Editoriale
il punto di vista di Psychiatry on line Italia
di Francesco Bollorino

ANESTESIA? Lettera aperta al cuore dei lettori di ANTONELLO CORREALE

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6 luglio, 2018 - 09:08
di Francesco Bollorino
NDR Ricevo e pubblico.. commosso... sul tema invito alla lettura
del contributo di Rossella Valdrè

L’anti-desiderio e l’Etica


Caro Bollorino,
mi sento spinto a scriverti e, attraverso te, scrivere ai lettori di Psychiatry on line Italia, perché colpito da un grave turbamento, che mi lascia nell’animo un senso di sconvolgimento e di tempestosa impotenza e, quasi, di disperazione.
Mi riferisco alle attuali tragedie in mare, colla sequenza di morti annegati, di famiglie divise, di adolescenti e bambini senza più genitori, di madri e padri senza figli. Sto parlando, come tutti sanno, di persone, che già nei loro paesi soffrono divisioni atroci, violenze e tormenti, non ultimo la più atroce forma di tortura e desolazione: la fame, la malattia, l’esposizione del proprio corpo a forze troppo grandi, che possono annullarlo e distruggerlo.
Ma quello che più mi colpisce, e mi lascia stordito, non è tanto l’incapacità di affrontare il problema da un punto di vista politico, incapacità di cui l’Italia e l’Europa stanno dando una miserevole prova. So pure che il problema è complesso e non può essere risolto da generici, per quanto importanti, appelli all’umanità e alla solidarietà.
Quello che mi colpisce è l’indifferenza e, fase immediatamente successiva all’indifferenza, l’odio e la ripulsa.  
Mi viene da chiedermi, e da chiedere a tutti noi: che cosa è successo? Amici, colleghi, cittadini, che cosa è successo?
Perché scene atroci, dolori giganteschi, perdite immense di vite, suscitano al massimo un breve commento compassionevole e in molti invece quasi un : “Ben gli sta!”, noi non li vogliamo vedere. Come non pensare, che i traumi che si abbattono su questi bambini, su questi giovani, su queste famiglie, diventeranno tra qualche anno, sofferenza psichica e fisica, disturbi psichici, personalità menomate e alterate? Come non pensare che si stanno preparando con grande zelo e ostinazione, gli infelici del domani, i disperati di domani, i disadattati di domani?
Perché chiudere gli occhi, trincerandosi dietro le insufficienze - fin troppo evidenti - dei governi italiani e europei? Veramente siamo convinti che gli errori politici giustifichino il grave rischio di un tracollo etico? Che si possa far morire qualcuno, far impazzire tanti, far soffrire quasi tutti, solo per esprimere una critica e una profonda insoddisfazione?
Veramente pensiamo che gli errori di molti giustifichino la nostra violenza, la nostra brutalità, la nostra insofferenza infastidita verso il dolore degli altri?
Sento dire da molti: è brutto che qualcuno muoia, ma il governo attuale ha delle ragioni.
Ma che discorso è mai questo?
Quale ragione - vera o presunta - può giustificare la perdita della vita, il disprezzo per i diritti umani, l’invito a non soccorrere chi chiede aiuto (perfino questo abbiamo dovuto sentire!), il rispedire in luoghi pieni di dolore e sofferenza (sia i paesi di origine, sia i campi dei rifugiati) chi cerca disperatamente di fuggirne?
C’è il rischio di un crollo etico, che non è giustificabile col discorso politico. L’indifferenza e l’odio che ne è il figlio più immediato, è l’espressione di un avvio verso un crollo etico, camuffato da fastidio (“cambiamo argomento”) e di una blanda, rapida, compassione. Peggio, talvolta l’odio non è camuffato, ma esplicito.
Ma perché tutto questo? Insisto colla domanda: che cosa è successo? Quale oscura, profonda mutazione, si è infiltrata negli animi per determinare un effetto così drammatico? Non parlo naturalmente di tanti che combattono tutto questo. Tanti, tantissimi che purtroppo non trovano un punto di raccordo e di collegamento,
Ma non posso non citare La banalità del male di Hannah Arendt. Il male si ammanta di buon senso, di normalità, siamo bravi cittadini, non ci disturbate.
Un mondo che privilegia su tutto la “sicurezza” e la “legalità”, senza preoccuparsi se la legalità deriva da leggi errate, impossibili da rispettare, è un paese in difesa, chiuso, che preferisce la lettera alla sostanza, il piatto buon senso al riconoscimento del dolore umano.
Insisto colla domanda: perché tanta indifferenza?
Vorrei provare a rispondere. Credo che il problema fondamentale non sia il timore dell’invasione (che è ben lungi dall’essere tale) e non sia neanche solo il razzismo (che pure scivola tra le pieghe del sociale in modo subdolo), ma sia l’odio per il povero, per il disperato, per l’inerme, per chi non ha più nulla.
Lo spettacolo dell’assoluta indigenza è per molti insostenibile. L’indigenza causa sensi di colpa, che nessuno vuole provare, come la paura di essere invidiati (l’africano porge il cappello all’occidentale, che esce allegro dal ristorante), ma più di tutti causa il pensiero: potrei essere come lui o come lei. E se capitasse a me?
Non si prova rispetto per chi non ha niente, al massimo una fugace compassione. Perché in realtà questo specchio dell’umana fragilità, dell’esposizione alla malattia, alla solitudine, al dolore, ci richiama al terrore primordiale di poter finire così.
E allora meglio pensare che sono terroristi, imbroglioni, truffatori, ladri, fanatici, sporchi, violenti, che hanno idee sbagliate, culture assurde, che sono contrari ai nostri valori.
Ma i nostri valori non ci spingono a ricacciarli nell’impotenza! Ma è in nome di questi valori, che noi facciamo questa opera contro chi non rispetterebbe i nostri valori!
È chiaro che alcuni di loro sono violenti e negativi, come lo sono molti italiani (in Italia un uomo uccide una donna quasi una volta al giorno e sono italiani).
Ma invece di criticare la nostra giustizia, che è lenta e farraginosa, attacchiamo loro e proponiamo la chiusura delle frontiere. Invece di affrontare le nostre tremende insufficienze (corruzione, giustizia, sanità, amministrazioni inadempienti, cattivo funzionamento delle istituzioni), preferiamo attribuire tutta la colpa dei nostri difetti ai migranti.
E quindi potremmo dire: l’indifferenza, e l’odio che la segue, sono il frutto del rifiuto che alberga ormai nel mondo occidentale per la debolezza, la solitudine, l’indigenza e l’inermità e per il riconoscimento onesto delle nostre mancanze.
Si parla molto di tanti poveri italiani (quasi cinque milioni): ma anche verso di loro io non sento solidarietà e interesse e partecipazione, ma una compassione un po’ pelosa: sono più importanti i poveri italiani dei poveri stranieri (ma ricordate Shakespeare: se resta senza cibo, non ha fame un ebreo, se lo ferisci non perde sangue?). Ma in sostanza io vedo verso tutta la povertà italiana e straniera lo stesso atteggiamento indifferente e banalizzante.
Come vogliamo chiamare tutto questo: una gigantesca opera di negazione di massa, il chiudere gli occhi, il preferire l’ignoranza alla conoscenza perché è più tranquillizzante?
Credo che si possa sintetizzare questo mia riflessione con una semplice frase: quello di mio che non vorrei vedere.
Io non credo che sia impossibile uno sforzo maggiore per guardare dentro di sé: in fondo è da questo che mi aspetto un possibile cambiamento. Ma forse è necessario che molti abbiano il coraggio di proporlo e di affermare a voce alta e con coraggio questa forte verità, che richiede la forza di un forte ripensamento su noi stessi e sul mondo che vogliamo costruire.  
In conclusione, mi piacerebbe chiedere a tutti, e in particolare a chi segue pol.it ed è quindi interessato a porsi la domanda di come funziona la mente umana, a livello individuale e collettivo: perché queste anestesia strisciante, che colpisce un numero crescente di persone, perché questa inerzia, questa passività, questa rinuncia? Ma credo che anestesia sia il termine più preoccupante, ma anche più preciso.
Che cosa è successo? Chiediamocelo e chiediamo agli altri una riflessione e una discussione su questa domanda cruciale.
ANTONELLO CORREALE
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Ringrazio molto e condivido quello che afferma Antonello Correale rispetto alla psicoanalisi che deve uscire dagli studi e ambulatori e occuparsi di quanto succede intorno. Questo mi rimanda al fatto che io da psichiatra pubblico dico che anche la psichiatria, se il mandato corrisponde al farsi carico della tutela della salute mentale, deve allargare gli orizzonti, da tempo piuttosto limitati; salute mentale non significa necessariamente mancanza di patologia. I nostri servizi continuano ad occuparsi soltanto di pazienti psicotici ( per carità bisogna continuarlo a fare e fare anche meglio), tuttavia le forme di disagio più difficili da curare ( anche perché i farmaci non funzionano), sono altre, in particolare le forme sotto soglia, quelli che magari si presentano ai nostri servizi perché stanno male, ma non accusando deliri o allucinazioni, o disturbi affettivi particolarmente evidenti, e li respingiamo. I Servizi di Salute Mentale devono aprirsi alla popolazione, certamente non possiamo fare lezioni di vita o di educazione civica e tantomeno di politica, non abbiamo i mezzi per proporre psicoterapie individuali a tutti, tuttavia possiamo offrire delle indicazioni utili ad acquisire o favorire la salute mentale, ad esempio affrontare la vita attraverso prospettive alternative, come il favorire la curiosità rispetto al pregiudizio ( atteggiamento propedeutico al razzismo), l'inclusione rispetto all'esclusione, la complessità rispetto alle semplificazioni, ma soprattutto potenziare le capacità di riflessione. Ecco io credo che promuovere incontri educativi con la popolazione finalizzati alla Salute Mentale all'interno dei Comuni, a o anche dentro i nostri Centri di Salute Mentale, che potrebbe rappresentare anche una modalità alternativa di lotta allo stigma. Sono anch'io convinto che qualcosa si possa e si debba fare, da parte di noi professionisti, rispetto a questa inquietante deriva di odio e esclusione.

