Lascia ch’io pianga, ovvero: l’irriducibile sfuggevolezza del masochismo

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27 maggio, 2018 - 08:18
Autore: A cura di Andrea Nicolini
Editore: Orthotes
Anno: 2017
Pagine: 168
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C’è sempre stata (ed evidentemente questo stato di cose vige tuttora) un’aura di fraintendimento, se non addirittura di incomprensibilità attorno al masochismo. Nella Premessa a Il freddo e il crudele, Deleuze denuncia il destino doppiamente ingiusto del barone von Sacher Masoch: “troppe volte ci è stato detto che uno stesso soggetto era sadico e masochista; abbiamo finito per crederci”[i]. Doppia ingiustizia perché, in primo luogo, si tratterebbe di un “ingiusto oblio”[ii]. Il masochismo, una volta capovolto come indissolubile unità complementare del sadismo, è precipitato in un’ignoranza stupefacente – destino opposto a quello di Sade, la cui identità nell’immaginario collettivo ha spesso e volentieri assorbito impropriamente anche i “meriti” del masochismo. Secondariamente, in una sorta di corollario al primo punto, si tratterebbe anche di una “ingiusta complementarietà”. È infatti affrettato, nonché incorretto, limitarsi a dire che il masochismo sia nientemeno che il rovescio simmetrico del sadismo “Con troppa fretta si è portati a ritenere che sia sufficiente rovesciare i segni, capovolgere le pulsioni e concepire la grande unità dei contrari per ottenere Masoch partendo da Sade”[iii].
L’invito che il filosofo pone ai suoi lettori è disfarsi degli oramai intorpiditi vincoli clinici e tornare all’origine del masochismo, alla sua essenza letteraria, perché solo a partire da questa dissociazione sarà possibile riprendere i rapporti con la clinica.
Quando Kraft-Ebing introduce per la prima volta sadismo e masochismo nella sua Psychopathia sexualis (1886), la torsione critica che lo psichiatra impone a questo secondo oscuro termine è subito correttiva: merito di Sacher-Masoch sarebbe l’aver rinnovato un’entità clinica troppo schiacciata sull’infelice equazione “dolore uguale piacere”, esaltandone invece le componenti strutturali di schiavitù e umiliazione. 
Insomma, sembrerebbe che il termine “masochismo” contenga contemporaneamente se stesso e la sua negazione: esso è parimenti ciò che intrattiene un inestricabile rapporto con la sofferenza e, allo stesso tempo, ciò che non si riduce al trarre piacere libidico dalla sofferenza. Lo stesso Deleuze ne evidenzia la natura di Ubersinnlich, termine goethiano che designa una dimensione mistico-idealistica che trascende la mondanità della carne e dei piaceri indotti dai triviali eccessi di sovra-stimolazione, abrasione, usura carnale e punta dritto al freudiano al di là del principio di piacere. Come rimarca Deleuze, non è del sovrasensibile che qui si parla, ma della struttura stessa che trascende il dominio del sentire, la sensualità Altra, un punto fissato fuori dal corruttibile dominio dei sensi: il Sovrasensuale. È questa natura insostenibile che fa del masochismo non una mera pratica, una prassi che un esistenzialista direbbe essere “ontica”, ma una tensione potentissima, nostalgica, che mischia, attraverso un gioco complesso di scissioni, erotizzazioni e atti distruttivi il puro con l’impuro, la carne con l’al di là dei sensi - nonché del senso -, il terrore infinito con la tenerezza sempre già perduta (tensione sotterranea, nostalgica e disperata che Franco De Masi rintraccia, finemente, nel meraviglioso nichilismo di Viaggio al termine della notte di Céline[iv]).
Insomma, se il masochismo è condannato ad un’irriducibile sfuggevolezza, è a causa della sua ineludibile commistione con l’origine e con la morte, una prossimità assoluta che lo arpiona – lacanianamente – al reale (“il masochismo è il massimo godimento dato dal reale”[v]) e, di conseguenza, all’impossibile.
