PSICOANALISI E PENSIERO CRITICO

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27 maggio, 2018 - 14:02
Iniziando a studiare psicologia, ormai tanti anni fa, da giovane studente che poco sapeva di psicologia, fui presto colpito dalla teoria psicoanalitica e dalla figura stessa di alcuni psicoanalisti che insegnavano nella mia facoltà. La teoria freudiana mi sembrava fin da subito complessa e affascinante, soprattutto perché, rispetto ad altre teorie, cercava di spiegare manifestazioni del comportamento umano che non erano facilmente riconducibili a motivi razionali e consapevoli; perché, in sostanza, non rifiutava il rapporto con la complessità. Si trattava di manifestazioni di cui, del resto, potevo fare esperienza ogni giorno, se solo vi prestavo attenzione, in me stesso e in chi mi circondava. Mi affascinava anche il metodo psicoanalitico inteso come terapia, lo spazio che concedeva al soggetto di esprimersi, il tempo che gli dava per elaborare un cambiamento duraturo e autentico, il modo stesso in cui alcuni psicoanalisti, nei libri o di persone parlavano dei propri pazienti. In questo spazio di cura, l’attenzione all’individuo e alla sua sofferenza trovava spesso parole che non avevo mai sentito prima, e che difficilmente in effetti riuscii a sentire anche in seguito da esponenti di altri orientamenti teorici. Questa attenzione al dolore e alla specificità del paziente fu probabilmente la ragione principale che poi mi indusse a cercare io stesso un percorso di maturazione e di aiuto personale di quel tipo.
Nel tempo, andando avanti con gli studi, mi accorsi anche di altro. Intanto che c’erano molte lacune nella mia conoscenza della materia, nonostante il mio impegno negli studi e il fatto che la mia facoltà avesse un prevalente (allora) orientamento psicoanalitico. In secondo luogo che c’eranop altre teorie che provavano a spiegare il comportamento umano in modo anche molto diverso dalla psicoanalisi, teorie che venivano ad acquisire via via un certo consenso negli anni presso la comunità scientifica, grazie anche ad un approccio più sperimentale o empirico. E, infine, che non tutto nella teoria e nella pratica psicoanalitiche andava come sarebbe dovuto andare. Perché, iniziavo a chiedermi, si studiavano poco le opere di Freud attraverso una lettura diretta, a parte qualche caso clinico tra i più noti o qualche stralcio dei saggi più importanti? Perché di solito, i testi universitari messi in bibliografia comprendevano libri sulla teoria freudiana scritti da altri e non, innanzitutto, i saggi fondamentali del maestro? Spesso poi alcuni dei libri da studiare per superare gli esami non erano nemmeno scritti in modo chiaro, come invece in seguito scoprii essere quelli di Freud, il quale fu un grandissimo scrittore oltre che un grande pensatore. Quei libri finivano così per creare più confusione che chiarezza nella mia mente e, credo, anche in quella di altri studenti.
Inoltre – ma su questo ci riflettei meglio in seguito – capitava che alcuni dei libri in bibliografia che trattavano di psicoanalisi erano scritti dagli stessi professori dei corsi (ed erano spesso tacitamente consigliati), che mi pareva quindi non si curassero poi molto di far acquisire con chiarezza agli studenti le basi teoriche di quella disciplina, magari proprio attraverso lo studio dei saggi di Freud che invece erano, su certe questioni, di una esaustività esemplare, dando quindi per scontate molte cose che tali però non erano per studenti ancora giovani. Si trattava di una tendenza che mi fece col tempo venire in mente quella che la Chiesa cattolica aveva avuto per secoli nei confronti della Sacre Scritture: ci doveva essere qualcuno che interpretava quegli scritti fondamentali, ed era rischioso lasciare la libertà al singolo di accedervi e avere con esse un rapporto più diretto, senza cioè l’intermediazione ermeneutica di un altro.