Uno dei nostri compiti non è forse quello di individuare, nei singoli e anche nel sociale, ciò che è vita, promuoverla, renderla consapevole e farla crescere? Sappiamo anche come essa il più delle volte si manifesti con segnali marginali. Vediamo perciò la tragedia, che ci lascia sgomenti. Cerchiamo di contrapporle la nostra capacità di visione, e di analisi. Ma ciò che è vita si muove nonostante noi, al di là di noi. Centinaia di giovani, e anche di meno giovani, in ordine più o meno sparso, in gruppi più o meno formalizzati, si stanno da alcuni anni organizzando in un movimento controcorrente, costante e imponente, portando aiuto. Gruppi, italiani, europei, internazionali, sono scesi in Grecia, sono andati a Lesbo, sono risaliti fino a Idomeni, là dove ai confini con la Macedonia i migranti avevano formato una tendopoli brulicante e assurda, ma densa di umanità. Ho presente addirittura un gruppo di bagnini, credo siano spagnoli, che in Grecia insegnano ai bambini a nuotare, perchè superino l’orrore dei naufragi. Portano i beni necessari, parlano con le madri, prendono il thè nelle tende, giocano con i bambini. Gruppi più professionali, ad esempio di avvocati, danno sostegno legale. Sempre nella rotta Balcanica (quella mediterranea, con le vicende delle ONG, sono più note) in queste settimane una collega eroica (posso permettermi questa espressione?), la psicoanalista di Pordenone Lorena Fornasir, insieme al marito, Gian Andrea Franchi, dopo aver fatto a lungo lavoro di strada soccorrendo migranti sotto la pioggia e buttati nei fossi, ha raccolto attorno a sè un cospicuo numero di persone, italiane e balcaniche, per arrivare fino ai confini tra Bosnia e Croazia, dove centinaia di persone si ammassano in tuguri e teli di naylon, respinti fin lì dalla Croazia, e prima ancora dalla Slovenia, e prima ancora da Trieste, che neppure più ci prova a raccogliere la loro domanda di asilo. La polizia croata picchia, e sevizia, nella indifferenza del mondo. Bihac è diventata una sorta di hot spot spazzatura dell’Occidente, tanto che lamento possono levare i bosniaci che venga udito? E invece anche in Bosnia, un paese poverissimo, sono sorte associazioni di cittadini, man mano supportate da qualcosa di più organizzato, come la locale Croce Rossa. Eppure L’azione di Lorena dà scandalo, sia presso gli amici della sinistra che presso i colleghi. Che spazio ha la spinta alla “carità” nella sinistra e tra gli psicologi? Quello che è coraggio viene visto con sospetto. Ciò che fa Fornasir è prima di tutto resistenza, testimonianza, difesa di ciò che è umano. Questo per dirvi colleghi che la vita esiste, ma certo lo sapete già. Se non altro sotto forma di giovani che per loro natura desiderano non perdersi le occasioni che sta dando loro la storia. Se non partecipi a questo grande volgere di epoca, le migrazioni globali, che esisti a fare, sembrano chiedersi. Sento di avere fiducia almeno in questo, la spinta naturale ed autonoma della vita e del desiderio che la muove. Non dipende da noi, c’è e basta. Ma le si può dare visibilità e spazio, aiutarla. Io cerco di farlo, per il momento postando a manetta quello che questi giovani (e meno giovani) stanno facendo e scucendo qualche soldino.
Grazie di potervi parlare.

Maria Teresa Fenoglio
Rispondo volentieri che la psicoanalisi avrebbe molte armi per combattere questa deriva individualistica e frammentante.
Ma bisogna guardare alla psicoanalisi come modo per concepire la natura umana, per capire il funzionamento della mente, per riconoscere le passioni degli uomini, e l’inconscio come l’insieme delle difese per non affrontare il dolore e non solo come un informe apparato emozionale. Nell’inconscio sono nascosti mostri e incubi che preferiamo spesso lasciare non toccati.
Dove è finita la peste di cui parlava Freud andando in America?
La psicoanalisi non è fatta soltanto di setting e numero di sedute, ma è un modo di guardare l’essere umano e ai profondi conflitti che lacerano ognuno di noi. Abbiano bisogno di una psicoanalisi che sappia parlare a chi non è psicoanalista aprendo l’ispirazione dall’immenso patrimonio psicoanalitico ma trovando un linguaggio comprensibile d efficace. Che sappia parlare alle persone della grande difficoltà dello stare insieme e dei modi per superarla. Potremmo dire parafrasando Racamier che abbiamo bisogno di psicoanalisti che sappiano parlare fuori dalla stanza senza dimenticare quello che succede nella stanza.

Ringrazio tutti per le riflessioni preziose che ci hanno comunicato. Ho condiviso in modo particolare quelle di Andrea Benlodi, Paolo Peloso, Maria Teresa Fenoglio, Paola Binetti.
Io vorrei aggiungerne due.
Una riguarda la forte ambivalenza nelle politiche che tutti i governi europei non dichiaratamente xenofobi attuano riguardo gli attuali fenomeni migratori. Da un lato dichiarano che l’immigrazione è complessivamente un fenomeno positivo, economicamente e culturalmente, da accettare con fiducia; dall’altro però insistono che dobbiamo accoglierla perché a determinarla sono cause drammatiche, tutt’altro che positive (guerre, fame, cambiamenti climatici). Da un lato affermano che accogliere è un dovere per salvare vite; dall’altro non istituiscono canali umanitari ufficiali lungo i quali le persone che lo vogliono possano uscire dall’Africa effettivamente in sicurezza. Da un lato condannano le altrui posizioni xenofobe; dall’altro chiudono le proprie frontiere e si scaricano vicendevolmente questi disgraziati come fossero appestati. Da un lato ci dicono che queste persone saranno una risorsa positiva per i paesi di arrivo; dall’altro non agiscono efficacemente nel contrasto di concreti portati negativi che sono sotto gli occhi di tutti, fra cui l’importazione di manodopera per attività illegali di grande impatto sulla esistenza quotidiana di molti: spaccio, prostituzione, microcriminalità, mendicità, lavoro in condizioni di schiavitù… Questa gestione contraddittoria è caratterizzata oltretutto anche da cambiamenti di posizione repentini da parte di vari governi, in base a convenienze e pressioni contingenti, riguardo a fenomeni che invece sono descritti come epocali. Non si intravede una visione solida e stabile che possa rendere queste migrazioni su larga scala e di lunga durata, davvero bene tollerabili sia dalle popolazioni dei paesi da cui si parte, sia dalle popolazioni dei paesi in cui si arriva. Tutta questa ambiguità non può far altro che suscitare insicurezza nei governati, e qualunque rassicurazione che l’immigrazione è cosa utile e buona, in questo scenario, può solo suscitare incredulità e sfiducia. E rigetto.
L’altra riguarda la paura di perdere l’identità, nella mescolanza con altre etnie ed altre culture. Mi colpisce molto il fatto che la mia mamma, una signora di 89 anni gentile e compassionevole con tutti, e in primo luogo proprio riguardo ai migranti, che non si sognerebbe mai di essere razzista, tuttavia è molto rattristata dal fatto che “di noi italiani tra non molti anni non ce ne saranno più: tra il fatto che noi non facciamo più figli, e il fatto che arrivano sempre più persone da altri paesi, fra non molti anni noi italiani non ci saremo più. Saremo sostituiti”. Io scherzo replicando “Meglio così, con tutti i difetti che abbiamo. Chissà che sparisca anche la mafia”. Ma lei è veramente rattristata al pensiero della “perdita di noi italiani”. E forse questa paura della perdita di identità, dell’estinzione, può spiegare il sentimento di ”invasione”.

Caterina Zanetti ci parla molto giustamente dell’ambiguità dell’operazione che definiamo dell’accoglimento. Come non darle ragione! Possibile che l’unico sentimento che si riesce a sollevare è quello di una generica pietà? Che poi camuffa forme più subdole di respingimento come la non creazione di canali umanitari e il lasciare spesso quasi abbandonati a se stessi in istituzioni non adeguate le persone accolte?
Non c’è interesse per la loro identità, il loro mondo, la loro storia, la loro cultura.
Se questo interesse ci fosse, avremmo meno paura della perdita dell’identità nostra. Questa paura nasce dall’oscurità in cui lasciamo avvolto il migrante, il non farsi raccontare la sua storia, il non curarsi della sua lingua e dei suoi pensieri. Se si facesse questo, nei luoghi non solo di accoglienza, ma molto di più in quelli di permanenza, anche noi avremmo meno paura. Si ha paura molto di più di qualcosa che non si conosce.
Accogliere i migranti con la giusta distribuzione in Europa significa non perdere la nostra identità, ma ritrovarla.

Ringrazio il Prof. Correale per questa profonda riflessione e vorrei provare a dare una mia lettura pur settoriale in risposta a questa domanda sulla difficoltà di identificazione con l’inerme, con colui cioè che rappresenta il bisogno per antonomasia . Chi scrive opera come psicologo psicoteraputa da 30 anni nei servizi psichiatrici e ospedalieri. Mi sono chiesto anch’io cosa impedisse a persone giovani e a miei coetanei questa operazione , e la risposta che mi sono dato è la paura, forse perchè questa paura di ritrovarsi “ senza armi” è già stata provata su larga scala in prima persona o da chi si ha accanto. Alcuni esempi: le persone della mia generazione che decidevano di studiare avevano la “strada spianata” per le proprie aspirazioni e se si concludevano gli studi , il lavoro per cui hai studiato ti attendeva. Chi abbandonava gli studi anche dopo la scuola media , aveva un lavoro . Ora iniziamo invece subito a castrare i giovani con test di ingresso alle facoltà , come se aspirare a medicina e finire con giurisprudenza o a fisioterapia e studiare invece agronomia , non lasciassero conseguenze interne , non comportassero una rabbia e un timore di fallimento verso se stessi e la vita in generale. Una volta terminati gli studi, leggi sciagurate tutelano il precariato proponendo contratti ridicoli volti ad impedire di fatto che i giovani proseguano nel proprio ciclo vitale di autonomizzazione . Chi lavora senza un titolo di studio elevato, spesso viene ancora più mortificato. Ma le famiglie che dovrebbero contenere queste angosce dei giovani , in che stato versano ? La crisi ha catapultato indietro nel ciclo vitale obbligandoli a chiedere aiuto ai propri genitori, migliaia di adulti . Ho ben presente la rabbia e l’umiliazione di colleghi coetanei che per garantire una vita adeguata ai figli ( non alla Bocconi , sia chiaro, ma anche solo alle superiori) mi dicevano :” se non ci fossero i miei...”. Parliamo poi dei suicidi dei padri a cui la crisi togliendo il lavoro, ha tolto loro l’dentità biologica e sociale di colonna della famiglia?
Un’ultima cosa riguarda noi operatori “ di frontiera” e non tanto la difficoltà ad identificarci , ma piuttosto il sentimento di rabbia provato di fronte all’impotenza di chi viene travolto da orrori “ non pensabili”, e non previsti nelle normali prassi operative; lasciati soli con l’angoscia di avere visto e sentito cose oltre l’immaginazione, spinti ad interventi d’urgenza contrari alla propria etica umana.
Quindi io penso a questa anestesia come ad una difesa rispetto alla impossibilità di disidentificarsi dopo la prima operazione di identificazione. Le condizioni di minaccia alla propria identità , sicurezza ( in senso Sandleriano) provate precedentemente ci spingono a confonderci con l’inerme, generando la reazione di protezione suddetta