Adottando una visione utilitaristica, si è soliti ritenere che sia lesivo e deleterio per l’uomo tutto ciò che neghi l’utile, tutto che incomba contro la sua conservazione. Allora, secondo quest’ottica, il masochismo convenzionalmente inteso sarebbe il trionfo disperato con cui la vita tenta di negare se stessa, l’autosabotaggio che immobilizza il soffio vitale nella carne e lo soffoca nella sua stretta[vi].
Sulla stessa falsariga, il libro curato da Andrea Nicolini sembra realizzare il progetto di unificare, attraverso una riflessione che spicca per rigore esplicativo, l’annosa questione dell’irriducibile sfuggevolezza del masochismo. Lascia ch’io pianga, (Orthotes,2017, 164pp.) raccoglie sette preziosi saggi il cui filo rosso è il tentativo di “comprendere in che termini il masochismo si faccia immagine per quello specchio dove filosofia e psicanalisi si guardano talvolta senza riconoscersi”[vii]. Ogni contributo aggancia il tema del masochismo da una particolare prospettiva, avvalorando la propria posizione attraverso l’analisi di uno specifico film e sviluppando una discussione che si pone in-between, radente il bordo interpretativo che congiunge-separando il cinema, la filosofia e la psicoanalisi. Per ragioni di spazio non mi sarà possibile sviluppare un commento di ciascuno di essi (i saggi sono, in ordine, di Gianluca Solla, Leo Bersani e Ulysse Dutoit, Rosamaria Salvatore, Lee Edelman, Federico Leoni, Riccardo Panattoni e Andrea Nicolini nel triplice ruolo di curatore, autore e traduttore dei contributi in lingua inglese), motivo per cui mi concentrerò su quattro di loro in particolare. Indugerò maggiormente sull’ultimo saggio, perché ritengo porti in luce il telos implicito che allaccia tra loro gli altri testi: è come se ognuno di questi saggi, raggiunta la sua vena parossistica, si ritrovasse in modo apparentemente inspiegabile a fare i conti con la perturbante tensione dell’amore.
Sinteticamente, il problema del masochismo è che, per quanto se ne parli e si ritenga di sapere con cosa si abbia a che fare, la sua essenza sfugge.
Di qui, la sua tendenza a scivolare tra un piano d’immanenza e l’altro, il suo fascino per la contraddizione, la sua irriducibilità ad ogni referente che pretenda di metterlo in gabbia. I tentacoli del linguaggio stritolano il senso, lo trascinano a picco appeso a una pietra, lo consegnano alla morte (il segno uccide la Cosa, diceva Hegel), come fare allora? Come agglutinare filosofia, psicoanalisi e cinema per dare un’istantanea, uno scorcio effimero della consistenza con cui il masochismo incide la carne?
Di qui il bisogno del cinema, che non paralizza il significato con la patina sulfurea della definizione, ma lascia ogni spazio aperto alla pluralità di un’”inesauribile valore significante”[viii]. Solo all’immagine è dato raccogliere quell’inesprimibile che nel masochismo ci sfugge o, come scrive Gianluca Solla nel suo contributo, “la realtà nel suo sospetto di inconsistenza”[ix].
E di qui, inevitabilmente, il bisogno della filosofia, per come Luisa Muraro lo pone succintamente: occuparsi del problema di pensare l’impensabile, abitare l’estremo e indifeso limite in cui il pensiero, anziché compiersi in una onnipotente presa cartesiana, viene meno a sé, si sfalda, brucia.
