PENSIERI SPARSI
Tra psichiatria, impegno civile e suggestioni culturali
di Paolo F. Peloso

SUICIDIO ASSISTITO: una certezza, e un duplice turbamento

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1 marzo, 2017 - 01:20
di Paolo F. Peloso
La vicenda del DJ Fabo della quale si parla in questi giorni ha suscitato anche in me, come in Sarantis Thanopulos[i], qualche pensiero che vorrei qui condividere. Credo che essa debba in primo luogo essere guardata per quello che è: la morte di un uomo. E dunque, il primo pensiero che evoca in me è che, se qualcosa abita il buio che sta oltre la morte, gli auguro con tutto il cuore che gli sorrida.
Ma certo essa è anche, per sua scelta innanzitutto, un fatto politico, anzi biopolitico, che mi riguarda come uomo, e come medico e psichiatra. Mi sforzo quindi di pensarmi al suo posto, e non so se, dopo dieci anni, io sarei disposto a continuare una vita divenuta immobile e cieca, credo molto dolorosa, o se deciderei anch’io di interromperla scegliendo il buio che sta oltre la morte, un buio che so che potrebbe anche essere niente. Sono però certo di una cosa: che nessuno avrebbe il diritto di decidere per me. Che, se fossi in quella situazione, vorrei poter essere io a decidere.
Mi pare così evidente che quella decisione apparterrebbe solo a me, che non ho dubbi che sia solo questione di tempo: l’assistenza al suicidio in casi come questo - nei quali assistiamo a un quasi completo venir meno del funzionamento del corpo e al persistere di un funzionamento della mente che in questo caso nessuno mi pare aver messo in discussione - sarà presto lecita anche in Italia. E, per essere davvero lecita in tutti i casi, dovrà essere anche gratuita (si tratta di una questione troppo importante perché chi non ha il denaro per accedervi possa esserne escluso).
Rispetto, certo, il convincimento di chi crede che la vita debba essere in ogni caso e in ogni situazione portata avanti finché non sia il compimento del proprio destino a interromperla; ma credo che questa posizione dovrà essere sostenuta attraverso lo sforzo della persuasione e del convincimento, e non attraverso l’imposizione di un divieto a chi, in quel delicatissimo momento, intende prendere un’altra decisione. In questi termini, anzi, sarà una risorsa importante per la nostra cultura; non mi sfuggono, infatti i pericoli che potrebbe generare - se portata all'estremo (il che non è in questo caso) - l'dea che la vita sia degna soltanto se efficiente (personalmente, credo anzi il riferimento a un concetto astratto e poco determinato come quello di "dignità della vita" poco adeguato a questi casi, e preferirei quello a un più concreto rifiuto del protrarsi di una sofferenza della quale non si coglie più il senso).  
Questa porta, comunque, sarà prima o poi aperta; e credo giusto, con molta convinzione, che lo sia. Ma questo porrà inevitabilmente problemi, alla bioetica, la medicina e anche la psichiatria. Perché il soggetto che incontriamo nella realtà non corrisponde a un ideale soggetto standard: è carico delle sue fragilità, le oscillazioni, le discontinuità, i ripensamenti. E credo che non ci sia dubbio che per una decisione così importante, da prendersi una volta per tutte, è indispensabile che il soggetto possa disporre della piena presenza della sua sovranità su se stesso. E qualcuno dovrà verificarlo.
Non sembra essere stato questo il caso, ma certo condizioni disperate e dolorose come quella in cui Fabo si è trovato non lasciano la mente tranquilla: è possibile che evochino del tutto comprensibili stati affettivi di depressione, temporanei o anche permanenti. Quali sono i parametri che ci permettono di escludere che la volontà sia influenzata, nel momento in cui si decide, da questa condizione mentale? Che sia davvero libera e pienamente consapevole? Parliamo della vita, e non sono ammessi ripensamenti. E per quanto tempo è necessario che questa volontà sia confermata per poter escludere che sia il frutto di un solo momentaneo sconforto, dal quale il soggetto potrebbe poi riprendersi cambiando il proprio parere? Questo tempo non potrà essere stabilito altro che in modo arbitrario.