Andrea Benlodi sottolinea la sensazione di impotenza e quindi di paura. La proiezione sull’altro debole diventa vera difesa del senso dalla propria inermità? È vero. Ma quanto di questo senso di impotenza è legato anche a una modalità di pensiero diffusa, che vuole impoverire, anziché arricchire, gli orizzonti di chi entra nella vita sociale.
Le condizioni del lavoro sono sempre più difficili. Ma accanto a questo problema, per cui si fa poco anche se se ne parla continuamente, si aggiunge un fenomeno che definirei di fatica culturale, di trovare sempre più ostacoli sulle possibilità di una cultura allargata, più aperta e sensibile al mondo.
Il problema politico è cruciale, ma è inscindibile da un problema che definirei culturale: quanto crediamo nella conoscenza, nella competenza, nel sacrificio e gioia del sapere e quanto il problema politico della mancanza di lavoro ha una ricaduta culturale su uno stato d’animo sembra scivolare verso un disinvestimento deluso?
Io credo che di fronte ai problemi giganteschi di questo momento storico, il compito che dobbiamo salvaguardare e non stancarci mai di difendere è: far circolare le idee, dirle, dirle e poi dirle e poi, ancora, di più, farsi capire!

COSA NON E' SUCCESSO
Cosa non è successo? La civiltà nata dopo il Secolo dei Lumi, non ha dissipato le tenebre, le ha rimosse temporaneamente. Non siamo civili come pensavamo. Ammesso che l'inciviltà della maggioranza non ci appartenga, possiamo rattristarci e anche disperarci, ma scandalizzarci è sterile. Duro riconoscere che il Nazismo e Auschwitz sono espressioni 'normali' della nostra cultura, e che il Processo di Norimberga non ha fatto giustizia, ma ha rimosso i suoi orrori. Vedere e sentire una barbarie come quella che stiamo vedendo, anche in certe relazioni di ogni giorno, è terrificante, e se siamo psicoanalisti ci tocca non distogliere lo sguardo. Bisognerebbe sopportare una caduta di illusioni forse ancora più rovinosa di quella alla quale assisteva Freud nel 1933. Quando, dopo il rogo dei libri di Berlino, disse che c'era stato un progresso, perché ora bruciavano i suoi libri, mentre in passato avrebbero bruciato lui. Anche quel progresso era illusorio: pochi anni dopo avrebbero bruciato anche lui, come le sue sorelle, se non avesse lasciato Vienna per andare esule a morire a Londra.

L'accorata testimonianza/appello/denuncia di Antonello Correale documenta lo smarrimento in cui in molti, fra cui anch'io, ci ritroviamo per l'indifferenza e l'anestesia di massa esibite dai nostri concittadini a fronte delle migrazioni in corso di esseri umani, specie quelle dall'Africa. Atteggiamenti e politiche antimigranti sono in forte crescita in tutta l'Europa.
In gioco, e da ricostruire, ci sono le ragioni dello stare insieme tra noi e tra noi e chi proviene da altre parti del mondo, perché le ragioni del Novecento nelle quali sono cresciuto e che ho condiviso non sono più in grado di aiutarci, motivarci ad evitare catastrofi umanitarie e morali.
Cosa è accaduto, cosa sta accadendo?
Secondo me, dopo la caduta del muro di Berlino, la fine dello scontro Est/Ovvest e l'affido del governo della Terra alla Grande Finanza, è esploso lo scontro fra Nord e Sud del mondo. E qui il problema più importante, per me, è costituito dalla lente dell'esperienza colonialista europea che ha impedito e impedisce il rispetto e la reciprocità negli sguardi e nelle relazioni.
Chi sono, come si chiamano, quali affetti e sogni si portano le persone stipate sui barconi? Vi è uno Stato che li riconnosce, li protegge, li tutela? Lo chiedo e me lo chiedo perché penso a Gulio Regeni, un giovane studioso italiano massacrato di botte in Egitto. Per farre luce sugli eventi ed avere giustizia si sono mobilitati famigliari e amici, ma anche lo Stato, il Governo, la Magistratura.
Le migliaia di affogati nnel Mwditerraneo non sono invece pretesi da nessuno, non hanno nome e volto come i milioni di loro antenati violati, razziati, deportati, depredati, asserviti nelle loro stesse terre, caricati a forza su navi per essere schiavizzati nelle piantagioni del Nuovo Mondo. Una strage di popoli che dura da 5 secoli per la quale non è mai stato istituito alcun Giorno della Memoria.
Io credo che sia questo continuo, incessante permanere ed operare del racconto colonialista che anestetizza le coscienze europee, impediscce la rivolta morale voluta da Correale.
Poi seguono le responailità dei sistemi politici delle democrazie europee nelle quali le identità politiche otto-novecenntesche si sono dissolte insieme all'esperienza dei partiti politici di massa, trascinando con sé la rottura del rapporto fra i cittadini e le loro rappresentanze politiche. Col risultato di una politica allo sbando, irresponsabbile.
Condivido l'angoscia di Correale, ma credo che perr rimediare all'abisso di disumanità e indifferenza che noi popoli "civili" stiamo scavando più che alle ragioni dell'etica si debba ricorrere a quelle della politica, dell'antifascismo e dell'aticolonialismo.

Luigi Benevelli

Luigi Benevelli
Riconduce giustamente il problema al rapporto tra etica e politica. Certo l’etica non basta, se non si riflette in un progetto, in una proposta. È a tutti evidente il limite degli appelli umanitari. Ma dobbiamo porci una domanda: perché la politica in gran parte sembra aver perso contatto coll’etica? O una certa politica questo contatto non l’ha mai avuto? Su questo punto insistono Gilberto Di Petta e in minore misura Adalinda Gasperini. Entrambi insistono sul carattere imitativo della natura umana, sulla potenza del “contagio” psichico, tendente a mettere in primo piano l’utilitarismo egoistico che c’è in tutti noi. E quindi si ripropone la domanda: perché in alcuni periodi un certo fondo sommerso della natura umana nascosto nell’uomo si palesa? E quale coraggio è mancato per contrastarlo?
A meno che non pensiamo che il termine “crescita” abbia esercitato un tale fascino sulle forze politiche (penso in gran parte alla sinistra) da far sacrificare su quell’altare tante idee e convinzioni che sembravano irrinunciabili.

“Come non pensare, che i traumi che si abbattono su questi bambini, su questi giovani, su queste famiglie, diventeranno tra qualche anno, sofferenza psichica e fisica, disturbi psichici, personalità menomate e alterate?”
Questa è la domanda che io, da uomo di scuola ho sempre ritenuto fondamentale per il mio agire.
Ho sempre considerato sterili, seppur animate da buona volontà, le dichiarazioni dei professori, anche di quelli più aperti, di trattare equamente i propri allievi.
Dichiarazioni e comportamenti che, al di là di una sincera buona volontà, ho sempre ritenuto sterili, perché le condizioni di equità si potrebbero ristabilire solo operando in modo di permettere a tali allievi il recupero delle cause remote di un tale svantaggio:
• background socio – familiare marginale
• famiglie problematiche sul piano degli assetti relazionali e psicologici
• infanzie traumatizzate
 Se noi siamo la nostra infanzia o se perlomeno è in essa che gli accadimenti si inscrivono in maniera molto profonda nel nostro inconscio o nei circuiti neurali o determinano una determinante stabilizzazione sinaptica (a seconda delle visioni e della formazione di ognuno);
 se in definitiva, gli accadimenti della nostra infanzia segnano in maniera rilevante il nostro modo di essere, allora si coglie tutta la drammaticità della domanda di Antonello Correale, posta da me all’inizio.
E quali saranno i prezzi che ci presenterà domani, se non la nostra coscienza, la rabbia che alimenta tutti i fondamentalismi?
E poi possiamo veramente continuare a pensare che i nostri stili di vita siano una costante indipendente e intangibile da fenomeni biblici come le migrazioni degli ultimi?