Gli interrogativi che ponevano poi gli altri orientamenti teorici suscitavano in modo crescente il mio interesse, soprattutto per la tensione a trovare da un lato un linguaggio più chiaro e condivisibile rispetto al lessico psicoanalitico, a volte troppo astratto o oscuro, dall’altro delle metodiche di verifica di quanto una teoria sosteneva sul funzionamento mentale; anche se carente risultava l’appeal di molti insegnati che seguivano altri orientamenti teorici apparentemente più scientifici, in particolare per il loro modo semplificato e troppo razionale di parlare del funzionamento psicologico o della psicopatologia. Le aspirazioni degli altri orientamenti alla chiarezza e all’oggettività non erano certo sempre imparziali, né i tentativi sempre convincenti, però riflettevano il bisogno molto umano di dare basi più solide ad un insieme di ipotesi teoriche su un argomento complesso e difficile come quello del funzionamento mentale e del comportamento dell’essere umano. E a volte erano una reazione comprensibile proprio all’oscurità di certe affermazioni della psicoanalisi e del carattere un po’ magico ed iniziatico del trattamento che proponeva, che tanto rilievo avevano avuto nella storia della psicologia clinica, specie in certe aree geografiche.
Ma un’altra cosa notai crescendo d’età e consapevolezza durante gli studi universitari e soprattutto durante la mia successiva specializzazione come psicoterapeuta: la psicoanalisi molte volte non era così efficace come diceva di essere. E venni ad acquisire questa consapevolezza non solo attraverso letture, che per quanto documentate c’era il sospetto che potessero essere sempre parziali specie quando venivano dal campo avverso, ma soprattutto attraverso la mia osservazione diretta. Non solo un numero non trascurabile di psicoanalisti e aspiranti tali, conosciuti nel tempo più da vicino, rivelavano aspetti caratteriali e comportamentali tali da poter suscitare preoccupazione ad un osservatore clinicamente esperto - aspetti non distanti da quelli dei pazienti che, nei libri, la psicoanalisi si proponeva di curare; ma anche diversi miei colleghi e conoscenti, dopo anni di analisi, rimanevano tali e quali che all’inizio del loro percorso di cura o di formazione professionale, smentendo nei fatti l’efficacia di quella modalità terapeutica che, nelle loro convinzioni, era certamente la più completa ed efficace.
Come si poteva avere fiducia in un metodo di cura, mi chiedevo sempre più spesso, i cui rappresentanti e i cui seguaci, anche dopo anni di formazione, mantenevano intatti i loro aspetti caratteriali e, a volte, li consolidavano pure? Parlo ovviamente di aspetti caratteriali preoccupanti, cioè disadattivi o fonte di sofferenza quantomeno per chi con loro era costretto a relazionarsi o che quantomeno avrebbero potuto suscitare, come detto, preoccupazione clinica se costoro non fossero stati psicoanalisti e/o psicoterapeuti in formazione ma comuni pazienti. E la cosa che francamente mi sconvolgeva, a volte, era l’assoluta inconsapevolezza di ciò e la contemporanea idealizzazione del proprio analista che caratterizzava molti colleghi in formazione. Cominciai così a pensare che le due cose fossero legate.
Come si poteva tollerare una simile contraddizione? Come si poteva continuare a credere alla veridicità di molti resoconti clinici riportati nei libri o oralmente, o all’efficacia di un metodo terapeutico che non di rado, nella realtà di ogni giorno, assicurava nonostante la sua intensità e durata temporale risultati tanto risibili? Nacque in me un certo fastidio deontologico, se così possiamo definirlo, per il fatto di notare con sempre maggiore chiarezza miglioramenti consistenti nei pazienti di cui cominciavo a prendermi cura nel corso della mia formazione come psicoterapeuta – trattati attraverso metodiche che pur ispirandosi alla psicoanalisi per alcuni aspetti se ne distaccavano – e all’opposto l’assenza di miglioramenti altrettanto visibili che caratterizzava pazienti o colleghi sottoposti ad un trattamento psicoanalitico tradizionale di cui avevo avuto esperienza diretta. Queste considerazioni le facevo, si badi bene, mentre continuavo a formarmi e studiare in un ambito psicoanalitico, cioè facendo una psicoterapia personale intensiva ad orientamento psicoanalitico, studiano prevalentemente su testi scritti da psicoanalisti o psicoterapeuti dinamici, e partecipando ad incontri di supervisione tenuti da psicoanalisti; lontano quindi da ogni forma di pregiudizio o di scarsa conoscenza relativamente a quest’ambito di cui spesso gli psicoanalisti accusavano chi osava criticare alcuni aspetti del loro metodo.
