): “Rimanere in ciò che è oscuro, sognare, se possibile, in quel buio traversato da brevi schiarite per tentare di avvicinarsi il più possibile a ciò che mi è radicalmente estraneo, a ciò che l’altro sente come estraneo a se stessi, ma a cui non può sfuggire.
Prima che il pensiero si rimetta in moto, occorre che si arresti, che venga preso dallo spavento o dalla meraviglia, che si lasci rapire anche a rischio di perdersi” (p. 21).

 
 
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