Vorrei provare a dare una spiegazione del fenomeno che, in parte, conferma e amplia quella data da Antonello Correale e, in parte ne differisce. La prospettiva di analisi che propongo è quella di rispondere alla domanda: di quanto le società contemporanee si sono emancipate dal patriarcato arcaico come principio organizzatore della convivenza? La risposta è poche, e in misura parziale. Parliamo dei paesi anglosassoni, di quelli scandinavi e, a stento, del nord Europa. Già con i paesi europei che si affacciano sul Mediterraneo registriamo ampie sacche di patriarcato arcaico. Si pensi che l'unico paese nel mondo ad aver bandito la prostituzione equiparandola, giustamente, allo stupro, è la Svezia. Per il resto del mondo è ancora buio profondo. In particolare lo è per i paesi africani sia a nord del Sahara che a sud. Queste società sono profondamente malate. Sono intrise di violenza. Le relazioni tra persone sono determinate dal potere. In particolare lo sono quelle tra uomini e donne. Infibulazione, spose bambine, poligamia, stupri, molestie e uso della forza fisica tra le mura domestiche, sono la costante. Anzi sono spesso vissute, anche dalle vittime, come forme educative necessarie. Queste società non hanno conosciuto, ovviamente nessun 68, nemmeno un 48, molte sono persino ferme ad un livello pre rivoluzione industriale. Sarebbe il caso di dire che il femminismo si sia fermato ad Eboli. Stando così le cose l'integrazione di queste persone nelle società occidentali risulta, di fatto, impossibile. Se i numero fossero restati bassi (ma abbiamo già ampiamente superato la soglia) si sarebbe potuto trattare queste persone, una per una, con percorsi di autonomia psicologica, crescita personale, consapevolizzazione, liberazione dalla violenza, sia agita che subita. Si sarebbe potuto. Invece si è assistito ad arruolamento nelle organizzazioni malavitose che parlano lo stesso linguaggio patriarcale violento. Schiavizzazione, criminalità, prostituzione. Insomma, se parliamo di Italia, dove ancora la lotta tra civiltà (relazioni libere dalla violenza) e inciviltà (patriarcato violento) era incerta, questi flussi migratori spostano drammaticamente la società verso funzionamenti dai quali iniziavamo a sentirci affrancati. Di qui la rabbia, e il rifiuto di far entrare ancora immigrazione proveniente da questi paesi. Gli unici che si felicitano di poter aver a che fare con queste persone, oltre agli sfruttatori economici, sono quelli che adorano mettersi in relazione con persone ultrabisognose: i caritatevoli, che si pasciono delle asimmetrie come i condor delle carogne. Quando, in realtà sappiamo che in queste asimmetrie nessuna relazione autentica può avere luogo.

Marco Carafoli sottolinea con toni forse aspri ma sentiti un tema centrale.
Accettare i migranti non può essere ridotto a una questione di puro umanitarismo. Anzi, un limite grave e forze fortemente autolesivo di certe posizioni della sinistra è di avere ridotto la questione a un problema solo umano e etico.
La questione etica è fondamentale e stiamo assistendo a una sua negazione molto diffusa. Ma l’etica, e qui Carafoli propone un punto fondamentale ci impone il riconoscimento dell’incontro nella diversità.
Il terrore che coglie alcuni di fronte al migrante è il terrore di una diversità irriducibile, che si esprime nella concezione della donna, dei rapporti familiari, del pensiero ribelle.
Ma l’incontro colla diversità, che pure è difficile, presuppone il riconoscimento della differenza, l’attenzione alla natura dell’altro, la conoscenza della sua storia. La concezione della donna non è la stessa in Africa e in Medio Oriente, le strutture familiari hanno forme diverse in culture diverse della nostra, ma anche diverse tra loro.
Questo lavoro di formazione e di informazione si fa per conoscere meglio il mondo non europeo? Quanto l’umanitarismo generico oscura questo realmente modo diverso di essere dell’altro? E quanto questa genericità dell’umanitarismo lascia aperta la strada a deriva odiosamente razzista e denigratoria in modo specifico?
Ma parliamo mai veramente dell’Africa e dei paesi mediorientali? Dei conflitti che pure sono presenti in loro tra tendenze occidentalizzanti e tendenze conservartici? Io credo che questi paesi soffrano spaventosamente non solo della povertà e delle dittature, ma di far parte di mondi dove lo scontro tra culture diverse attraversa ormai l’interno di questi paesi e non solo la linea tra Occidente e mondi non occidentali.
E infine, riconosciamo che certe violenze sono patrimonio purtroppo anche dell’Occidente, che spesso è lacerato tra proclamazione di valori sacrosanti e un’ipocrisia fattuale.
Il problema dei migranti non si ferma allo sbarco, che pure è necessario per evitare la barbarie dell’abbandono. Ma è tutto il percorso che va ripensato e riconsiderato alla luce di uno sforzo vero di incontro tra culture, colla difesa dei nostri principi (la libertà della donna, la lotta alle mutilazioni genitali femminili, la lotta al tribalismo) ma anche approfondimenti dei valori dei diversi (la loro spontaneità, una tendenza a rapporti più immediati e diretti, la loro storia).
E infine quanta di questa diversità non è situata anche dentro di noi ma andrebbe riconosciuta e noi soltanto espulsa dentro di loro?
Anche Di Petta sottolinea acutamente questo punto.
L’incontro coll’altro presuppone pazienza, ascolto e scambio vero di formazione e informazione.
È come tutto il rapporto colle minoranze che presuppone un’attenzione e una paziente opera di scambio.
L’occidente ha bisogno del mondo non occidentale, come il mondo non occidentale ha bisogno dell’occidentale. E non solo per motivi economici.
La nostra cultura si impoverisce in una protezione aspecifica dei nostri privilegi se non si apre e la cultura del mondo non occidentale si chiude in una difesa cieca del mondo perduto.

È doveroso rispondere alla domanda di Antonello Correale
sull’indifferenza strisciante che riguarda “ i nuovi ‘reietti’ di questo mondo”

Rimuovere ciò che esiste, ciò che è evidente a tutti non conduce a nessun bene.
Freud spiegó come il rimosso ritorni e la negazione, sia un tratto tipico della psicosi.
Ricoeur sostiene che se il male fosse comprensibile non sarebbe più il male, mentre Dostoevskij nell’ “Idiota” afferma quanto ai sia difficile rappresentare una persona buona.

Spesso cerchiamo istintivamente di negarlo, ma è parte ineludibile dell’essere umano. Forse se non lo si negasse e lo si elaborasse profondamente potrebbe essere compreso e modulato.
Il processo culturale di negazione e rimozione degli aspetti e sentimenti negativi favorisce invece il mascheramento e l’emersione improvvisa, a volte smisurata, di questi aspetti.
Occorre un bersaglio ( a volte anche no ) e la società lo costruisce doverosamente. Potremmo paragonare la società umana a un enorme termitaio come spiega Egène N. Marais in “ L’anima della formica Bianca “.
“ In realtà tra la “ coesione “ degli Insetti comunitari e la società dell’uomo si apre tutto l’abuso che divide la piuttosto elementare organizzazione del sistema nervoso dei primi e il conseguente comportamento rigidissimo, soecializzatissimo, eteronomo, immutabile ( su una scala di esempi che è la nostra ) dalla complessissima organizzazione del sistema nervoso del secondo, con il suo conseguente plasticissimo, autonomo comportamento, in parte del tutto imprevedibile e imprevisto e, in certe sue componenti, ma non in altre, mutante a ritmo vertiginoso: la vita psichica dell’uomo riassume in Sè, a livelli assai vari e con valori e ritmi impulsori diversissimi, strutture psichiche che vanno quasi da quelle più arcaiche nella scala filogenetica a quelle più recenti e solo nell’uomo attuate; sicché la coordinazione non è sempre perfetta, neppure ottimale.” ( Gastone Pettenati )
La proiezione - o spostamento - si può annoverare tra i più arcaici strumenti difensivi psichici umani. Con il saggio freudiano
“ Al di là del Principio del Piacere” e tutte le elaborazioni conseguenti la psicoanalisi guardò ai desideri come mai era stato fatto.
Freud formula il conflitto psicologico in termini dualistici fin dai suoi primi scritti, ma è solo in questo testo che egli presenta un simile conflitto mediante concetti desunti dal pensiero di Empedocle, il quale parla d'un dissidio cosmico fra i princìpi o forze di Amore (o Amicizia) e Odio (o Discordia).

Freud partiva dal concetto della coazione a ripetere del bambino e del dolore nelle nevrosi di guerra. Queste posizioni hanno profondamente influito su tutta la cultura occidentale.
La coazione a ripetere, il ritornare nel punto del dolore
si distingue, per il proprio carattere coercitivo, dalla ripetizione che caratterizza molti passaggi della vita biologica e psicologica.
Freud osservò che il proprio nipotino di un anno e mezzo, invece di piangere quando la madre si allontanava, giocava facendo rotolare lontano un rocchetto che poteva richiamare a sé tirando il filo che vi era avvolto. Il bambino, mettendo in scena l’atto dello scomparire e del riapparire del rocchetto, riusciva a tollerare la separazione e, contemporaneamente, si vendicava della madre allontanando egli stesso il rocchetto
Il funzionamento psichico è caratterizzato da un conflitto tra la pulsione di vita (Eros) e la silenziosa pulsione di morte (Thanatos), che deriva dal bisogno di tutti gli organismi di ritornare allo stato iniziale, inorganico. Entrambe le pulsioni hanno un carattere conservatore: Thanatos utilizza la ripetizione per ripristinare lo stato di quiete continuamente turbato dai processi vitali che si succedono sotto la spinta di Eros, mentre quest’ultima assicura la continuità e la continuazione della vita.
La coazione a ripetere sarebbe quindi l’equivalente psichico dei fenomeni biologici dominati dall’intento di Thanatos di annullare le tensioni che accompagnano qualunque cambiamento.
La pulsione di morte è la distruzione dell'individuo, ma si può esprimere anche in modi più pacati come nella coazione a ripetere. La coazione a ripetere è il fenomeno per il quale l'individuo continua a ripetere un'azione dalle conseguenze spiacevoli e negative.
Freud osservò questo meccanismo per la prima volta nelle nevrosi e inizialmente lo classificò come una manifestazione della censura.
La riscoperta dell'istinto di morte permette una nuova lettura: la coazione a ripetere è espressione del desiderio di giungere alla distruzione cioè a quello stato di non vita da cui originiamo
Il concetto di pulsione di morte compare nel 1920 e rivoluziona l’intera teoria delle pulsioni.
In “ Al di là del principio di piacere “ convergono almeno due intenti: riconfermare il principio fondamentale della psicoanalisi della tendenza allo zero; e quello di dare una struttura metapsicologica alle scoperte, sempre più numerose, sull’aggressività e la distruttività. Tuttavia l’aspetto più innovativo sembra legarsi all’idea che l’aggressività sia inizialmente rivolta verso il soggetto, prima di essere deviata verso l’esterno. Il “soggetto” viene inteso in tutti i suoi aspetti: sia quello elementare biologico, addirittura monocellulare, sia quello psichico. Le pulsioni di morte si inquadrano in un nuovo dualismo in cui si oppongono alle pulsioni di vita (Eros).