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È proprio Gianluca Solla che apre il testo, commentando La pianista di Haneke (2001). La protagonista, Erika, raggruma dentro di sé una consistenza mortifera, che risulta impenetrabile anche alla più sciagurata delle effrazioni, lo stupro. Ma questa resistenza estrema, come commenta in modo convincente l’autore, non è un gettarsi nelle fauci del reale, né un tentativo di portare a compimento lo scardinamento dal controllo burocratico del corpo, ma esattamente il contrario. Il masochismo esibizionista di Erika, quello che Reik descrive come “un’irresistibile tendenza alla dimostrazione”[x], è un teatro senza pubblico e in ciò risulta diametralmente opposto al masochismo dimostrativo di cui ci parla Pasolini nel devastante saggio Il cinema impopolare[xi]. In entrambi, il masochismo è un affronto alla legge della conservazione, un’offesa scandalosa che infama il precetto per cui “vivere è un dovere”. Ma mentre in Pasolini l’esibizione masochistica è un conflitto oppositorio che pone il tragico e l’ignoto al posto del quotidiano e del noto, per Erika questa esibizione perde ogni vitalismo. La turgida solidificazione del suo corpo assume un’inerzia cadaverica, prosciugata di ogni agitazione, di ogni vibrazione eraclitea. “Di cosa parla in effetti la formula di Erika? Della fantasticata coincidenza con la Cosa. Il cadavere non è del resto che il corpo-cosa: è il corpo che giunge a coincidere con la Cosa.”[xii] Masochismo è allora anche bisogno di chiudere la mancanza, di soffocare la divisione del soggetto – quella che Lacan proclama essere costitutiva, inaugurale. “Il godimento è orribile perché ricorda la sempre possibile separazione dal proprio corpo.”[xiii] Chiudendosi nella cremazione del cadavere, Erika compie l’esito ultimo dell’identità statica: la “coincidenza con sé che la garantirebbe dalla mancanza, come dalla perdita”[xiv]
Insomma, “la prossimità assoluta tra il soggetto e la cosa” permette ad Erika di mantenere un desiderio intatto, puro, assoluto, “libero da ogni eccesso e da ogni moltitudine”[xv]. Con questa indistinzione utopistica tra il desiderio e la cosa, la mancanza viene intasata da un godimento mortifero, e il soggetto ne è letteralmente imbalsamato.  
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In Il fantasma, il corpo: una vita in due Riccardo Panattoni commenta L’isola (2000) di Kim Ki-duk mettendo insieme la genesi del feticcio in Freud e la funzione trascendentale dell’attesa che, nel masochista, mirano a “culminare in una sospensione allo stato puro”[xvi].
Come si viene ad instaurare questa tregua senza dilazioni? Quando nel Feticismo Freud descrive la genesi del feticcio, quell’oggetto immaginario che sostituisce “una mancanza che in realtà non manca di niente”[xvii], ne pone in evidenza il carattere di vera e propria istantanea: il feticcio è l’ultimo oggetto che il bambino vede prima di scontrarsi con l’angosciosa realtà che la madre è castrata. L’oggetto feticista insomma è un oggetto da catturare con lo sguardo e che pertanto sottostà ad una statica strutturale ben precisa. L’intersezione del feticcio permette al bambino non tanto di negare la realtà, quanto piuttosto di “condurre un atto di disconoscimento incentrato su di una dilatazione del tempo”. Il reale pertanto, come fa notare Panattoni, non è sottoposto ad una brutale negazione, ma disconosciuto per mezzo di una sospensione che ben si sintetizza in quella che Lacan ha etichettato la statica del fantasma. Reale e ideale, anziché contrapporsi o precipitare l’uno nell’altro, “danno forma ad una temporalità (…) che tende, attraverso l’apparente meccanismo della ripetizione, alla propria staticità, a sospendersi idealmente sull’ultimità dell’oggetto rimasto lì, pronto a venire.”[xviii] Il masochista che ci viene consegnato tra le righe di questo brillante saggio non è allora quello dell’insostenibile indigeribilità del tempo, un peccatore maniacale che patisce l’attesa, ma l’artefice di questa stessa sospensione: “in quanto non si possono riconoscere dei veri e propri fantasmi masochisti, quanto piuttosto una vera e propria arte masochista del fantasma”[xix].
Piuttosto che competere l’uno contro l’altro in un’eterna contraddizione, reale e ideale si amalgamano nel paradosso deleuziano dei doppi sensi: il feticcio è al tempo stesso presenza e assenza, reale e irreale, ma soprattutto l’attesa delibata e la sospensione reiterata che infarciscono il fantasma nel corso della sua oceanica dilatazione.  
È esattamente questo dramma della sospensione a costituire la posta in gioco del masochista, rispetto a quella del sadico. Tanto il masochista quanto il sadico, dice Panattoni seguendo Deleuze, sono assoggettati alla ripetizione, ma sarebbe fuorviante ritenere queste due politiche equivalenti.
