Il Poppante Saggio
Blog ferencziano
di Gianni Guasto

CRISTO MORTO

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30 agosto, 2017 - 07:04
di Gianni Guasto

Quando vide Sebastiano disteso sul lettino dell’obitorio, gli tornò alla mente il Cristo Morto del Mantegna,  e quella volta che aveva chiesto a suo padre: “Papà, perché è così corto?”. E suo padre gli aveva spiegato come funziona la prospettiva, ma lui quello lo sapeva già, perché il professore l’aveva spiegata a scuola. No, aveva pensato, qui c’è qualcosa di più della prospettiva: questo Cristo è proprio incredibilmente corto. Ma questo, a suo padre, non si era sentito di dirlo.


 

E poi, subito dopo quel pensiero improvviso, fu inondato da un insieme di emozioni, e messaggi, e storie, e intuizioni, e dolore, e angoscia e tutto quello che poteva star dentro due vite che forse non erano cominciate e che ora stavano improvvisamente finendo. E tutto l’insieme era compatto, incredibilmente pieno e corto, come il corpo del Cristo del Mantegna. Gli venne incontro il padre, e gli disse quanto Sebastiano avesse parlato di lui, a tavola, e del suo libro che aveva letto avidamente, pochi giorni prima di morire. E quello, lì per lì gli era sembrato un dettaglio irrilevante, perché tutto ciò che ora lo investiva era compatto, contratto, agglutinato in una forma unica e confusa; ma lui ne distingueva nettamente i componenti. L’uomo, il padre di Sebastiano, esprimeva soprattutto vergogna. Vergogna per quel figlio tanto più adulto di lui, anche se non aveva ancora trent’anni, che aveva deciso di porre fine alla propria vita per qualche ragione incomprensibile, ma che lui sapeva appartenergli, e scrutarlo nel profondo, in un abisso che non aveva mai, prima di quel momento, sospettato di possedere. Perché per la verità, non aveva mai capito quando fosse cominciata quella vita che ora si trovava tutta addosso, all’improvviso. Soltanto adesso comprendeva di essere già nato da tanto tempo, mentre fino alla sera prima, era rimasto sempre sul punto di partire per iniziare la propria giovinezza lontano, in un altro mondo, con un’altra donna, per provare ancora la sensazione sulla pelle della brezza e della luce del mattino. E Sebastiano -come pochi giorni dopo si sarebbe appreso da un’amica comune- aveva speso tutti i propri giorni rabbiosamente tentando di tenere assieme quei due, per dire che la vita era là, e che non ce ne sarebbe stata altra. E poi, visto vano ogni tentativo, o forse per un’improvvisa furia omicida, aveva deciso di impartire a quei due figli la lezione estrema: la vita era una, per sempre. E nessuno può ricominciarla da capo.

 

Intanto, la madre vagava sullo sfondo, come nel fondo della prospettiva della Flagellazione di Cristo, di Piero della Francesca. Aveva qualcosa di etereo, inconsistente, la madre. Aveva i capelli biondi di ragazza precocemente sfiorita, ma ancora legati in un’immagine adolescenziale, abbarbicata a quell’uomo che li voleva lasciare. Ora lei camminava nervosamente, avanti e indietro, come in una smania, e a lui sembrò che non toccasse neppure terra.

Fintanto che lui, tracimando di tutto ciò su cui aveva involontariamente impattato, pronunciò alcune parole di scuse e di commiato. Allora il padre, a lui aggrappandosi aveva detto: no, no, veniamo via anche noi. Tanto ora lo chiudono, vero Marta? E lei, improvvisamente catapultata sulla terra, aveva lanciato un grido soffocato di disperazione: no, restiamo, restiamo. Restiamo ancora un po’. Ancora un po’ con lui. Poi, non lo vedremo più. 

Erano i suoi ultimi istanti di vita. Dall’indomani sarebbe per lei iniziato, lui ne era certo, un interminabile non-senso privo di futuro.

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