Nel lavoro Il disagio della civiltà, che è del 1929, Freud infatti scrive:
“ Il passo seguente lo feci in Al di là del principio di piacere (1920), quando fermai l’attenzione per la prima volta sulla coazione a ripetere e sul carattere conservativo della vita pulsionale. Partendo da speculazioni sull’origine della vita e da paralleli biologici, trassi la conclusione che, oltre alla pulsione a conservare lo sostanza vivente e a legarla in unità sempre più vaste, dovesse esistere un’altra pulsione, ad essa opposta, che mirava a dissolvere queste unità e a ricondurle allo stato primordiale inorganico. Dunque, oltre a Eros, una pulsione di morte; la loro azione comune o contrastante avrebbe permesso di spiegare i fenomeni della vita “. (pp. 605 sg.).

Manuela Iona

Manuela Iona ci invita a riconoscere coraggiosamente che la distruttività è una parte radicale e non accidentale o occasionale dell’essere umano. Thanatos (la pulsione di morte) agisce come forza slegante, frammentata, che riduce in pezzi l’unità dell’essere biologico. Dobbiamo essere sempre vigili sulla sua azione che spesso è muta e nascosta e agisce, per così dire, di soppiatto.
Il tema quindi diventa non tanto se siamo, come esseri umani, buoni o cattivi, ma: quali sono le condizioni sociali che attivano la forza distruttiva? E quali sono le condizioni sociali che favoriscono lo sviluppo di Eros? Che cosa è successo nella nostra società occidentale per cui le forze leganti sono più sotto scacco di quelle sleganti? Perché disinvestire è più facile e semplice che investire? E che prezzo pagheremo per questa deprivazione erotica? Non solo per coloro che ne saranno vittime, ma per noi stessi?

Caro prof. Correale, l’invito a rispondere alla domanda “che cosa è successo?” è come un auto lanciata ad alta velocità e noi possiamo scegliere di scansarci o farci travolgere a rischio di lasciarci le penne. Io che sono un coetaneo degli attuali leader politici e di quelli che ci hanno preceduto, sento forte, anche se pubblicamente non ho mai espresso le mie opinioni a riguardo, di dover provare a dire la mia. La sua analisi ci invita a riflettere sullo “stato anestetico” in cui ci ritroviamo, spinti da “quello di mio che non vorrei vedere”. Sposo a pieno questa sua sintesi sul cosa sia successo, ma: come è potuto accadere?
Ho riletto quanto scritto da lei ed i commenti, il turbamento per quanto, a questo punto, già sta succedendo, ci accomuna. I precedenti storici sembrano passare inosservati. Ma io cosa ho fatto per far sì che questo sia potuto succedere? Mi sono voltato dall’altra parte quando ho incontrato il dolore dell’altro? Dopo essermi commosso ho cambiato argomento? Sono queste le domande che mi attraversano in questo momento, che mi invitano a fare autocritica sul mio stare nel mondo.
Da operatore psy mi accorgo anche che questo alone di indifferenza si muove tra le corsie della sofferenza, sembra quasi che lo sguardo si sia spostato verso una sorta di sofferenza intesa come dato e che l’uomo che la porta lo si mette tra parentesi.
È l’uomo che abbiamo dimenticato, che abbiamo rimosso, che abbiamo negato? Come è potuto succedere?
Oggi mi ha lasciato un messaggio vocale Salem, un ragazzo senegalese da 10 anni in Italia, da bambino la poliomielite gli ha lasciato un braccio offeso, solo da qualche mese è riuscito ad avere il permesso di soggiorno, mi chiedeva di poterlo incontrare. L’ho conosciuto durante un incontro domiciliare a casa di un paziente schizofrenico, non conosceva bene e ancora non lo parla bene l’italiano, ma è stato tra i pochi a riuscire ad entrare in contatto con Ivan. Vuole rendersi utile e vuole sapere come e cosa poter fare. Sicuramente lo incontrerò e continuerà ad essere una risorsa umana nel delicato processo terapeutico. Certo questa è una bella storia, in cui mi ci ritrovo dentro, ma mi continuo a dire che questo non è abbastanza.
Nel tentare di dare una risposta al come è potuto accadere, mi viene da dire che è come se avessimo perso di vista l’umano, come se ci fosse stato inoculato un anestetico che ci toglie la vista. Ma ad un certo punto ci possiamo anche svegliare, e credo che le parole di Correale siano proprio un antidoto: quello che ci ri-permette di porci domande, di ri-tornare a vedere, ma aggiungerei a ri-vedere, innanzitutto e perlopiù, noi stessi ed il nostro modo di porci dinnanzi all’umano.

Giuseppe Ceparano ci ricorda la cecità. Diventare ciechi non significa solo negare o voltarsi dall’altra parte, ma voler vedere solo qualcosa e non tutto un campo di osservazione. Direi, sull’onda delle sue parole, che siamo vittime tutti di una cecità selettiva, alimentata ad arte da una forte corrente dei mass media.
La cecità selettiva è il frutto di una idealizzazione eccessiva, che ci porta a non cogliere la totalità del fenomeno umano.
E qui si pone un problema gigantesco. Democrazia significa solo ascoltare le masse, o significa parlare tutti insieme, per far vedere quanto si perde a non vedere qualcosa che invece ci chiede di essere visto.
Dobbiamo arrenderci ai grandi movimenti, inseguirli o non piuttosto interpretarli e cercare risposta?
E la psicoanalisi, come scienze dell’umano, e degli aspetti segreti dell’umano, può parlare a un pubblico così vasto? Può parlarci di etica, senza contraddirsi, non di regole o di leggi, ma di un’etica di fondo dell’essere umano?
Su questa domanda si può ritornare leggendo l’intervento di Stefano De Luca: che cosa diventeranno i bambini separati dai genitori, i minori non accompagnati, le persone separate per anni dalle loro famiglie, le persone costrette a una vita elementare, dove i bisogni primari e solo loro sono molto approssimativamente soddisfatti?

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Grazie per ciò che farete, grazie dell’attenzione.

Grazie ad Antonello Correale per questa lettera e per avere rotto il ghiaccio per una sensibilità che sembra riguardare i pochi, rispetto ad una maggioranza di persone che sono come vengono descritte nell'articolo. Questa aria "nuova" che si avverte nella società in cui viviamo, mi suscita un senso di isolamento ed impotenza, e pertanto ho apprezzato ancora di più questa lettera, seppur resta la sensazione che restiamo comunque una "schiacciata" minoranza. Già come psichiatri dobbiamo da sempre affrontare lo stigma nei confronti dei nostri pazienti, ora avvertiamo addirittura l'odio verso queste persone. La difficoltà e l'imbarazzo sono anche legate all'essere costretti ad appartenere ad una società che avverti distante sul piano etico-culturale. Il quesito che pone Antonello, è fondamentale, intanto quali possibili scenari futuri dovremo affrontare in termini di esiti, ma anche perché con questa società, chiamiamola dell'odio, dovremo comunque fare i conti, perché nel dover tutelare la salute mentale delle nostre comunità, dovremo farlo assieme a politici, amministratori locali e alla società civile nel suo complesso. La cosa poi che mi colpisce di più è che nell'ambito del mio lavoro quotidiano, mantengo rapporti continui con politici ed amministratori portatori di questo sentire ( lavoro in Veneto), ed anche in occasione delle riunioni dei piani di zona, non avverto questo clima di odio, anzi in tutte le occasioni in cui si è dovuto intervenire verso pazienti psichiatrici stranieri, regolari e non, ho trovato quasi sempre collaborazione per non dire solidarietà; atteggiamento che cambia radicalmente nel momento in cui prevale l'aspetto comunicativo e della rappresentazione. Quanto a cosa sia successo, e ai meccanismi che stanno dietro a questo clima si possono formulare varie ipotesi: rimozione, regressione narcisistica, prevalenza dell'istinto di morte ! Certamente come afferma Antonello Correale si avverte questo bisogno di prendere le distanze da quello di cui si ha paura, cioè la miseria, ma questo vale per chi possiede qualcosa. Poi ci sono i poveri, magari lo sono meno dei migranti, ma temono di non poter migliorare la loro condizione per colpa dei più poveri, ed in questo un ruolo fondamentale, consapevole o meno, l'ha avuto l'informazione, penetrata in maniera dirompente in persone che per ragioni varie, povertà inclusa, non sono dotati di filtri culturali sufficienti ad effettuare un adeguato esame di realtà. C'è inoltre un clima di malessere collettivo ( più psichico-esistenziale che per ragioni materiali) per cui si avverte una forte necessità di cambiamento a qualsiasi costo, anche a quello di poter trovarsi peggio di prima, che limita fortemente la riflessione, identificando e idolatrando chi propone soluzioni facili e immediate per problemi difficili e non risolvibili a breve distanza. C'è poi chi sta lucrando e approfittando di questo clima, naturalmente. Ho la sensazione che dovremo cercare più verso una dimensione collettiva, che rispetto all'intrapsichico.

Vincenzo Cesario sottolinea un punto di fondamentale importanza e cioè lo scarto tra dimensione individuale e dimensione collettiva. A questo proposito egli cita un punto molto sensibile e cioè il rapporto con soggetti portatori di disturbi psichici.
Quando è presente un rapporto individuale si accentuano sentimenti di solidarietà e accettazione. Quando prevalgono aspetti collettivi può verificarsi che un’onda emotiva travolga le coscienze e induca a una semplificazione banalizzante. Impossibile non pensare agli assunti di base (e al più diffuso tra essi, quello di attacco-fuga) e alla concezione della massa e ai processi di massificazione secondo Freud.
Insomma l’informazione rispecchia o, invece, cavalca, stimola, induce processi di massificazione?
L’attivazione sensoriale eccessiva, lo stimolo emotivo, la reazione extra-pensiero, il preferire a ciò che si vuole pensare a ciò che è vero, non fanno parte di questo processo?
Un altro merito di Vincenzo Cesario è di avere messo a confronto il problema dei migranti con quello dei portatori di disturbi psichici: queste minoranze deboli e impoverite (ma anche i tanti poveri italiani!) sono destinate a combattersi tra loro? Non è orrore su orrore che i più deboli si combattano tra loro?