Iniziai così a declinare l’aggettivo ‘psicoanalitico’ in un modo più complesso e aperto, sulla base anche di nuove letture di autori che, dotati di grande esperienza e riconosciuti a livello internazionale, esprimevano nei loro saggi teorici idee e considerazioni critiche non molto distanti poi da quelle che nel frattempo stavo maturando io stesso nel corso della mia esperienza clinica di terapeuta e di paziente. Si trattava di studiosi che, a volte, si erano occupati di ricerca in ambito psicodinamico, e che quindi avevano provato a dare una base empirica più chiara, per quanto possibile, a certi aspetti del metodo di cura proposto dalla psicoanalisi. L’esito dell’insoddisfazione interiore per questo stato di cose, che ancora non riuscivo bene a spiegarmi almeno da un punto di vista teorico, mi condusse ad approfondire direttamente gli scritti tecnici e i casi clinici di Freud, cosa che, come molti altri studenti, non avevo avuto la possibilità di fare ai tempi dell’università.
Decisi quindi di tornare alle origini per capire se in quei pensieri e resoconti si potessero rintracciare in nuce le origini di alcuni degli aspetti critici che andavo rilevando con sempre maggiore chiarezza nella mia esperienza quotidiana di psicoterapeuta e di semplice studioso che osserva, sempre consapevole dei limiti della propria osservazione.

Da questo sforzo di approfondimento e di ricerca durato qualche anno, da questa tensione che non era solo scientifico-teorica ma anche personale e pratica, è nato il mio saggio Il carattere della psicoanalisi, uscito nel 2017 presso Edizioni Psiconline. Un testo in cui ho cercato, attraverso un’attenta disamina di molti dei testi di Freud maggiormente centrati sulla tecnica e la clinica (più che sulla metapsicologia) di capire come la psicoanalisi abbia assunto una certa conformazione come metodo di cura e se alcuni aspetti personali e idiosincrasie proprie di Freud (e in fondo di ogni altro psicoanalista) possano aver giocato un ruolo nel dare una certa configurazione e certe caratteristiche a quel metodo, a favore della coerenza e dell’importanza della teoria ma a discapito dei pazienti. Ma anche sul peso che il rispetto di una certa tradizione teorica ha avuto in questo processo.
Un lavoro che è nato quindi innanzitutto da un’esigenza di coerenza e onestà intellettuale e da quell’«amore per la verità» di cui lo stesso Freud parla come una caratteristica fondamentale dell’attività dell’analisi, e di cui certamente i pazienti che arrivano in cura hanno bisogno o è lecito che si attendano dal proprio terapeuta. L’esito del lavoro non è certamente esaustivo, ma prova a gettare una luce su alcuni punti oscuri della teoria e soprattutto della pratica psicoanalitica proprio partendo dalle tesi e dall’attività clinica del suo fondatore e invitando implicitamente i lettori a confrontarsi con quegli scritti. Tenendo presente quanto suggeriscono alcuni psicoanalisti che, nel corso dei decenni, si sono mostrati critici verso alcuni aspetti della teoria, della formazione e del metodo psicoanalitico, ho cercato di portare avanti le mie argomentazioni mantenendomi il più possibile equidistante dagli estremi del criticismo e della passione per la teoria psicoanalitica.
La speranza è quella di aver realizzato qualcosa di stimolante, per quanto parziale, che induca ad approfondimenti ulteriori e susciti delle domande nel lettore più che dare risposte definitive su questioni ancora oggi molto dibattute.

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