ADDIZIONARIO
Per un lessico biopsicosociale delle addiction e delle dipendenze
di Stefano Canali

IL RACCONTO DELLE STORIE NELLA DIAGNOSI E NELLA CLINICA DELLE DIPENDENZE

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3 novembre, 2018 - 11:25
di Stefano Canali

Stefano Canali di Psicoattivo ci porta una riflessione sulla questione complessa che lega l'aspetto inerente la narrazione (la storia di vita di un paziente) con la perdita progressiva di controllo sul comportamento (paradigma oggi dominante tra le differenti ipotesi che tentano di spiegare il comportamento di addiction): in che modo, si chiede, la storia individuale, spinge a far sì che un individuo riesca o meno a esercitare un controllo efficace sugli impulsi provenienti dal problema di addiction? Particolare enfasi viene posta su questo aspetto:

"Le neuroscienze cognitive suggeriscono invece che il controllo volontario del comportamento, e quindi anche la sua compromissione, dipendono largamente dai valori, dalla rete delle rappresentazioni attraverso cui un individuo misura e compara nel presente e nel tempo gli stimoli interni, l’ambiente, i suoi bisogni, gli appetiti, i desideri, le ricompense e le punizioni che hanno seguito le sue azioni. È dentro a un sistema cognitivo che codifica norme e azioni sulla base di proiezioni avanti e indietro nel tempo, di memorie e di piani per il futuro, che un impulso, una compulsione, come quelli legati alla condizione della dipendenza, possono trovare una modulazione, un eventuale imbrigliamento."

Raffaele Avico, Psychiatry On Line

Il racconto delle storie nella diagnosi e nella clinica delle dipendenze

Dalla sua prima edizione nel 1953, il DSM è stato oggetto di critiche aspre e numerose, molte delle quali hanno riguardato i criteri diagnostici del disturbo da uso di sostanze psicoattive e delle dipendenze. Relativamente a questa condizione il DSM è stato ad esempio accusato, tra gli altri: 1) di mescolare nei criteri diagnostici, confondendoli, gli elementi nucleari della dipendenza e le conseguenze della dipendenza; 2) di possedere una scarsa applicabilità interculturale; 3) di aver impropriamente fuso le categorie di abuso e dipendenza da sostanze del vecchio DSM-IV in un unico disturbo da uso di sostanze; 4) di indicare una soglia per le diagnosi troppo bassa, dato che è necessario soddisfare solo due criteri qualunque, tra gli undici identificati dal DSM-5, per avere un disturbo da uso di sostanze.

L’iponarratività nella diagnosi e nella pratica clinica delle dipendenze

In questo articolo voglio però soffermarmi su un aspetto critico particolare e poco discusso del DSM che John Z. Sadler ha definito l’iponarratività1. È un termine con cui Sadler descrive la marginalità delle storie delle persone e del loro racconto nelle caratterizzazioni e nelle procedure diagnostiche del DSM. Questo particolare tratto si sta purtroppo diffondendo anche nella pratica clinica perché il modo in cui si pensa e si tenta di trattare una malattia è gioco forza condizionato dalla maniera in cui viene definita come entità nosologica e dalle operazioni con cui si arriva alla sua diagnosi.

A dire il vero esiste nei DSM una precisa attenzione verso la storia del disturbo, per la sua temporalità, per il modo in cui si sviluppa nel corso del tempo, per il cambiamento dei suoi segni e dei suoi sintomi, per l’evoluzione dei correlati fisiopatologici di queste manifestazioni. Si tratta però in tal caso di un interesse verso il corso longitudinale del disturbo, dal momento in cui i sintomi si sono manifestati alla eventuale guarigione oppure al modo in cui cronicizza. Il disturbo viene così inquadrato come se fosse un’entità discreta, un organismo autonomo che a un certo punto irrompe dall’esterno e vive la sua vita secondo sue proprie leggi ontogenetiche.

