CUORE DI TENEBRA
Viaggio al termine della psichiatria
di Gilberto Di Petta

LE PRIGIONIERE DEL TEMPO

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18 luglio, 2017 - 12:48
di Gilberto Di Petta
Amori et dolori sacrum
Fersen

Sul frontone di villa Lysis, a Capri, sulla parte più alta del costone roccioso a nord, a picco sul mare, finalmente è accessibile Villa Lysis. Culla e tomba del barone Fersen, flaneur e omosessuale dei primi del Novecento, annegato nell’oppio e nella cocaina a 40 anni. Meravigliosa, Liberty  e neoclassica.
Mentre mi trovo al centro del gruppo, nel Carcere femminile di Pozzuoli, di fronte ad Emanuela, rivedo le lettere cubitali, in oro, sul frontone del patio : AMORI ET DOLORI SACRUM.

E’ alta, Emanuela, slanciata, dura e disperata, giovane. Alla prima carcerazione. Ci teniamo per le mani. Ci guardiamo. “Hai dentro tutta la rabbia del mondo”, le dico. E’ in traferimento per un altro carcere. Si consuma, per lei, un congedo difficile. Questo è il carcere dove è stata detenuta sua madre, quando lei era bambina. Da qualche parte si è fatta arrestare per venirla a cercare. “tu hai dentro tutta la rabbia del mondo” Piange. Finalmente adesso piange. Silenzio intorno a noi. Più di quaranta occhi di donna attaccatti addosso a noi due. Silenzio. Ci alziamo. Ci abbracciamo. E’ una canna, battuta dal vento, che mi scuote le spalle. La sua forza, le sue lacrime. Il suo dolore, il suo amore. Siamo nel camerone oblungo chiamato “scuola”. Le detenute, abituate a fare corsi di ogni genere,  chiamano quest’esperienza il “Corso Gruppo”. Nigeriane, magrebine, asiatiche, napoletane dei quartieri, di Scampia. La lingua che usiamo è un pastiche. Ma le emozioni sono uguali. Dirette come pallottole che spaccano il cuore. Assassine, spacciatrici, psichiatriche dell’Osservazione. Silenzio, ventidue donne in assoluto silenzio. Ritorniamo nel cerchio. Faccio il giro finale. La signora Maria, arrivato il suo turno, dice : “Sono Felice”. L’applauso prorompe, forte. Da due anni il suo dolore è prigioniero del tempo. Con la chiusura di Castiglione delle Stiviere vive ormai nella nostra osservazione. Assassina del figlio disabile e suicida anch’essa, per amore di mamma che, presagendo l’avvicinarsi della morte, non voleva lasciare il figlio solo al mondo. Vive con altre tre detenute in una cella di due metri per quattro. Colloqui settimanali, pochi farmaci. La depressione maggiore delirante, nei mesi è svaporata. Con essa l’idea di dover morire che l’ha condotta alla soluzione finale. Ma Mirko, il suo Mirko, non c’è più. Poi il duro riemergere della lucidità. Il momento, irrispondibile, del “Che cosa ho fatto?”. Il perdono impossibile. Ha distrutto tutto ciò che amava. Non ha mancato uno solo di questi  Gruppi Dasein scanditi, giovedi dopo giovedi, come grani di rosario. Dolore, lacrime, abbracci. Disperazione, condivisione. “Tu mi dai speranza”, fa eco Anna, omicida del partner crackomane durante una colluttazione seguita al suo tentato suicidio. Io, psichiatra di tossici e di matti, in mezzo a loro. Debole, disarmato. Senza i miei infermieri, senza i miei sedativi, senza il mio reparto. Nudo, unico maschio esposto allo sguardo, come un essere strano. Io, che mi vergogno per quello che i maschi come me hanno fatto a queste donne. Io, che non mi ritengo degno di scavare nel loro dolore. Io, che ho trascorso più tempo sui libri che per la strada. Più tempo nelle corsie ospedaliere che nel mondo. Loro, che hanno vissuto molte vite. Che hanno subito molte morti.  Vengono, il giovedi pomeriggio, a questo strano gruppo amori et dolori sacrum. Vincono l’omertà. Vincono la solitudine che precede e che segue al gruppo. Vincono la paura di sollevare la melma del fondo. Rispondono al mio invito di fare questo viaggio dentro. Solo dentro, loro che sono vissute solo fuori. Agendo, fuggendo, truffando, rubando, uccidendo. Questo carcere a picco sul mare, antico come il male, è la grande prigione del tempo. Il freezer del loro dolore. Io vedo il loro dolore congelato nel ghiacciaio di queste mura ciclopiche come quele dello Spielberg.Che posso fare, come uomo e come psichiatra al cospeto di questo dolore? Io lo scalpello, io le invito, le ascolto, le guardo, io chiedo loro solo un cubetto alla volta di questo ghiaccio avvelenato e tossico, ad ogni incontro. Incontro dopo incontro. Io sento la lastra che si incrina, e il dolore che preme. Ed è il  loro