Sebbene entrambe le configurazioni rincorrano l’unicità dell’evento, il sadico si consegna ad un’irrefrenabile dissipazione, devolve tutto il proprio spirito a riprodurre quella sola scena irripetibile e, in virtù del suo fallimento, rimane agganciato in un meccanismo frattale di accumulazione e ripetizione – non è un caso, infatti, che le vittime in Sade conservino, al di là delle percosse e dei trattamenti che subiscono, una costante e dignitosa integrità, una bellezza non deturpabile. Il sadico tenta insomma di riprodurre compulsivamente una scena che tenti di superare ogni volta se stessa, di compiere quel balzo qualitativamente irraggiungibile che trasformi ogni tentativo di superamento in una reiterazione seriale infinita. Alla maglia di fitte istantaneità del sadico si contrappone la vigilia della stasi masochistica, l’attesa dell’attimo che si dilata a dismisura, “un perfetto atto sospensivo”[xx]. È in forza di ciò che il masochista ha bisogno della stipula di un contratto: solo slegando il desiderio dal godimento sarà possibile mantenere questa attesa come continuo processo, attuazione senza risoluzione, godimento mai compiuto ma sempre rilanciato, immobilizzato nel suo eterno divenire se stesso.
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Fino a che punto un’offerta fatta senza distinzioni e al di là di ogni riserva può dirsi, anziché un dono di disinteressato amore, un gesto di puro masochismo? O meglio, è possibile segnare un argine, un punto di attracco che impedisca a queste due tendenze, apparentemente incommensurabili, di collassare l’una nell’altra? In Io sono qui, Federico Leoni richiama da un passato non troppo lontano un film spesso sottovalutato, La mia droga si chiama Julie (1969) di Truffaut[xxi].
È stata la venuta di Cristo a indurre nell’uomo il transito dalla passio cristologica alla“dolce e dolorosa passione che dal barocco arriverà a trovare il suo culmine nel romanticismo tedesco” [xxii], premette Leoni rileggendo Auerbach. Il territorio umano della passione viene investito, nel cosmo cristiano, dall’azione divina del Padre. In questo senso, l’agire del Figlio trova la sua attività in una partecipazione nell’agire paterno, in uno scuotimento metafisico che non gli appartiene, che non può governare ma di cui può solamente essere investito. La secolarizzazione della passione cristiana si riversa in una erotizzazione integrale, un brulichio viscerale che infiamma il petto e immobilizza il corpo (i Greci, come nota Leoni, relegavano le cose dell’amore “sotto le insegne dell’energheia[xxiii], mentre con la passionalità laicizzata questo potenziale viene introvertito nel corpo sotto forma di pathos). Ancora una volta, torna il tema della sospensione, dell’immobilità, ma in un registro differente. L’atto qui non deve essere interrotto, ma mai avviato, sempre trattenuto, introvertito. È solo sfuggendo a questa dissipazione che il desiderio può rinnovarsi quale “pura potenza disconnessa dall’azione (…), documento principe della veridicità dell’amore cortese”[xxiv][xxv].