Grazie davvero di cuore, intanto, Antonello e Rossella, per avere rotto il silenzio su un fenomeno che ci lascia imbarazzati e attoniti; avete ragione: l'anestesia, o la paralisi. Sono anni ormai che uomini donne e bambini in fuga da quell'inferno che il colonialismo ha reso l'Africa annegano sotto i nostri occhi, e noi non avvertiamo il bisogno, in primo luogo, di soccorrerli. I nostri governanti non si fanno scrupoli di riconsegnarli a quell'inferno nell'inferno che la nostra guerra ha reso la Libia, di rendere sempre più difficile il fatto che possano essere soccorsi, negano l'approdo alle navi che nonostante tutto questo tra mille difficoltà che sono le stesse dai tempi di Ulisse li hanno ripescati; e le piazze non si riempiono di sana, solidale protesta. Tutto tace. Anestesia. E' giusto interrogarvi/ci. E' che il mondo, credo, è cambiato, drammaticamente, giorno per giorno, in questi ultimi quarant'anni che sono poi quelli della mia vita adulta, e non ci rendiamo conto di quanto in profondità questo ci abbia cambiato. Che l'europeo tratti in modo disumano l'africano non è cosa nuova, certamente: i crimini della storia coloniale e dello schiavismo, che non hanno nulla di meno atroce di quelli commessi dal "nazi infame", lo testimoniano. Né questi crimini erano cessati con il '45, quando il mondo è uscito dalla più spaventosa delle guerre fino allora combattute con l'esplosione nucleare; solo, dopo il '45, eravamo abituati che ai crimini perpetuati dai governanti corrispondesse il dissenso, più o meno robusto, nell'opinione pubblica e tra gli intellettuali. Si riempivano le piazze. Non c'era anestesia. E dopo i magici anni '60, dopo il '68, le piazze si sono assunte ancor più il compito di esprimere il rimorso per il male che l'occidente faceva al sud del mondo. L'onda lunga del '45, ravvivata nel '68, si è spenta nel corso degli anni '80. Un giorno dopo l'altro, silenziosamente ma inesorabilmente, il mondo è cambiato, molti fattori hanno concorso. E in Italia in particolare, dove l'idea comunista era più robustamente insediata che nel resto dell'occidente, sono comparsi nuovi politici, politologi, sputasentenze vari per i quali era sempre meno imbarazzante essere maleducato, prepotente, cattivo. Anzi, non bucavi lo schermo a non esserlo. Si è cominciato a sbraitare in TV, non si è più parlato. E Salvini non è che l'ultimo di questi personaggi. Hanno aperto nuovi giornali, di destra; e hanno cominciato a chiudere storici giornali, di sinistra. Si sono, in breve, affermati, credo, due dogmi, ed è difficile dire quanto abbia concorso a questo il fatto che così girava il mondo, e quanto abbia specificamente pesato, per l'italia, l'operazione politico-cultural-imprenditoriale di reinventare una destra là dove la destra si vergognava, dopo il '45, di esistere. Io credo che i due dogmi, per farla breve, sian questi:

1. UN ALTRO MONDO NON E' POSSIBILE. Questo mondo, con le sue diseguaglianze, le ingiustizie, le ferocie è il solo mondo possibile, e in esso devi rassegnarti a cercare di sopravvivere individualmente, a partire dal posto, bello o brutto, in cui ti è stato dato in sorte di nascere.
2. LA BONTA' NON E' PIU' UNA VIRTU'. O, se preferiamo, la bontà può anche rimanere una virtù, ma adeguare la propria esistenza alla virtù non è un'esigenza per l'uomo moderno. Così abbiamo scoperto che la bontà ridefinita "buonismo" - con un neologismo tutt'altro che innocente che qualcuno deve pur aver introdotto e promosso in un certo momento e a un qualche scopo - è oggi per l'uomo sano la più imperdonabile delle ingenuità (e temo che certo laicismo di sinistra e certo psicanalismo di maniera, qualche responsabilità in questo passaggio l'abbiano avuta).

Tutto ciò, insomma, per dire che forse soltanto se saremo in grado di scuotere con le armi della cultura la resistenza di questi due dogmi che paiono oggi inamovibili, potremo liberarci noi per primi - e aiutare poi altri a liberarsi - da questo stato che è difficile dire per quanti sia anestesia, e per quanti sofferta paralisi, di fronte al sangue e alle lacrime dell'essere umano oppresso.

Vorrei rispondere alle accorate parole di Paolo Peloso ricordando il modo con cui Freud rispose a Einstein nel carteggio dal titolo “Perché la guerra?”
Freud dice che la violenza è impossibile da battere del tutto, è una tentazione troppo grande per soddisfare narcisismo e potere, ma la sua risposta (troppo ingenua?) fu: l’unica cosa da fare è aumentare la quota di Eros circolante (come già accennato in parte nella risposta a Paola Binetti).
Ma che c’entra l’Eros col buonismo? Niente! Eros è incontro coll’altro, riconoscimento della presenza e della diversità, accettazione del conflitto (non della violenza!), fatica dell’incontro, rinuncia parziale al proprio narcisismo, riconoscimento delle tremende differenze presenti nel mondo.
Io sono convinto che la stessa caduta di Eros che c’è verso i migranti sussista anche fra noi, italiani e non. Questo allora è la domanda che dobbiamo porci dopo quella sull’anestesia. Dove è finita la nostra capacità di guardare, osservare, ascoltare, i migranti ma anche gli altri italiani e europei, poveri e non?
I mass media tendono a propagandare a piene mani una ideologia prevalente, quella del piacere e l’ammirazione per chi se lo procura. È questo il nostro punto debole? Ancora Rossella Valdrè ci invita a riflettere sul desiderio e molti psicoanalisti oltre a lei, specialmente freudiani e lacaniani hanno sottolineato questo punto.

probabilmente, Paolo, la bontà non è più una virtù poichè in effetti è stata ammorbata dal buonismo da salotto che di danni ne ha fatto in abbondanza per me.
Ma esiste ancora un termine che io riporterei prepotentemente in auge che permea da cima a fondo il contributo di Antonello e pure il tuo commento ed è la PIETAS che davvero ha perso non ragion d'essere ma ragion di prevalere in questa società, non dimenticandoci che per i Romani era un dovere

Io, te lo dico francamente Francesco, non comincerei subito col complicare le cose. Se sulla bontà siamo d'accordo allora non abbiamo paura a chiamarla col suo nome; che sia "bontà" perché mi pare più chiaro, senza troppi se, ma e distinguo. Quanto al buonismo da salotto non capisco bene a cosa ti riferisci; conosco la bontà fatta di sudore, fatica, rabbia invece per le strade, del nord e del sud del mondo, che a volte si è dovuta anche sporcare le mani di sangue perché è diventato indispensabile, e che molto più spesso è stato per molti necessario pagare col proprio sangue. Penso che la bontà non sia più una virtù almeno in parte perché, evidentemente, a qualcuno è convenuto che non fosse più una virtù. E poi perché la bontà è faticosa, ed è un lusso che non ci si può permettere gratis.

Un grazie profondo a Rossella Valdrè. Purtroppo un atteggiamento di distacco, se non indifferenza, è diffuso anche in ambito psi. Tra i colleghi è comune ad esempio trovare più indignazione per i governi che per il genocidio a cui stiamo assistendo. Anche l’aiuto, sotto forma ad esempio di raccolta fondi per una missione umanitaria (mi è capitato) è trattato con freddezza. In sostanza l’azione, che dovrebbe seguire alle analisi, non è giudicata pertinente.
Venendo all’analisi che proponi, che condivido, aggiungerei come concausa il senso di impotenza, a cui si reagisce con un atto di potenza sotto forma di respingimento dei migranti e la caduta dei “depositari”, spesso citata da Silvia Amati Sas, nel nostro caso il crollo dei grandi partiti politici (PCI, Democrazia Cristiana), a cui si dava delega in bianco. I depositari fungevano da contenitori e organizzatori dei sentimenti più primitivi.

Grazie Maria Teresa per l'apprezzamento. Sono d'accordo sul venire a mancare, o perlomeno diminuire, anche 'depositari' della Amati Sas e di Bleger, ma non si poteva scrivere tutto. Griglie di lettura non mancano; risposte, invece sì. E' vero, l'impotenza inconsciamente si traduce per formazione reattiva nel suo odioso opposto, l'arroganza e la 'potenza'. Credo che, anche al di là del tema in oggetto e riferito alla società in generale (almeno nostra, ne esistono di più vitali) l'assenza di desiderio sia il veleno più pernicioso. Non c'è vita senza desiderio. Investire è pericoloso, può far soffire, ma senza investimenti la vita è una landa desolata. Grandi contenitori, grandi narrazioni sono venuti meno, e oggi si asssiste a mio avviso a una sorta di classismo di ritorno, per cui solo in certi ambiti, in certe élite si pensa e si discute e si desidera; la maggior parte delle persone sono sole nelle sicurezze che sono riucite a darsi. Responsabiltà che qui ho chiamato Etica non è parola tanto di moda, e tutti questi fenomeni sono connessi. Perchè ciò che è specificamente umano è assumersi la responsabiltà del proprio desiderio.
Al di fuori di questo, la negazione e la proiezione sono a portata di mano; non solo i profughi, ma qualunque altertà mette in crisi. Può darsi che siano cicli storici...
un saluto
Rossella