fuoco, chiuso dentro il ghiaccio. “Ogni essere umano -scriveva Chatwin- porta dentro di sé l’idea che un giorno lo ucciderà”. Ognuna di loro, lo sento, è una minavagante. E’ una carica detonante innescata. La Giustizia le congela in questa prigione. Ma esse sono minate. E quando usciranno esplodeanno. Qualcuno metterà il piede sopra queste mine antiuomo, ed esse salteranno. Non ha alcun senso chiudere gli esseri umani senza lavorarci dentro. Io, adesso, sono il loro artificiere. Quello che rischia di esplodere con loro. Quello che preferisce lavorare sulla carica, anziché tenerla sepolta. Ho poco tempo ma devo disinnescare la carica. Devo riuscire ad invertire il fili. La rabbia e il dolore devono, anziché esplodere, canalizzarsi verso la vita. La mia formazione mi consente di fare quello che faccio? Ne ho il diritto? Nessuno mi paga per questo. Il mio compito istituzionale qua dentro è ben altro. Perché allora lo faccio? E se le cose non vanno bene? Se  lascio queste donne a cuore aperto sventrato da questi stessi mostri che evoco? E’ possibile compiere, nella realtà, il miracolo del re Mida? E’ possibile convertire la merda in oro? Da solo no. Con loro si. Mi seguono, stranamente mi seguono, in questo viaggio al termine della notte. Il giovedì pomeriggio in genere sono stanco. Smonto da 18 ore di guardia. Con me c’è Margherita. Senza di lei non ce la farei. Dolce e giovane psicologa che ha messo da parte anche lei la sua formazione sistemico-relazionale, per essere dedita all’altro. Le abbraccia. Si fa abbracciare. Chiude, come femminile sapienza, le ferite che il mio bisturi a volte sadico apre in queste anime. Le rassicura, che da questo male verra un bene. Con le sue lacrime le convince, autenticamente, che la via d’uscita passa per questo male. Che, come hanno sostenuto duemila anni di filosofia, la coscienza è dolore, PATHEI MATHOS. La mia stanchezza forse mi aiuta, perché abbassa il mio controllo, come le palpebre dei miei occhi, favorisce, in me, medico psichiatra razionalista,  un senso di abbandono. Dopo quello che vedo al SerT e in Pronto Soccorso e in reparto che cosa mai mi potrà più sopraffare? Nelle ultime 24 ore ho fatto trenta visite.  Questa mia onnipotenza residua, nonostante i quindici anni di analisi personale, è quella che mi spaventa di più. Ma è l’arma meno spuntata che ho. Il gruppo Dasein dura un’ora e mezza. Alla fine ci abbracciamo e ci baciamo tutti con tutti. Gli occhi di tutti, anche i miei, sono lucidi. I volti sono segnati. Le braccia che stringo portano i segni orizzontali dei tagli con il coltello di plastica a seghetta. Le giugulari cucite dai chirughi. Le parti di pelle scoperte sono tatuate. Le nere hanno i capelli finemente intrecciati, quasi scolpiti. Le loro guance hanno le scarificazioni che marcano le tribù di provenienza. Qualcuna non si taglierà più, tornata in cella. Qualcuna non romperà più lo sgabello in testa ad un'altra. Qualcuna penserà che non è la sola al mondo a soffrire. Qualcuna riconoscerà in qualcun'altra la sua stessa natura umana. Non possiamo anche noi psichiatri diventare complici della Giustizia-frigidaire. Non possiamo ridurci, qui dentro, ad anestesisti del dolore, come fuori siamo ridotti, come dice Galzigna, a “gendarmi delle passioni deragliate”. E’ un dolore sordo, questo, che ad un certo punto mugghia, come il mare in tempesta. Dobbiamo dargli un nome, appena esce. Cominciamo col dargli un nome, con il chiamarlo per nome. Come un bambino. Così lo evochiamo, lo facciamo levare come una salma bendata dal suo sacello. Questo dolore, immenso, è il dolore di figli non più visti. Di nostalgia della droga che ti obnubila, ma che ti fa fare apaticamente la puttana in strada. Questo dolore è fatto di abbandono, di tradimento, di arresti violenti consumati prima dell’alba. Di bambini lasciati in case fatiscenti, con gli occhi attoniti, che cresceranno con l’odio per lo Stato orfanofilo e matricida. E’ il dolore per i maschi, gli uomini, compagni di vita che le hanno abusate, vendute, usate, “cantate”. Che gli hanno fatto sembrare normale anche reato più efferato, dicendogli che andava fatto, per la famiglia. Questo dolore è fatto di coltelli, di forbici, di ferri da stiro e di martelli insanguinati, impugnati per scrivere una fine, ad una tragedia che poi è continuata. Noi della psichiatria che ci facciamo qui? Basta una nostra visita veloce? Per compilare regolarmente la cartella? (“Dorme