Ma non si tratta solo di questo. Nel caso di Fabo, ci siamo trovati di fronte a una condizione inguaribile e dolorosa che riguardava il corpo, ed era relativamente più facile, credo, obiettivarla. Leggo, però, che delle domande che giungono al centro che raccoglie queste richieste, una percentuale significativa riguarda persone affette da una malattia della mente. La Svizzera ha autorizzato solo in un secondo tempo l’assistenza al suicidio anche in queste condizioni. 
Sappiamo, purtroppo, quanto spesso il dolore ricorrente di una malattia della mente, la depressione innanzitutto, possa portare alla scelta del suicidio. Perché il dolore mentale, per quanto ci sforziamo di contrastarlo, può non essere certo meno “vero” talvolta, per chi ne ha esperienza, di quello che si può provare attraverso il corpo, né meno forte la disperazione per una malattia che non passa, o che ritorna in modo insistente; e allora, è possibile ipotizzare che anche coloro che scelgono il suicidio per questa ragione possano trovare, se la cercano, assistenza?
Credo che la questione sia, se possibile, più delicata e complessa ancora. Si dovrà infatti stabilire, semmai, attraverso una capacità di utilizzo estremamente raffinata e sapiente della psicopatologia, se la decisione del soggetto viene assunta in un momento in cui è in grado di essere consapevole con la maggiore obiettività possibile del carattere insopportabile del dolore di una condizione, ad esempio depressiva, ma al contempo è, in quel preciso momento, sufficientemente libero da quella condizione da non essere influenzato nella sua decisione dalla visione pessimistica delle cose che, della depressione ad esempio, può essere un sintomo. Il che credo che sarà molto impegnativo. Ma poi, soprattutto, mi chiedo: come potrà essere applicato alle condizioni di sofferenza psichica, la cui prognosi è sempre avvolta dal mistero, il criterio dell’impossibilità di guarire, che rappresenta ad esempio nella normativa elvetica una delle condizioni di accesso alla soluzione scelta da Fabo?
Una questione, mi pare, nella questione insomma.
Né, del resto, la soluzione del suicidio assistito esaurisce i problemi del fine-vita. Resterà aperto quello, e il racconto degli ultimi timori di Fabo che il corpo non gli consentisse neppure quel minimo gesto lo confermano, di come fare in quei casi nei quali l’inibizione ai movimenti del corpo è tale da non consentire nessun movimento. E’ giusto che costoro siano esclusi dalla possibilità di decidere, solo perché più impediti e quindi affetti da una condizione, semmai, ancora più insopportabile? O di come affrontare, e se ne è parlato in altre occasioni sollevando ad esempio l'ipotesi delle disposizioni anticipate, quei casi nei quali è l’inibizione del funzionamento mentale a impedire qualsiasi decisione riguardo a se stessi.
Ma, per ora, limitiamoci a ciò di cui si parla oggi.
Chiudo dunque questi pochi pensieri a caldo, scritti sotto l’emozione di un fatto di cronaca, spiegando il perché del titolo con il quale li ho introdotti. Di fronte alla soglia che rappresenta il suicidio assistito, ho una certezza: che è necessario che sia varcata anche in Italia per quelle condizioni per le quali i progressi della medicina e delle tecnologie sanitarie imporrebbero al soggetto la prosecuzione della vita in una condizione di indisponibilità del proprio corpo e di sofferenza che ciascun essere umano deve essere libero, se la sua presenza mentale gli permette la scelta, di poter accettare o rifiutare. Ma provo un primo turbamento come uomo: perché non so quale decisione prenderei al suo posto. E un secondo turbamento come medico e come psichiatra: perché vedo profilarsi all’orizzonte, una volta che quella soglia sarà inevitabilmente varcata, domande alle quali non sarà facile dare, in scienza e coscienza, caso per caso risposta.     


[i] Cfr. su questa rivista: S. Thanopulos, DJ Fabo, legittimità dell’ultimo sogno (clicca qui per il link).

