IN MEMORIA DI LORENZO CALVI

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24 maggio, 2017 - 12:15
E’ sconsigliabile scrivere un ricordo funerario ancora a caldo, ma, se non a caldo, quando scriverlo? Le emozioni rievocate dalla notizia inattesa di una scomparsa significativa trascinano i ricordi di ciò che una persona è stata per noi, indipendentemente da quello che oggettivamente poteva essere. Tutto quello che accade dopo, col passare del tempo,  è solo un modo per sopravvivere in assenza di quella persona, manifestazioni consolatorie se non prese di posizione politiche o religiose.
Lorenzo Calvi è stato un uomo importante per la nostra vita professionale, e non solo, perché per gli psichiatri la distinzione non è mai netta. Parlo al plurale perché quello che è capitato a me, è successo anche ad altri, in modo spontaneo e individuale, prima che ci si imparasse a riconoscere “nello spirito di Calvi”, e ci si costituisse in gruppo, in socii.  Personalmente ho scoperto Calvi in tempi non sospetti di un qualsiasi scopo o vantaggio (usciva in quel periodo il DSM-III, al quale si inchinò senza alcuna resistenza l’intero mondo accademico italiano), con la lettura dei lavori scritti con Cargnello negli anni ’60, e soprattutto della rivoluzionaria, per l’epoca, antologia “Antropologia fenomenologica” (edita da Franco Angeli nel 1981), vero esordio di Calvi come solista. La folgorazione fu tale da muovermi alla timida ricerca dell’autore, scoprendolo totalmente diverso da come ci appariva agli occhi ammirati di noi fenomenologi principianti. Mentre il mio contatto con Cargnello, un uomo di cui a tutt’oggi riconosco un rigore scientifico insuperato (se per la fenomenologia si può usare questa parola), fu brusco e scostante, Calvi mi ha reso immediatamente corrispondente di Comprendre quand’ancora era una lettre entre des amì e successivamente mi accolse nella sua casa di Lecco con grande ospitalità e naturale generosità (devo dire per correttezza che era già successo con Fernando Barison).