L’amato, nella laicizzazione della passione, prende il posto di una sorta di Dio aristotelico, causa impassibile e immobile di desiderio. Ma l’effetto che questa magnetizzazione produce sull’amante non ha nulla di intersoggettivo, non vi è presa reciproca, attrazione deliberata, “la cosa amata sarà perfettamente inerte eppure dotata di una spettrale attività, assolutamente impassibile eppure capace di mobilitare in ogni modo il desiderio amoroso.”[xxvi] Insomma, l’amante che ritiene di agire la propria passione d’amore non sarebbe che agito dalla perfezione immobile dell’amata. L’impenetrabile staticità dell’amata risente di una paradossale sottrazione, in quanto è parimenti immobile e nonostante tutto inafferrabile, inafferrabile seppur immobile. Il suo magnetismo, la legge infuocata che arde attorno ad essa sarà accessibile solo a partire dalle peripezie dell’amato, dal suo dissiparsi in un moto che disintegra ogni rimando al libero arbitrio. Più vi è avvicinamento, più l’insignificanza del segno emerge attraverso una puntualità impossibile: “nell’amata c’è qualcosa che, tradotta nella lingua orizzontale e sistematica dell’amante, non può che risultare, contemporaneamente, immobile e imprevedibile, sempre identico e sempre inafferrabile, perfettamente monolitico e assolutamente caleidoscopico.”[xxvii]
Il lacaniano “amare è dare ciò che non si ha” si ribalta in una materializzazione forsennata: tutto, in Louis, nell’amante magnetizzato, si fa materia, merce. L’oggetto amato, attraverso le sue radiazioni, mortifica, prosciuga e spezzetta l’amante, privandolo via via delle sue componenti, lo taglia a pezzi fino a quando, terminata la materia, lo costringe a generarne altra. Fino a quando l’oggetto amato impone all’amante di farsi oggetto, di spossessarsi della propria possidenza: “il denaro, i terreni, la fabbrica di Louis, infine il suo corpo, il suo sangue, le sue viscere, tutto ciò di cui si sostiene la sua vita si traduce via via in materia disponibile”[xxviii]. Ma se nessuna merce può arrestare questo dispendio, allora vuole dire che la sostanza, benché necessaria, non sia sufficiente a sorreggere l’intero processo di dissipazione. Se da un lato la sostanza deve essere senza fondo, dall’altro c’è bisogno che ciò di cui questo dispendio consiste non sia la sostanza stessa, ma il suo esaurirsi. Ancora una volta, il cuore del masochismo non concerne la ripetizione fuor di senno, ma la sua paralisi: “l’esigenza della durata.”[xxix] Quello che l’amato ispira all’amante è una sottrazione del limite, un differimento di quel punto che, se raggiunto, rischierebbe di arrestare il processo del desiderio che continuamente rinnova se stesso. Insomma, laddove questo accrescimento potrebbe trovare un’interruzione – morte o piacere -, l’amante deve trovare un’occasione di rinnovamento. Non un piacere derivante dal patire, ma un patire che, sovrapponendosi al punto-limite, rinnovi se stessa e la sua coazione desiderante.
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Questo libro deve il proprio titolo ad un’aria per soprano composta da Georg Friedrich Handel, Lascia ch’io pianga. La scelta ha alle proprie spalle una motivazione stilistica: il pezzo viene utilizzato dal regista Lars von Trier in due suoi film per denotare due scene (quasi) sovrapponibili. Sia in Antichrist (2009) che in Nymp()maniac (2013), l’aria accompagna la drammatica scena di un infante che cinge il davanzale di una finestra. Nel primo film, l’epilogo della scena è tragico, il bambino precipita e questo prologo fa da spina dorsale alla storia che la pellicola racconta. Nel secondo caso, la tragedia viene sventata sul filo dell’istante. Il saggio di Andrea Nicolini pone una questione cruciale, ma non per questo assodata: se, riprendendo Pasolini, vogliamo ritenere il masochismo come un’infrazione della Legge di conservazione o se, con Freud, vogliamo fare di esso la violazione della Legge di castrazione, è importante rimarcare – come fa Alain Juranville[xxx] – che anche il perverso sottostà ad una sua Legge, la legge dell’al di là del principio di piacere, del godimento mortale ed extra-simbolico.