signora?” “E’ nervosa?” “E’ depressa?” “sente le voci”) Per ordinare una sorveglianza intensificata? Per assumerci la responsabilità di un isolamento? Bastano una benzodiazepina, un neurolettico o un antidepressivo a contenere tutto questo dolore? Che cosa può una psicoterapia individuale di fronte a questa colata lavica? Ci sono immagini che ossessionano queste donne, che mai nessuna parola attingerà, in un dialogo vis-a-vis. Ci sono immagini, che in ore fatte di nulla passate sulle brande, esse vedono comporsi nelle macchie dell’intonaco screpolato, come i disegni di Egon Schiele. Queste immagini forse solo nelle lacrime, nelle grida, nella contrazione dei muscoli possono decostruirsi. Che cos’è, allora, questa strana esperienza di gruppo in cui io le invito a non dire nulla, solo a sentire il battito del cuore, il murmure del respiro, il sudore delle mani che si toccano, il rumore delle braccia che battono le spalle dell'altra, nell’abbraccio anziché il proprio petto? Possono queste emozioni violente, patiche, diventare a poco a poco un dolore più dolce? Arrivare a farsi parola? Diventare coscienza? Possono i loro incontri con le altre e con se stesse in questa atmosfera densa, rarefatta e autentica, riaccendere la speranza? Se Jaspers si chiedeva : “Può un essere brillare dal fondo del buio?” NIetzche rispondeva : “Le stelle brillano nel buio”; e “solo dal caos può nascere una stella”. Io ci credo. Non so se sia valido. Se abbia un senso. Ma mi pare che venire qui, avere il repartino di osservazione e non ingaggiarsi sul piano umano con queste donne non abbia alcun senso. Io e Margherita ci crediamo. In tre anni nessun infermiere della psichiatria o della medicina carceraria ci ha fatto compagnia, se non qualcuno, una volta sola. Con sarcasmo ed ironia il gruppo viene chiamato : “la seduta spiritica”, oppure “la terapia del pianto”.  Neanche nessuno degli psichiatri nostri colleghi si è mai fermato per capire che cosa accade il giovedì pomeriggio qui dentro. Non recriminiamo. Sullo statino paga non c’è la voce : lacrime. Non c’è la voce : dolore. Né in quello dei nostri colleghi e neppure nel nostro. Vanno bene la distanza, l’istituzione, la mansione, il ruolo e il compito. Ma che significa allora quello che Fabrizio Starace pensa, quando scrive : “L’operatore psichiatrico deve essere speranza….deve farsi speranza…”? Speranza di che? Come, in che modo? La mia formazione fenomenologica “sospendere” tutto questo. Almeno una volta a settimana. Almeno per un’ora e mezza. Voglio essere non solo e non più uno psichiatra da scrivania, ma solo un uomo, con la sua vita, un uomo tra donne; voglio sentirmi schiacciato e riabilitato. Perdonato. Voglio essere il trapezista che lascia il trapezio e confida che una mano, nell’aria, lo raccolga. Voglio mettere la mia vita nelle peggiori mani possibili. Voglio vedere se con gli scarti dell’umanità si può costruire una nuova umanità. Voglio essere il funambolo di Nietzsche, il clown di Starobinski. La psichiatria, in fondo, ancora me lo consente. Una psichiatria che resiste alle nosografie e alle prescrizioni. Una psichiatria etica e gentile. Una psichiatria dell’incontro assoluto. Una psichiatria che sa ancora appellarsi, nonostante tutto, all’amore e al dolore.    

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Commenti

sento in queste righe come un ritorno lirico e drammatico del discorso antipsichiatrico, e contemporaneamente qualcosa di nuovo che mi piace e mi commuove. Bravo!! e Brava Margherita, la psicologa!
a proposito si può conoscere il suo cognome?
Un saluto e un augurio alle prigioniere del tempo!! Che ognuna di loro, come ognuno di noi, possa trovare o ritrovare una nuova e più ricca umanità!
Dino Angelini, psicologo

Ciao Dino sono Margherita Attanasio la psicologa che da tre anni insieme a Gilberto si è tuffata con paura, fragilità, determinazione e speranza in questo viaggio di dentro, fino al buio più pesto, giù fino all'inferno..... La nostra forza credo sia proprio questa: il viaggio è insieme, io e te uguali e diversi, con lo stesso biglietto, con le stesse paure, spalla a spalla occhi negli occhi mano nella mano per sentire e sentirsi, per trovarsi e vedersi anche nell'oscurità di quel dolore che toglie il fiato la parola e lascia spazio alla forza dell'incontro.
Margherita Attanasio, psicologa psicoterapeuta


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