 Negli anni ho continuato a leggere Calvi con il maggior distacco della maturità e l’ironia a cui lui stesso teneva molto, come una specie di cifra esistenziale. Ma periodicamente la passione nata dalla lettura delle sue divagazioni nel mondo immaginario (parola che preferisco al pedante “eidetico”), ma sempre a partire da occasionali incontri clinici, accendeva la mia passione di recensore, postfatore, commentatore. In Calvi l’incontro era sempre puntiforme, un’esperienza intuitiva e rivelatrice che poneva a margine tutto il resto, anamnesi, esami clinici, diagnosi, tecnica del colloquio. E’ chiaro che perseguire un metodo di questo tipo richiede una sicurezza ed un coraggio che sfiorano la sventatezza: ma cos’è un vero fenomenologo se non uno sventato?
  Ancora pochi mesi fa, telefonicamente ho capito di avere ancora bisogno di lui, del suo bene placet per chiudere un articolo che per via intricate avevo scritto, così tardivamente nella mia carriera, sul suo argomento preferito, la fenomenologia del corpo o meglio della carne, tema per il quale, credo, Calvi, a seguito di Paci, resterà nella storia della fenomenologia come innovatore. Ora, Calvi-come-carne, questo gravame vulnerabile, sempre a rischio di disorganizzazione se non dissoluzione, di perdita di ordine e di forma, con cui dobbiamo fare i conti, con le sue problematicità di gestione, ma anche i suoi lieti fasti, non c’è più, e non mi stupisce che lui abbia voluto essere cremato e che le sue ceneri siano state per suo volere disperse in un’area montana dove lui trascorse, in tempo di guerra, tempi difficili e ,evidentemente, incancellabili. Forse Calvi ha voluto così sottrarsi a quello che lui chiamava, il “consumo del corpo”, quando ha finalmente potuto. Ma in questo gesto vedo anche la coerenza di chi, formatosi nelle scuole cattoliche, era divenuto nel corso della vita laico e ateo, pur rimanendo sostanzialmente un mistico.
Lorenzo Calvi era una figura molto singolare, tanto amabile, ragionevole, luminosa e semplice quando lo si incontrava, quando profondo, spiazzante, deragliante fino ad osare il rischio della stramberia, quando scriveva i suoi pezzi, che pure erano stilisticamente ineccepibili, scritti in un italiano limpido e musicale, direi, “mozartiano”, formalmente sempre molto contenuti e quasi sempre perfettamente compiuti. Lo stile di Calvi, lo sappiamo tutti, era unico nel panorama mondiale, completamente al di fuori di ogni schema (l’unico schema che riconosceva e riproponeva ossessivamente era quello delle riduzioni husserliane). Ciò a cui tutti gli altri professionisti della sanità (inclusi gli infermieri, a cui ha dedicato diversi contributi) si fermavano (la clinica medica, neurologica, psichiatrica, la psicopatologia) era dato per scontato, per saputo, lui doveva esplorare altri territori e territori altri, e quelli da lui più amati erano senza dubbio gli incontri interpersonali nella sfera dell’immaginario. Personaggio al di fuori dei “mondi”, intesi in senso sociale e antropologico (e, ovviamente, agli antipodi del mondo per il quale forse era destinato, quello accademico), aveva per molti anni trovato in Arnaldo Ballerini l’amico che era stato in grado di trascinarlo nella difficile esperienza didattica di Figline Valdarno. Non fu così per la fondazione della scuola di psicoterapia: ricordo bene il momento in cui lui, proprio lui, il primo preconizzatore o, meglio, il primo attore della psicoterapia fenomenologica, si tirò indietro al momento di fondare una società ed una scuola. In questo gesto, che allora mi parve una ritrosia legata alla consapevolezza di un’età già avanzata, trovo oggi forse un ulteriore insegnamento: la psicoterapia fenomenologica non si può insegnare in un’istituzione, a meno di perdersi come fenomenologi e divenire altro. I maestri vanno ricercati, non si possono prendere quelli che un’istituzione ci propone. La fenomenologia va praticata, va sofferta e talora subita, se ne può discorrere, colloquiare, forse narrare, se si è scrittori molto bravi, ma, come tutte le esperienze intense e totalitarie (l’amore, la mistica etc.), non si può insegnare: la si può apprendere, questo sì, ed infatti ciò che fa il fenomenologo è esattamente apprendere, lo fa per tutta la sua vita. Non ci si può decretare fenomenologi per corso di studi. Sì, ora mi è chiaro perché Lorenzo Calvi si tirò indietro. E’ vero, forse poteva anche permettersi di fare quello che voleva, anche tenersi a parte, in un ruolo di osservatore relativamente partecipe, essendo comunque di una generazione nella quale i medici e i terapeuti godevano ancora di un qualche privilegio ed i titoli erano acquisiti una volta per tutte, non c’era bisogno, come diceva Eduardo, di passare un esame tutti i giorni. Tuttavia di questi privilegi lui faceva mostra di spogliarsene francescanamente, ogni volta che incontrava un malato, così come ogni volta che incontrava un giovane nel quale intravedeva la possibilità di comunicare. Si coglieva comunque in lui l’appartenenza ad un mondo che non esiste più, e si capiva che forse ciò che lo teneva a contatto con la vita erano le gioie della famiglia, l’amore per Mariella, così diversa da lui, e per i figli, per la sua terra, oltre, oso immaginare, ancora di più in questo momento, per qualche comunicazione che riusciva ad avere, spesso aldilà delle parole, con i pochi che in qualche modo hanno saputo avvicinarglisi.
Mi accorgo nello scrivere che non riesco più di tanto a chiamare quello che era divenuto quasi “un vecchio amico”, per il suo nome., Lorenzo. La stessa cosa mi accade ancora pensando a Arnaldo Ballerini, benchè lui lo chiamassi davvero per nome e gli dessi del Tu, cosa che mai mi successe con Calvi. Credo che questo indichi il riconoscimento di una distanza professionale che, al di fuori di queste filiazioni spontanee, non esiste quasi più nel nostro mondo che, omologando tutto, ha omologato anche la distanza con i maestri: anzi, ha negato la differenza con i maestri, intendo quei pochi che sono rimasti. Le parole sono importanti, questo è un altro dei filoni indagati da Lorenzo Calvi, e credo che acconsentirebbe, magari solo con una sfumatura di espressione, sul fatto che anche il Lei ha un suo senso preciso che dovremmo recuperare.

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