Joe, la protagonista di Nymph()maniac, compendia perfettamente la doppia faccia del fantasma: da un lato, il fantasma funge da sito di aggancio tra godimento e reale, è ovvero il luogo di giunzione che permette al soggetto di articolare il proprio godimento nel reale; dall’altro, esso è anche la barriera che lo preserva dall’impossibilità noumenica del godimento. “Ciò che Joe rappresenta non è infatti altro che l’oggetto di una pulsione che spinge a ritornare per vedere oltre la visione, a ritornare per afferrare ciò che da sempre è custodito nella schisi col reale.”[xxxi]
È la trovata lacaniana dell’oggetto a, nello specifico, a condensare la natura di questa divisione e, secondo tale constatazione, a declinare la struttura del desiderio perverso. Infatti, quando Freud dice che la nevrosi è la negativa della perversione, è proprio questo che intende: sebbene il perverso realizzi a cielo aperto ciò che il nevrotico può solo fantasticare, entrambi sono schiacciati dall’esperienza della mancanza. Mentre il nevrotico si relaziona a quest’ultima “rimanendo aderente alla propria divisione”[xxxii], patendo lo schiacciamento inflittogli dalle proprie inibizioni, il perverso si impegna attivamente a superarla, tanto da farne non solo una Legge, ma la propria Causa. Al fine di liberarsi dalle intaccature che lo rendono umano, dalla vulnerabilità costitutiva della mancanza ad essere, il perverso assume le spoglie dell’oggetto a per farsi padrone assoluto del godimento. Se nel corpo tagliato dal linguaggio (dalla Legge della castrazione) si produce una separazione asintotica tra esso e il godimento, la monade perversa tenta di raggiungere un godimento senza castrazione, di portare il soggetto nella condizione chiusa ed estrema dell’oggetto. Insomma, il rifiuto della divisione e la sua conseguente riduzione alla passività compatta dell’oggetto-causa di desiderio farebbero del perverso lo strumento di godimento dell’Altro. Ma, in pari tempo, questo tentativo di riempire necessariamente le fessure dell’Altro lo rendono impermeabile alla sua presa: nel desiderio perverso la dialettica kojeviana del riconoscimento viene soppressa e lo scarto tra soggetto e pulsione si assottiglia asintoticamente. Eppure, questa campagna di emancipazione simbolica “resta tuttavia anche per il perverso [come per il nevrotico] strutturalmente impossibile”[xxxiii]. Che nella perversione il soggetto divenga cinico strumento del godimento altrui vuole dire abbattere un ennesimo cliché del masochismo, ovvero l’equivalenza tra il masochista e lo schiavo, l’assoggettamento passivo di quest’ultimo ai più indicibili desideri del padrone. Deleuze lo chiama “grande pedagogo”, Lacan lo ritiene l’agente che produce la beanza desiderante nell’Altro, l’oggetto di desiderio: ““che egli si faccia cane sotto il tavolo o merce, item di un contratto, per la sua vendita tra gli altri oggetti da mettere sul mercato”[xxxiv]
Ma nondimeno, se l’Altro è gettato dal perverso nell’angoscia e nella divisione ed ogni dialettica di riconoscimento è abolita, allora questo Altro non fungerà più da barriera contro il reale impossibile, ma da suo “viatico”. Camuffandosi da oggetto, il masochista sfrutta l’Altro, lo inganna “in modo tale che questi, preso com’è dal tentativo di salvarlo dall’oggetto a, lo ‘uccida’ con esso.”[xxxv]
Come però fa puntualmente notare Nicolini, l’inganno che questi tenta di perpetuare è prima di tutto “un autoinganno teso a nascondere quel segreto che la padrona si trova inavvertitamente a custodire dallo sguardo dell’Altro”.
Anche Albrecht Koschkorke[xxxvi] adotta le due principali tesi del sadomasochismo lacaniano: ribaltamento della condizione di dominazione e autoinganno.
Come nella dialettica servo-padrone di Hegel è il servo a rivelarsi il vero dominatore della scena (a discapito del padrone, il cui statuto esistenziale si risolve in un vicolo cieco), così in Sacher-Masoch è il masochista a detenere la verità del sadico. Eppure, se volessimo protrarre la sovrapposizione fra queste due figure, noteremmo che la loro coincidenza non sarebbe del tutto completa. Se infatti la prima inscena il progressivo movimento di autodispiegamento dello Spirito, condensandosi in una riconciliazione ultimativa, tutto ciò non trova posto in Sacher-Masoch, in cui la mediazione tra le due figure (sadico e masochista) viene interrotta e si risolve in una stagnazione senza sbocchi. Il corollario a questo risultato è che l’autocoscienza masochistica non coltiva alcun interesse per un’ipotetica riconciliazione. Nessuna sintesi consegue all’incontro con l’Altro. Anzi, l’Altro si pone come “quella struttura che il masochista stesso inganna per perseguire il proprio godimento.”[xxxvii]
Oltretutto, come fa notare Koschorke, “il masochista ripudia qualsiasi relazione di reciproco riconoscimento tra padrone e servo”[xxxviii], ma non solamente nel senso, poc’anzi esposto, che non c’è interesse nella diade sadomasochista a chiudersi in un’unità. Questo ripudio è più radicale, tanto da assumere la forma di una vera e propria denegazione (secondo la celebre formula “so benissimo che x, ma nonostante tutto y”).  