L’arco dell’esistenza individuale e il suo racconto non hanno posto nelle diagnosi del DSM. I disturbi del comportamento, e quindi le dipendenze, sono descritti come una collezione relativamente ristretta di condizioni e comportamenti atomici, singolari e indipendenti, che occorrono in un determinato periodo della vita di una persona. E queste manifestazioni sono considerate sintomi di un disturbo perché tra di essi esiste un numero di correlazioni e associazioni statisticamente significative misurate a livello popolazionale, indipendentemente dal modo in cui hanno trovato origine e trama nella storia di un individuo. Ma una persona e tutte le sue manifestazioni sono il risultato dell’insieme dei fatti che ha vissuto. Più precisamente, un individuo, la sua identità e le sue espressioni fenotipiche, normali e patologiche, sono plasmate dal modo in cui un soggetto sente, rappresenta e soprattutto racconta la storia della sua vita2. E i dettagli di questa storia e i suoi racconti nel tempo non sono soltanto all’origine di un disturbo, non indicano solamente come i fatti si sono distillati in esperienze, come era un individuo e come è diventato ciò che è al tempo della diagnosi.

La storia e soprattutto la narrazione della storia del paziente permettono anche di capire se i sintomi che presenta possono sensatamente riferirsi a una condizione patologica specifica, ad esempio la dipendenza. Comportamenti, situazioni, pensieri hanno infatti solo un senso soggettivo, un valore individuale e relativo alla storia di una persona e al modo in cui la vive, alla maniera in cui la narra a se stesso e agli altri. Un determinato rapporto con una sostanza può essere problematico per un individuo. Ma una analoga relazione con uno stesso agente psicoattivo può risultare tutto sommato funzionale per un’altra persona, per qualcuno che ha avuto una storia differente o che vive e sente diversamente una storia magari simile.

È il modo in cui un soggetto vive e racconta la sua storia a determinare l’eventuale valore patologico che certi comportamenti e certe condizioni possono avere per un individuo. È il modo in cui un soggetto vive, sente e racconta la sua storia a costruire nel tempo eventuali sistemi di correlazioni patogene tra aspetti diversi della sua vita, dei suoi rapporti con gli altri e con l’ambiente da cui scaturisce un complesso morboso. Per queste ragioni, le narrazioni soggettive possono poi dare accesso a queste correlazioni, alle dinamiche con cui si sono prodotte nel tempo e indicare una costellazione di sintomi assimilabile a un dato disturbo.

Le narrazioni nella clinica delle dipendenze

Rispetto al campo della diagnosi, il valore delle narrazioni è ancor più evidente in clinica.

Il modo in cui un individuo racconta la sua vita, la sua storia di soggetto dipendente è fondamentale per comprendere come intervenire in clinica, come aiutarlo a recuperare il controllo. E il racconto che fa della sua storia, la maniera in cui la sente narrare influenza evidentemente l’evoluzione della condizione di cui soffre3.

Il recupero della centralità del racconto e delle narrazioni per le diagnosi e per la clinica è peraltro coerente da un lato con le rappresentazioni teoriche dell’Io proposti dalla scienze cognitive e dall’altro con il nuovo e ormai prevalente modello di concettualizzazione delle dipendenze come perdita del controllo volontario del comportamento.

Le scienze cognitive rappresentano l’Io come un sistema complesso composto di diversi agenti e subsistemi funzionali, di diverse identità quindi. In senso stretto, l’Io sarebbe un agente narrativo, un centro di gravità narrativo4, costantemente impegnato a tessere storie e interpretazioni che tengono assieme i diversi agenti interni della mente che informano il comportamento nel presente, i diversi sé che un soggetto impersona nei vari ambienti e contesti in cui vive e i differenti sé che pensa e vive quando si rappresenta nella dimensione temporale, tra passato, presente e futuro.

Le neuroscienze cognitive suggeriscono invece che il controllo volontario del comportamento, e quindi anche la sua compromissione, dipendono largamente dai valori, dalla rete delle rappresentazioni attraverso cui un individuo misura e compara nel presente e nel tempo gli stimoli interni, l’ambiente, i suoi bisogni, gli appetiti, i desideri, le ricompense e le punizioni che hanno seguito le sue azioni. È dentro a un sistema cognitivo che codifica norme e azioni sulla base di proiezioni avanti e indietro nel tempo, di memorie e di piani per il futuro, che un impulso, una compulsione, come quelli legati alla condizione della dipendenza, possono trovare una modulazione, un eventuale imbrigliamento. Sono peraltro ormai innumerevoli gli studi di neuroimmagine che dimostrano il ruolo delle rappresentazioni simboliche, linguistiche, dei processi cognitivi mediati dalla corteccia prefrontale, nella modulazione e nell’inibizione dei centri profondi, amigdala, nuclues accumbens, striato, da cui dipendono i comportamenti impulsivi e compulsivi5.