Caro Antonello, la tua lettera squarcia un silenzio colpevole, rispetto al quale noi psy dovremmo prendere una posizione ufficiale, proprio perchè, per il nostro lavoro, siamo più vicini alle questioni del dolore, del trauma, e delle sue conseguenze. La coscienza europea alla quale tu ti appelli ha da tempo, o da sempre, mostrato le sue falle. Dilaniata da due orribili conflitti mondiali, che hanno lasciato a terra milioni di morti civili e militari, città distrutte e culture annientate, l'Europa sembra, come dici tu, annichilita o anestetizzata di fronte a questa epica tragedia che si riversa sulle sue coste. Che risale le sue terre. L'incapacità ad accogliere e a farsi carico di chi sbarca si riflette retroattivamente sul desiderio di espulsione e di repulsione. La classe dirigente, con la sua insipienza, ha lasciato ai più poveri il rancore contro i più miserabili. Se non avessimo più delle forze dell'ordine, non mi stupirei se le navi dei disperati venissero attaccate con ogni mezzo dalla popolazione locale. Se può essere utile, aggiungerei alle tue riflessioni spinose un parallelismo storico : la persecuzione degli ebrei. Non solo nella Germania nazista, sotto la pressione dello Stato (Stato etico egheliano) gli ebrei vennero catturati e deportati, ma ciò accadde anche nella Francia occupata di Vichy, per ben 5 anni (dal 1940 al 1945) e in Italia a partire dal 1938, dopo la promulgazione delle leggi razziali. In riferimento ai fatti di allora non possiamo parlare di incultura, di inconsistenza della classe media, di ignoranza, di xenofobia, di contaminazione. Gli ebrei erano perfettamente integrati nel tessuto produttivo, a differenza dei migranti. Anzi, forse erano più integrati di tanti altri. Fu sconvolgente il dispositivo della delazione. Moltissime persone, in Germania, in Francia e in Italia, si comportarono da delatori, segnalando alle autorità, dietro compenso, un nascondiglio, un vicino di casa, un bambino. Spesso appropriandosi dei beni o delle case lasciate dalle famiglie smembrate e deportate. A volte appropriandosi della cattedra universitaria lasciata scoperta dal docente denunciato. Il padre di Anna Frank si vide rifiutare mille volte il cvisto per emigrare in quello stesso Paese che avrebbe di li a poco mandato i propri ragazzi a morire sulle spiagge della Normandia. In quegli anni gli Stati Uniti bloccarono gli immigrati oltre la cifra di 30.000 annui. Oggi alle stazioni ferroviarie delle città europee un cippo segnala il binario da dove partivano i treni piombati. Fuori alle scuole, agli asili, sulle mattonelle davanti alle case, scritte e date ricordano, per chi ha cuore, curiosità e memoria, quanto accadde. Gli ebrei da integrati divennero migranti della morte. Nella anestesia, come dici tu, di una intera società, connivente con il potere politico, delatrice, indifferente e compartecipe. Credo che questo non sia mai stato del tutto elaborato. Il nazifascismo ha portato con sè la colpa dell'olocausto. Il padre di famiglia che ha scovato l'ebreo, che si è trasformato da cittadino in cacciatore di taglie, non ha mai dovuto rendere conto di quanto ha fatto. Perfino nella deportazione avvenuta nel ghetto di Roma, l'azione dei delatori fu consistente. Se abbiamo fatto questo all'epoca, non mi meraviglio di ciò che facciamo oggi. O di ciò che non facciamo, che è lo stesso. Lunedì notte nell'SPDC di Sessa Aurunca, a pochi chilometri da dove ti scrivo, un nero drogato e agitato ha ucciso selvaggiamente un anziano ricoverato. Questo è quello che supera, nella coscienza popolare, anche la pietas per i bambini annegati. Questo è quello che rimane. Da dove ti scrivo siamo vicini ad un tratto di costa, da Licola a Gaeta, dove una popolazione di decine e decine di migliaia di migranti vive in condizioni abnormi, prostituendosi o spacciando, o arrangiandosi, dormendo in case abusive occupate anche in 20 per stanza. Dove lo Stato non interviene, il popolo forcaiolo inneggia alla violenza privata come risposta alla minaccia percepita. David, uno dei ragazzi della nostra Scuola, mi ha portato in supervisione il caso di un trentenne professore di francese del Ghana che con il braccio offeso da un proiettile di AK-47, vive stivato in un centro di accoglienza a Bologna. Sono convnto che molte di queste persone potrebbero dare al nostro Occidente anestetizzato ed eutanasico una nuova linfa, una nuova spinta. Proprio come dal contatto tra le invasioni barbariche e il decadente impero romano venne fuori il medioevo, culla della civiltà rinascimentale e moderna. Credo che un lavoro in questo senso possa aiutarci tutti. Grazie di cuore.

Anch'io credo sia un grande e collettivo processo di rimozione....della paura, dell'angoscia di diventare come "quelli" i disperati...tutti i disperati....favorito dalla mancanza ormai da anni di valori di giustizia sociale e di solidarietà e dalla mancanza soprattutto di organizzazioni come i partiti, la politica che non fa più cultura di questo tipo, non rappresenta e non veicola più questi valori....la non rappresentatività di questi organismi, l'incapacità del collettivo, il pensiero comune ormai da anni che il singolo, l'individuo vale più del collettivo e che se non ce la fa dipende da lui e comunque va allontanato, meglio non vederlo....affari suoi....l'ignoranza che tutto questo ha prodotto per anni....una crisi economica che ha ormai abbrutito anche la classe media....la grande e sempre maggiore disparità economica...la mancanza di sicurezze....tutte cose che portano al bisogno appunto di normalizzazione, di separare, non vedere, addormentarsi e cullarsi nella "normalità". Con l' illusione di essere salvati da questa anche se crea un tempo i manicomi, un altro i lager...e ancora i tanti tanti morti in mare...e ancora nuovi lager.....nuovi olocausti..La banalità del male....appunto....

A Paola Binetti vorrei rispondere ringraziandola. Forse più ancora di rimozione (cacciare qualcosa nell’inconscio e sforzarsi di non ricordarla) parlerei di negazione, il meccanismo di difesa per cui si vede qualcosa e si dice che non si è visto nulla. Oppure si è visto, la si riconosce, ma non gli si accorda nessuna importanza.
È vero anche quello che lei dice: le rappresentanze politiche hanno permesso in qualche modo una spaventosa frammentazione, in cui il particolare domina sul collettivo. La difesa del proprio spazio diventa dominante.
Ma a che cosa far ricorso per combattere questa deriva se non sul potere di Eros, il grande elemento unificatore del nostro mondo, la forza che spinge a legare e non a slegare, come nota Rossella Valdrè nel suo bellissimo commento?
Veramente in un certo pensiero di massa si è persa la fiducia in Eros e ci si affida al potere Thanatos, della rabbia protettiva, della chiusura spaventata?
Ma quanto pagheremo questo sacrificio della parte erotica della nostra vita?
Sono ben consapevole che ci sono forti motivi di realtà alla base di questa profonda insoddisfazione collettiva, che non basta certamente l’eros da solo per risanare certe piaghe: la politica deve fare la sua parte. Ma sarebbe molto grave se non si cogliesse questa profonda modica della cultura di base circolante.

Si usa ripetere in modo acritico, specialmente in Italia dopo la resistibile ascesa dei cinquestelle, che non c’è più destra e sinistra. Certo, non c’è più la destra fascista o la sinistra bolscevica dei tempi che furono, ma rimane al fondo la dicotomia tragica individuata da Bobbio: a destra i valori della legalità e della sicurezza locale, a sinistra gli ideali della giustizia e dell’innovazione sociale.
L’anestesia di cui con accenti commoventi parla Antonello Correale è anestesia (a sinistra) alla giustizia e all’innovazione sociale, corroborata da un eccesso di estesia (a destra) per la legalità e la sicurezza locale. Insomma, siamo di fronte a questa sconfortante vicenda politica, non solo italiana, interpretabile in termini medici con questa diagnosi: anestesia a sinistra, iperestesia a destra. Quando si dice che destra e sinistra non esistono più si ignora (anche a sinistra!) che la sinistra è stata anestetizzata (da sé stessa!).

Antonello Sciacchitano molto acutamente parla di anestesia della sinistra e iperestesia della destra. È certamente vero. A sinistra sono stati lasciati cadere alcuni temi, come quello dei diritti umani dei migranti e della parte più sfortunata della popolazione, sono state insomma lasciate sguarnite delle aree molto sensibili. Ma questo sguarnire, questo trascurare ha lasciato un’area beante, che è stata riempita da una destra molto violenta verbalmente e intollerante.
Insomma il lutto non è stato elaborato ed è stato riempito dall’ostilità e dalla rabbia.
Aggiungerei che anche l’area dei mass media è stata trascurata. Le voci della difesa dei diritti umani sono poche e timide (a parte l’importante eccezion di molti cattolici) mentre le voci della intolleranza e della rabbia sono diffusissime e martellanti.
Perché tanta timidezza di fronte ad un pensiero che tende a massificarsi? Perché non far circolare più idee, difendere più a spada tratta quello in cui crediamo? Perché dare per inevitabile che il pensiero massificato sia destinato e soccombere a idee intolleranti e repulsive?
Non è facile contestare l’elaborazione rabbiosa del lutto, lo so, ma se non ci si prova nemmeno…

Rispondo tardi, ma credo che per queste cose, per questo tipo di lettere e di appelli di genuino sdegno civile e di preoccupazione etica come quella di A.Correale,non si sia mai fuori tempo massimo. Da luglio ad oggi si è assistito all’esercizio muscolare di negazione di molti principi di semplice umanità. Lasciamo stare il buonismo, qui sono in gioco principi etici di diritto all’esistenza di fronte ai quali mi sembra crudelmente cretino sollevare qualsiasi eccezione. L’ultimo esempio è la “chiusura” dell’esperienza di Riace che era modello di nuova e possibile convivenza non solo a Riace ma in tutta Italia ed Europa.
Allora la mia domanda è: quanto questa idea asfittica di chiusura, questo perenne stato paranoide di sospetto, paura e il correlativo bisogno di una sicurezza sempre più armata e aggressiva, non influisca sullo stato mentale, sulla salute di tutti. Ci siamo già abituati all’intercambiabilità del senso delle parole, allo sconvolgimento del principio di realtà sempre più orientato verso il percepito a scapito dell’oggettivo (dalla temperatura ai dati statistici sull’entità di un’invasione).
Perché la psichiatria non pensa di dover dire qualcosa di pubblicamente rilevante anche dal punto di vista delle sue istituzioni?
Sono psichiatra nel servizio pubblico da più di trent'anni, ormai prossimo alla pensione e in questi tempi di empietà, tempi che durano da troppo tempo, ma che adesso sembrano trovare addirittura una cornice istituzionale, mi sono interrogato su quanto questa realtà incida sul nostro modo di funzionare. Mentalmente intendo. Quali meccanismi di difesa mettiamo prevalentemente in atto. Quali sensi utilizziamo di più e quali stiamo sacrificando. Stiamo cambiando il nostro Ethos? Sta cambiando il nostro apparato per pensare (pensiamo alla tirannia degli smartphone e quanto stiano cambiando le nostre prestazioni cognitive di attenzione, concentrazione e memoria)? Correale parla di anestesia, uno stato di sopore. Quanto questo clima di cattiveria, di insofferenza ed indifferenza influisca sulla mente di tutti, pazienti e no. I comportamenti sono già cambiati, i toni accesi in TV, l’odio sdoganato come un “parliamoci chiaro”, la nomofobia , la socialità ridotta a chat e gruppi WhatsApp, la brutalità dei comportamenti nel traffico e così all’infinito
Ho un senso di pudore ad esternare quelle che sembrano ormai a molti, delle patetiche geremiadi, lamentazioni dal sapore apocalittico. Qualche settimana fa, di getto avevo scritto, senza aver letto nulla della lettera di A.Correale, qualche spunto di riflessione da proporre ad un gruppo di appassionati operatori del mondo psi che si raccoglie a Milano attorno a Corrado Pontalti. Il testo era questo:

"I rapidi mutamenti sociali, socio-politici, più o meno silenziosamente esercitano pressioni sul nostro modo di funzionare. In questi ultimi mesi sono stati rimessi in discussione “fondamentali” diritti d'esistenza, sopravvivenza, umanità, che credo scavino profondissimi solchi, dividendoci forse senza che neppure ce ne si accorga. Un appello torna sempre più spesso”restiamo umani”.
Ultimamente, che lo si voglia o no, sembra esserci da parte della società nel suo complesso, una richiesta di schierarsi. Da terapeuti non è facile mantenere la neutralità, e forse non é neppure più giusto. C'è un rinquietante clima da “guerra civile”. Crollano ponti, si erigono nuovi muri, si stendono recinti di filo spinato, si picchiano gli stranieri per strada, li si insulta, li si minaccia. Sul fronte dell'educazione i genitori prendono a schiaffi gli insegnanti dei propri figli. Forse ci stiamo già abituando, forse crediamo per davvero che questa sia la realtà, che così è giusto debba essere.
Sono troppi i temi eticamente sensibili messi in gioco tutti in una sola volta (lavoro, educazione diritti civili, salute e ne tralascio molti) e che possono lacerare il tessuto sociale.
Non c'è più confronto ma solo scontro tra stili di vita, tra modalità differenti di essere e di stare al mondo, di percepire e di attribuire valore alle cose. La qualità della nostra convivenza è peggiorata. Il capro espiatorio è sempre pronto (l'immigrazione è quello più utilizzato), e contribuisce a costruire una realtà del percepito sempre più distante dalla realtà oggettiva. Forse ormai l'unico principio di realtà valido è proprio quello del percepito.
Si parla sempre più spesso di rottura di un patto (sociale, educativo) dove le gerarchie e i ruoli sono stati sconvolti e sovvertiti. Abbiamo imparato a nuotare in una società liquida. Temo ne saremo sommersi.
Mi sembra che il diritto alla felicità di un tempo stia diventando oggi una pretesa irragionevole, un'occasione di cinismo o come sta dicendo da qualche tempo Massimo Recalcati, di Narcinismo.
C'è sempre più bisogno di negare l'esistenza del dolore in ogni sua forma. La morte da tempo è uno scandalo per quanto onnipresente a qualsiasi ora sui nostri schermi. Della morte come realtà della fragilità umana che comunque ci continua a confrontare si parla sempre meno.
La fatica come condizione necessaria per conseguire qualche risultato viene per lo più negata. In ambito psicoterapico il cambiamento, il mutamento d'assetto che ci si aspetta da una psicoterapia qualunque sia, può comportare fatica. Allora, ecco la scorciatoia sempre più battuta della psicofarmacologia, più comoda rapida ed efficace per tutti, medici, ( e qui c'è un grande problema e una nostra grande responsabilità), e pazienti.
C'è infine (se mai si può dire così) una diffusa tendenza a fare di tutto una religione, il benessere, il cibo, il modello educativo, lo stile di vita con il rischio immediato, insito in ogni religione di una deriva fondamentalista e fanatica ( genitori no vax, genitori contro la scuola, quelli che si vogliono educare i bambini a casa loro, i vegani, i vegetariani e i diecimila eccetera di ogni giorno).
Questo è il catalogo, come si dice, questa è l'aria che gira intorno. Di questo mi piacerebbe discutere. Nessuno di noi mai è vissuto avulso dal suo contesto. Può essere una mia distopia, può essere una mia idiosincrasia a questa modernità, un mio tic, ma credo che nuovamente la realtà esterna stia bussando con nuova forza alle nostre porte. Ero troppo giovane nel '68 ma a quell'epoca credo sia successo qualcosa di analogo, imponendo a tutti di rivedere le proprie griglie, i propri schemi, rovistare nei propri armadi, cassetti, solai e cantine".

Dopo la lettura della lettera di Antonello Correale e dei molti commenti che ne sono seguiti nel corso dell'estate, ho almeno il sollievo di non essere davvero “voce nel deserto”. Certamente lo intuivo, ma è difficile toccare con mano una realtà resistente, resiliente all'aria che tira. Confesso la mia ignoranza ma non ho sentito molte voci istituzionali (Società, Scuole, di qualche forma psico) che si sollevino contro una deriva etica ormai palese una deriva di malessere istituzionalizzato, di deformazione, ormai consolidata, di percepire la realtà dove l'Io e il Noi, l' Individuo e la società non si confrontano più ma si confondono in un comune egoismo.
Ormai non sappiamo più cosa sia la luna ma conosciamo perfettamente ogni singola piega del nostro dito. Purtroppo ciascuno di noi, contrariamente alle speranze di un tempo, sta diventando un'isola a sè stante, ciascuna distante e “straniera”, ciascuna separata dall’unico Continente Uomo. Il torpore, se non l'Anestesia, evocata da Correale sta forse nella distanza ormai siderale tra “fare psichiatria” ed impegno civile. La scelta di fare psichiatria un tempo, per me come per molti, era soprattutto scelta di impegno civile dichiaratamente politico e per di più, politicamente schierato.
Ma sappiamo tutti, non solo del mondo liquido in cui ci troviamo a nuotare ma ormai dello stato gassoso di evaporazione di molte semplici parole (destra sinistra) e dei concetti che vi restano dietro e dentro. In questo gas ci stiamo dentro ciascuno con la propria brava mascherina per non soccombere ma è vero, c’è una condizione di anestesia, dalla quale dovremo decidere di risvegliarci, per quanto male ci possa fare.

Non sono uno psicoanalista ma vorrei provare a dire la mia sulla sollecitazione del prof. Correale.
Voglio dare un solo rimando generico alla psicoanalisi, senza approfondire i contenuti di tale rimando: credo che quella parte della psicoanalisi che guarda alle dinamiche di gruppo debba essere tenuta in considerazione, alla pari di quella che guarda le dinamiche più personali o del sé in prossimità dell'altro: penso allo stesso Freud di Psicologia delle masse, a Bion per i gruppi ecc..
Se è vero come scrive Correale che l'altro – nella nostra solitudine dell'incontro, fosse anche solo di fantasia - con la sua povertà e indigenza ci suscita ripulsa perché muove in noi vissuti di invidia percepita verso il nostro benessere, o di identificazione con la sua condizione (potrei essere io e allora...allontanati), non si può disconoscere che c'è un effetto di manipolazione delle nostre stesse istanze ideali che avviene a livello di cultura diffusa, mediatica.
Non mi interessa provare a spiegare perché questo accada (il perché i politici, ora, spingano sui tasti della sicurezza, del sovranismo, della difesa del benessere da supposti attacchi dall'esterno: ne hanno un vantaggio, questo è chiaro, ma rispondere al perché sia proprio questo tema a offrire credibilità e successo è un compito troppo arduo per le mie conoscenze) ma provare a capire come attecchisca a livello individuale.
La mia sensazione è che ci sia una costante traumatizzazione dell'ideale dell'io, almeno per la quella parte più sociale e meno legata a temi e rapporti intimi tra gli individui e i loro diretti accudenti.
Provo a spiegarmi con un modello. Se nel rapporto con l'altro devo sempre avere un senso della misura tra autoprotezione e generosità, possiamo dire che il Buon Samaritano sia un modello equilibrato (sia chiaro, nessun riferimento alla religione in senso stretto: mi interessa usare questo modello perché – come immaginario – ci appartiene, indipendentemente dalla nostra appartenenza o meno alla fede cristiana).
Il Buon Samaritano taglia il suo mantello a metà e protegge il povero dal freddo senza rischiare la propria salute. Non potrà farlo per altri, almeno in quel viaggio, ma lo fa alla prima occasione in cui lo sente necessario, non aspetta di incontrare il ventesimo povero.
Ora mi dicono che io non ho più un mantello, che sono stato depauperato, che altri me lo hanno già tagliato – forse senza neanche dirmelo – e che ogni mia istanza di generosità è una forma di autolesionismo da cui mi devo proteggere. Mi protegge chi mi dice: sappi che sei già stato generoso, ora pensa a te. Chi ti ha insegnato la generosità (tuo padre? tua madre?) è lo stesso che ti ha tolto il mantello (quante volte sentiamo dire che le generazioni di oggi sono più povere della precedente, che la scala sociale – espressione di per sé orrenda e tutt'altro che neutra in termini politici e sociologici – è bloccata, che le pensioni dei nostri genitori sono il risultato dei nostri più magri stipendi?).
Il samaritano è schernito, nella migliore delle ipotesi deriso, reso "inattuale" e con lui ogni individuo, tra quelli non ancora rinsecchiti nelle proprie istanze ideali, che magari un dubbio su cosa stia accadendo ancora lo "sente" . Il senso della "necessità" ad agire è annichilito da altre – imposte - necessità di senso opposto, di autoprotezione.
Quanto tempo ci vorrà per curare questa ferita imposta alla nostra civiltà e, dunque, a ciascuno di noi?


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