È come se il masochista dicesse: so benissimo che il potere che il mio sadico padrone esercita su di me è nientemeno che opera di una mia attribuzione, ma nonostante tutto continuerò a comportarmi come se così non fosse (perché solo a questo prezzo il gioco può reggere). In poche parole, il masochista “non riesce a rendersi conto che la signoria del padrone è frutto di una sua attribuzione.”[xxxix]
È proprio quando tale diniego inizia a scricchiolare che il mondo del masochista rischia di andare in pezzi: nell’attimo in cui i ritmi sessuali di Joe riemergono nella loro insoddisfazione pulsionale, la ragazza si trova costretta “ad aumentare l’intensità e la pericolosità dei rapporti sessuali incontrando quelli che definisce ‘dangerous men’”[xl]. Quando la consistenza dell’oggetto a inizia a spaccarsi e Joe rischia di uscire allo scoperto quale vero regista della scena, soggetto di desiderio (il cui desiderio è non mancare di nulla), l’impossibilità di eliminare l’Altro torna a imporre delle barriere al reale, a porre delle soglie insostenibili che richiedono nuovamente la sottrazione del limite. È proprio a questo livello che risiede la fondamentale differenza tra masochismo e algofilia: “se il masochismo fosse infatti semplicemente un ‘piacere nel dolore’ verrebbe meno il suo stesso enigma: il masochista sarebbe un essere umano che come tutti gli altri cerca il piacere ma lo fruisce solo attraverso un’intensità maggiore. La questione del masochismo è invece interessante proprio poiché pone domande radicali circa la pulsione che, nel godimento, spinge sempre al di là del piacere.” [xli] Per raggiungere il punto di massima profondità del saggio dobbiamo collegare questo insight alla tesi di Deleuze secondo cui tra il fantasma sadico e quello masochista vige una incommensurabilità strutturale. Infatti, “è un errore pensare che il masochista cerchi un sadico come viceversa è un errore pensare che il sadico cerchi un masochista.”[xlii] Questa incongruenza, segnalando che i due fantasmi sono distinti (essi godrebbero piuttosto dell’immagine dello stesso), se messa in relazione al precedente punto, ci consegna la verità del film. Mettendo insieme Deleuze (l’incommensurabilità dei fantasmi) con Lacan (il masochista è il vero artefice della scena sadomasochistica) emerge come il fantasma masochista di Joe non solo non si pieghi a quello sadico di K. (crudele personaggio che impersona il passaggio al limite), ma dimostri come sia la vittima, in ultima istanza, ad usare il carnefice per portare a compimento la propria volontà. “Nell’illusione di obbedire a K., Joe ha obbedito alle regole del proprio fantasma che ha usato l’Altro per eliminare l’Altro”[xliii]. Ma scivolando nella malafede, non cogliendo come il desiderio iperbolicamente sadico da cui si sente percossa non sia altro che un sottoprodotto del suo stesso masochismo, Joe, la ninfomane, inumana Joe, ritorna preda della propria divisione, si riumanizza nell’istante stesso in cui la compattezza monadica si incrina e la ricatapulta verso l’Altro e, da qui, verso l’esigenza dell’amore. Ma questo amore non è luogo di unione e armonia, soglia di comunione oggettuale. Piuttosto è precisamente la sola supplenza possibile all’inesistenza di rapporto con l’alterità, all’impossibilità che il rapporto sessuale permetta al soggetto di raggiungere l’Altro e coglierne l’essenza. Amore, dice Lacan, è amare l’eteros, ma anche l’ombra: “Nymph()maniac allora, non è altro che la metafora di un tramonto, ossia di una discesa silenziosa che, lentamente, ci conduce fino all’ombra di noi stessi, per abbandonarci a quel dubbio che ci sfiora ogni volta che siamo sfiorati dall’amore (…) ‘e se non provassimo mai, nemmeno per un istante della nostra vita la sensazione di essere con qualcuno?’, di essere cioè con qualcuno come qualcosa di più di un inganno del suo sguardo?”[xliv]
 
 

 



[i] G. Deleuze (2007), p. 15
[ii] Ibid. p.14
[iii] Ibid.