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Commenti

Consentimi caro Paolo di affiancare queste mie considerazioni leali ed emozionalmente calde. Hanno suscitato molto dibattito.

Sommessamente!
Di fronte alla scelta di DJ Fabo, che ha deciso di porre fine alla sua vita, condividendo la scelta con il suo amore e assistito dalle strutture svizzere dove questo atto è sostenuto e accompagnato, vorrei fare due considerazioni attingendo alle mie convinzioni di persona e alla mia esperienza di psichiatra.
Lasciamo da parte tutta la discussione sulle leggi, sulla politica, sulla legalità e sulla legittimità della scelta. E sui ritardi, l'ottusità e la confusione fra sfera politica e sfera religiosa colpevolmente dominante in Italia.
Passando necessariamente per il rispetto, la compassione sofferta, e parole che nascono da un silenzio doveroso e interrotto, il primo pensiero che mi germina in mente è che la scelta di DJ Fabo è accoglibile nel consesso umano condiviso. E' un atto legittimo e umanamente comprensibile. Una persona, completamente impossibilitato a muoversi e reso totalmente cieco da un disgraziato incidente, ha il diritto sostanziale di sentire il suo corpo come una gabbia, come una prigione. Anche se l'ascolto dell'alito del mondo può ancora essere percepito e con esso si possa ancora sentire un frustolo di vita. Ma Lui non lo sente e quindi è soltanto impressione nostra, utile da esperire, ma non trasferibile al soggetto sofferente.
Si, perché la scelta di por fine alla propria vita è la scelta più dolorosa che possiamo incontrare nel cammino della nostra esistenza. E l'unica cosa che possiamo fare è circondarla di rispetto e d'amore.
Ma è anche una scelta dove non respira libertà. Dove la libertà è stata già dispersa nella pietrificazione delle emozioni e degli affetti. E' pur sempre una scelta disperata, in cui la fiammella della speranza si è esaurita.
Non è eutanasia che è buona morte circondata dagli affetti e oggi è diventata sinonimo dell'interruzione del funzionamento biologico del nostro corpo, sostenuto in vita per via artificiale.
E non è vita indegna di essere vissuta, espressione che cancellerei dal vocabolario della storia.
Tutte le vite sono degne di essere vissute!
Nella mia professione mi sono confrontato con situazioni in cui vivere appariva un peso insopportabile. Eppure era l'aspirazione più intensa per chi sperimentava questa condizione.
E allora quando il nostro corpo diventa prigione e come ha detto Sciascia "morire è l'ultima speranza", noi che siamo il nostro corpo ma non perdiamo il fondamento esistenziale dell'essere con gli altri sentiamo che la nostra vita è necessaria in quanto importante per gli altri, fonte di amore.
Un vecchio psichiatra-psicoterapeuta mi aveva insegnato che l'unico modo per mettersi accanto a chi vuol mettere fine alla sua vita era di far risaltare il valore che il suo essere nel mondo aveva per gli altri in relazione con lui, compreso lo psichiatra che si confrontava, a volte senza speranza. Perché il suicidio non si può impedire.
E' una conclusione libera sempre e dispone di molti mezzi.
E questa convinzione, l'agire secondo questo insegnamento, ha aiutato molte persone a ritrovare la speranza, e anche me.
Angelo Guarnieri

Carissimo Angelo, grazie davvero per queste parole, ricche di umanità e commozione. Credo anch'io di sì, certo, che guardando l'esperienza di quest'uomo da vicino, la sua sofferenza di tanti anni, non è possibile non comprenderne e rispettarne la scelta. E non avvertire, certo, insieme tanta tristezza per come il corpo dell'uomo, nel quale ciascuno ripone tante speranze e dal quale si aspetta come una cosa normale i gesti a cui siamo abituati, sia fragile e sempre esposto al rischio di perderne la capacità. La vita, certo, è sempre in sé degna; a volte, soltanto, forse troppo dolorosa per chi la vive. E questo non può essere che lui, quando ne ha la possibilità, credo a deciderlo. Paolo


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