Ma i valori, la rete di rappresentazioni, la loro reciproca codificazione sono realtà temporali, nodi, prospettive e significati che vivono nella storia, dentro a una vita e attraverso la narrazione. Il valore con cui si computa un impulso, un desiderio, anche quello descritto come irresistibile del craving per la sostanza o il comportamento da cui si dipende, sta nel rapporto che la rappresentazione della loro realizzazione – non questa come realtà oggettiva – ha col futuro e nel legame col passato. Ma questo rapporto sta dentro a una biografia, è possibile soltanto dentro e per mezzo di una narrazione.

Patologia delle scelte intertemporali, dimensione narrativa e cura delle dipendenze

La dipendenza sembra il perfetto paradigma della patologia della scelta intertemporale. Decidere tra una ricompensa prossima, consumare una sostanza adesso, e un valore futuro, i vantaggi e i beni che si potranno eventualmente ottenere nel futuro grazie all’astinenza. E ancor più delle decisioni che riguardano valori sincronici (questo o quello ora), le preferenze e le scelte nel caso delle dipendenze scaturiscono dalle esperienze, dalle attese e dagli obiettivi futuri rispetto al presente e in rapporto a un passato. Più esattamente, le scelte intertemporali derivano dal rapporto tra le rappresentazioni degli obiettivi futuri e le descrizioni del presente e del passato: dipendono cioè dalle storie e dalle narrazioni con cui comprendiamo e immaginiamo la nostra vita.

Nella clinica delle dipendenze le narrazioni, potrebbero aiutare a stimolare la ricostruzione di una identità soggettiva compiuta e unitaria a partire dai lembi delle storie vissute e delle proiezioni verso il futuro, ricucendo la frammentarietà temporale dell’Io, particolarmente accentuata nelle dipendenze e parte fondamentale nel discontrollo rispetto al rapporto con l’oggetto della dipendenza

È impossibile aiutare un soggetto senza biografia. E soprattutto, facendo a meno della narrazione, è impossibile assistere un soggetto dipendente che chiede aiuto. Perché un soggetto che vive una condizione di dipendenza è qualcuno che soffre soprattutto a causa della dolorosa e ingovernabile oscillazione delle rappresentazioni di sé nel tempo, di ciò che sente di essere e di ciò che vorrebbe incarnare: una persona che patisce per le contraddizioni, le ambiguità, gli incontrollabili ribaltamenti dei significati, dei valori e degli ideali della sua storia, del racconto che ne fa.

NOTE

1 Sadler JZ, Values and Psychiatric Diagnosis, Oxford University Press Oxford, New York, 2005.

2 Schechtman M (2011) The Narrative Self. In Shaun Gallagher, The Oxford Handbook of the Self. Oxford University Press, Oxford, 2011.

3 Pennebaker, JW. (2000). "Telling stories: The health benefits of narrative". Literature and Medicine. 19: 3–18; Adler, JM. (2012). "Living into the story: Agency and coherence in a longitudinal study of narrative identity development and mental health over the course of psychotherapy". Journal of Personality and Social Psychology. 102 (2): 367–389. 

4 Dennett DC. (1992) The Self as a Center of Narrative Gravity. In: F. Kessel, P. Cole and D. Johnson (eds.) Self and Consciousness: Multiple Perspectives. Hillsdale, NJ: Erlbaum.

5 Ad esempio: Lieberman MD, Eisenberger NI, Crockett MJ, Tom SM, Pfeifer JH, Way BM. Putting feelings into words: affect labeling disrupts amygdala activity in response to affective stimuli. Psychol Sci. 2007 May;18(5):421-8; Constantinou E, Van Den Houte M, Bogaerts K, Van Diest I, Van den Bergh O. Can words heal? Using affect labeling to reduce the effects of unpleasant cues on symptom reporting. Front Psychol. 2014 Jul 22;5:807; Burklund LJ, Creswell JD, Irwin MR, Lieberman MD. The common and distinct neural bases of affect labeling and reappraisal in healthy adults. Front Psychol. 2014 Mar 24;5:221.

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