[iv] Cfr. F. De Masi (2007)
[v] A. Nicolini (2017), p.7
[vi]  Ma, heidegerrianamente, la vuota presenza al fondo di ogni cosa è anche

il tempo, entro cui la vita si consuma e si immobilizza, perchéincapace di *“sostenere a lungo l’eccesso che la genera e la rilancia”*(Benvenuto, S., *La 'gioia eccessiva' di Elvio Fachinelli*, pubblicato in *Elvio Fachinelli, intorno al '68. Un'antologia di testi*,a cura di Conci M., Marchioro F., Massari (1998), pp.249-278). Sarebbe stimolante allora rileggere il masochismo secondo la dicotomia proposta da Fachinelli:la vita come movimento eracliteo da una parte (quella della temporalizzazione cinetica che finisce per sopprimere se stessa) e l’angustia della pietrificazione dall’altra.) Sempre di Sergio Benvenuto, segnalo un lavoro di primo riferimento che, pur condividendo con questo intervento il tema del masochismo, lo sviluppa secondo prospettive differenti: *Perversioni*. *Sessualità, etica, psicoanalisi*, Bollati Boringheri, Torino, 2005.
[vii]Ibid.
[viii] Ibid. p.8
[ix] Ibid. p.13
[x] Ibid. p.12
[xi] Cfr. Empirismo eretico
[xii] A. Nicolini (2017), p.19
[xiii] Ibid. p.21
[xiv] Ibid.
[xv] Ibid. p.23
[xvi] Ibid. p.131
[xvii] Ibid. p. 126
[xviii] Ibid. p.127
[xix] Ibid.
[xx] Ibid. p.134
[xxi] Un film che, per certi versi sembra l’esatto capovolgimento di Vertigo. La donna che visse due volte di Hitchcock.
[xxii] Ibid. p.107
[xxiii] Ibid. p.108
[xxiv] Ibid. p.110
[xxv] Se in Vertigo Scottie tenta di riprodurre Madeleine su Judy, di assimilare l’immagine della sconosciuta a quella dell’amante perduta, Louis è disposto a cedere subito Julie per accogliere Marion, “la sceglie proprio perché è una donna al posto di un’altra, una qualunque donna al posto della sola che Louis voglia.” (p.112)
[xxvi] Ibid. p.109
[xxvii] Ibid. p.114
[xxviii] Ibid. p.117
[xxix] Ibid.
[xxx] Cfr. A. Juranville, Lacan et la philosophie (1984), PUF, pp.258-268. In particolare a p.261: “l’Atto trasgressivo allora non sarà altro che un fare la legge a propria volta” e la distinzione tra “legge trasgredita” e “legge trasgressiva”.
[xxxi] Ibid. p.141
[xxxii] Ibid. p.144
[xxxiii] Ibid. p.147
[xxxiv] J. Lacan (2007), p.114
[xxxv] A. Nicolini (2017), p.149
[xxxvi] Cfr. A. Koschorke (2001)
[xxxvii] A. Nicolini (2017), p.150
[xxxviii] A. Koschorke (2001), p.563 (traduzione mia)
[xxxix] Ibid.
[xl] A. Nicolini (2017), p.151
[xli] Ibid. p.152
[xlii] Ibid. p.148
[xliii] Ibid. p.155
[xliv] Ibid. p.160
 
 
 
Bibliografia
  • Deleuze G, Il freddo e il crudele, SE, Milano, 1996
  • De Masi F., La perversione sadomasochistica. L’oggetto e le teorie, Bollati Boringheri, Torino, 2007
  • Koschorke A., Mastery and slavery: a masochist falls asleep reading Hegel, in MLN; 116 (2001), pp. 551-563, 2001
  • Lacan J., Il Seminario, Libro X, L’angoscia, Einaudi, Torino, 2007
  • Nicolini A. (a cura di), Laschia ch’io pianga. Il masochismo tra cinema, filosofia e psicoanalisi, Orthotes, Napoli-Salerno, 2017
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