Intervista a Giovanni Abbruzzese

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27 novembre, 2012 - 20:15

(Ossola)

Professore, abbiamo appena sentito parlare di diagnosi precoce di Malattia di Parkinson e neuroprotezione.Incuriosisce molti la prospettiva di fare diagnosi pre-clinica con un test dell'olfatto�. E se dovessimo riuscire in questo intento? Quali le implicazioni etiche e psicologiche? Potremo pensare di impostare un test di screening per la diagnosi pre-clinica della malattia senza avere a disposizione una sicura terapia preventiva? Chi, pur sapendo di non poterla prevenire, vorrà davvero scoprire che potrebbe sviluppare una Malattia di Parkinson?
E' ovvio che ci sono delle implicazioni di carattere psicologico molto importanti, e chiaramente il venire a sapere di essere un probabile portatore o comunque un soggetto che svilupperà la malattia può essere estremamente coinvolgente, quindi credo che questo tipo di considerazioni dovranno essere tenute ben presenti. Però siamo in una fase ancora molto preliminare. In realtà non sappiamo ancora se abbiamo dei test predittivi. E' giusto andare alla ricerca di possibili test che siano predittivi (olfatto, stipsi ecc�) perché un domani la ricerca farmacologica potrebbe metterci a disposizione delle terapie neuroprotettive. E' molto diverso infatti dire ad un paziente "Guardi, Lei ha un'alta probabilità di sviluppare una Malattia di Parkinson", senza potergli offrire una prospettiva terapeutica, rispetto al potergli dire "Lei è un soggetto a rischio con alta probabilità di sviluppare la Malattia pertanto noi le possiamo prospettare un intervento terapeutico che la proteggerà da questo rischio". In questo momento siamo ancora agli albori perché non abbiamo certezza sulla reale sicurezza dei test predittivi e purtroppo non abbiamo nessuna evidenza che la neuroprotezione sia realmente efficace. Quindi direi che è un argomento su cui è giusto ricercare ma siamo ancora in una fase molto preliminare. Nel momento in cui ci fossero a disposizione test sicuri andrebbe allora discusso come usarli. E in questo caso, andrà naturalmente posta estrema cautela qualora non avessimo contemporaneamente a disposizione delle prospettive terapeutiche per il paziente. 
Se dovessimo mettere a punto un test predittivo, secondo lei si tratterebbe di predire un'"alta probabilità di sviluppare la Malattia di Parkinson" oppure di "certezza" di ammalarsi? 
Io non credo che si arrivi ad un test di certezza perché sicuramente la Malattia di Parkinson è una malattia polifattoriale. Per ciò che ad oggi si sa, è probabile che dipenda dall'interazione tra fattori di predisposizione genetica con fattori causali, ambientali, tossici, endogeni ed esogeni. Questa polifattorialità implica che non si ha mai la certezza dello sviluppo della malattia; non siamo di fronte ad una malattia ereditaria in termini autosomici dominanti, e difficilmente si svilupperà un unico test predittivo. Probabilmente si tratterà di un'analisi polifattoriale nell'ambito della quale la positività a più fattori di rischio significa incremento della probabilità di sviluppare la malattia. Quasi sicuramente non si tratterà di una certezza. In merito alla diatriba "Levodopa/Dopamino Agonista" come terapia iniziale in un paziente giovane quale è la sua opinione? Questa è una diatriba eterna. In realtà noi sappiamo bene che la levodopa è sicuramente il farmaco più efficace però sappiamo anche altrettanto bene che inevitabilmente nel giro di 4-5 anni il 50% dei pazienti sviluppano problemi (riduzione di efficacia ecc�). Considerato questo, la strategia del gruppo con cui lavoro è, nel paziente parkinsoniano giovane (quindi con una lunga aspettativa di durata di malattia), cercare di ritardare il momento di introduzione della levodopa a quando questa sia strettamente necessaria, cioè quando lo scadimento delle prestazioni funzionali del paziente sia importante. In questo senso l'uso dei dopamino agonisti nelle fasi precoci di malattia è molto utile. Anche perché, pur non essendo questo ancora dimostrato, in tal modo si potrebbe ridurre l'incidenza delle fluttuazioni e delle discinesie legate all'impiego della levodopa. Ovviamente questa è una questione molto discussa su cui si confrontano opinioni anche divergenti, però credo che una strategia di questo genere sia abbastanza ragionevole. 
Quale ritiene sia il ruolo della Malattia di Parkinson come modello "fisiopatogenetico" di malattia neurodegenerativa?
Pensando ad altri disordini del movimento (penso per esempio alla distonia), di cui conosciamo i meccanismi ed alcuni marcatori neuropatologici, e di cui abbiamo la possibilità di creare modelli sperimentali e di operare manipolazioni farmacologiche, credo che la Malattia di Parkinson sia senza dubbio un modello unico. I recenti studi di genetica e di biologia molecolare sui parkinsonismi monogenici non sono importanti solamente perché identificano questa sottopopolazione numericamente non rilevante, ma anche perché descrivono alcuni dei meccanismi che portano alla morte neuronale e dunque alla malattia, che potrebbero poi essere traslati anche alla malattia idiopatica. Sono stati sviluppati modelli anche di patologie neurodegenerative altrettanto importanti dal punto di vista della popolazione scientifica, però credo che la Malattia di Parkinson rappresenti la prima nella quale si è studiata la neuroprotezione E sebbene purtroppo i risultati non siano ancora del tutto soddisfacenti, ha un po'aperto la strada che indica il tipo di lavoro di ricerca da attuare, che può essere utilizzato anche per le altre patologie neurodegenerative.

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